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ACQUA

Chiara Carminati
L’acqua e il mistero di Maripura

Era un paese di gente povera che viveva di stenti. Coltivavano orti polverosi e qualche capra con troppe ossa. I bambini si lavavano con le foglie masticate dalla piante grasse, dopo aver spremuto in bocca il loro succo acidulo. Le poche bestie dei dintorni erano cotte e rinsecchite dal caldo e l’unica benedizione per tutti erano i temporali, che scoppiavano di rado e duravano poco, per capriccio di qualche nuvola litigiosa.
Quando si avvicinava il temporale, la gente di Maripura trasportava fuori casa bacili e bacinelle, tini, secchi e secchielli.
Era una festa che durava solo qualche minuto ma regalava acqua a sufficienza per non far morire di sete gli uomini e le bestie.


Erri De Luca
Opera sull’acqua e altre poesie

Chi ha steso braccia al largo
battendo le pinne dei piedi
gli occhi assorti nel buio del respiro,
chi si è immerso nel fondo di pupilla
di una cernia intanata
dimenticando l’aria, chi ha legato
all’albero una tela e ha combinato
la rotta e la deriva, chi ha remato
in piedi a legni lunghi: questi sanno
che le acque hanno volti.
E sopra i volti affiorano
burrasche, bonacce, correnti
e il salto dei pesci che segnano il volo.


Gaston Bachelard
Psicanalisi delle acque. Purificazione, morte, rinascita

Sono nato in un paese di torrenti e ruscelli, in un angolo della Champagne, chiamato le Vallage per il gran numero delle sue valli. Il posto più bello per me era il fondo di una valletta accanto al fiume, all’ombra dei salici. Ancora mi piace seguire la corrente, camminare sulle rive nella giusta direzione, nella direzione dell’acqua che scorre, l’acqua che porta la vita al prossimo villaggio.
Ma il paese natio più che un tratto di territorio è una sostanza, è una roccia o un tipo di terreno, un deserto o un tratto d’acqua o una luce.
E’ il luogo dove si materializzano i nostri sogni.
Sognando accanto al fiume, davo la mia immaginazione all’acqua, l’acqua verde e chiara, l’acqua che fa verde i prati. Non posso sedere accanto a un ruscello senza perdermi in profonde fantasticherie, senza rivivere quella felicità.
Non è necessario che il fiume ci appartenga; non è necessario che l’acqua ci appartenga.
L’anonima acqua conosce tutti i miei segreti.
E la stessa memoria sgorga da ogni sorgente.
                   

Herman Melville
Moby Dick

Guardate la folla che sta lì a contemplare l’acqua. Simili a silenziose sentinelle, tutt’intorno alla città stanno migliaia e migliaia di uomini mortali con la mente rapita dall’oceano. Alcuni sono sporti da uno steccato; alcuni sono seduti sulle testate dei moli; altri guardano oltre le murate delle navi provenienti dalla Cina; altri ancora spingono lo sguardo nel sartiame, come per protendersi ancora di più verso il mare. Ma questi sono uomini di terra, che passano i giorni della settimana tra assi e intonaco, legati ai banchi, inchiodati alle sedie, curvi sulle scrivanie. Com’è questo? Sono spariti i verdi campi? Cosa fanno qua costoro? Ma guardate! Arriva altra gente, che va diretta verso l’acqua e che sembra pronta a tuffarsi. Strano! Nessuna cosa li appaga se non l’estremo limite della terraferma; deambulare sottovento, all’ombra di quei magazzini, non è per loro abbastanza. No. C’è bisogno che si avvicinino all’acqua il più possibile, fin quasi a cadervi dentro.
              

Ignazio Silone
Fontamara

Il notaio s’avanzò verso di noi e lesse l’accordo intervenuto tra la popolazione di Fontamara e l’impresario per la spartizione del ruscello. “L’accordo è chiarissimo”- disse -. “Tre quarti dell’acqua andranno nel nuovo letto tracciato dal comune e i tre quarti dell’acqua che resta continueranno a scorrere nel vecchio fosso”. “Non è così” – protestò subito e giustamente Pilato. “L’accordo dice tre quarti e tre quarti. Nient’altro. Dunque metà e metà. Cioè, tre quarti a noi e tre quarti all’impresario. Tanto per ciascuno”. “Tre quarti e tre quest’è una diavoleria” – dissi io perdendo la pazienza. “Mai si è sentita una simil stranezza. La verità è che l’acqua è di Fontamara, e deve restare di Fontamara”. Dal nostro gesticolare e gridare, i paesani che erano sulla strada, attorniati dai carabinieri, capirono che la spartizione dell’acqua stava per essere fatta a nostro danno e cominciarono a tumultuare.
                 

Luca Morino
Mistic Turistic

Sono di fronte alla Sacca di Scardovari, qualche centinaio di metri alle mie spalle piccole ondine di mare basso assaggiano gli argini semipaludosi, nulla aggredisce lo sguardo, sembra tutto fermo. L’acqua salmastra è appena increspata, gli argini sono sporcati da spazzatura e rami secchi, dalle rive emergono scogli scuri vellutati di alghe e cozze nere. Mi dissolvo. Colpi di martello risuonano nitidi e inspiegabili, lo sciabordio delle barche ormeggiate avviene senza ritmo, ogni tanto. Il Delta vive di una vita piccola, piccolissima, l’enorme abbraccio finale del Po offre sicurezza e riparo a flore e faune a rischio o, forse, solo più timide.

          
Marco Paolini
Bestiario veneto. Parole mate

Sono un rio di pianura/che scorre lento/ e sonnolento/ in mezzo al verde.//Sono una roggia/ che trasporta una foglia:/ la tiene a galla/ perché non vada a fondo.//Anche la terra sono/che cala zitta al mare,/come la mia vita/con gli ultimi canti. B. Marin
“Scusi, dov’è il Sile?” Domando a una bionda svampita di Zeriolo, a metà strada tra Castelfranco e Treviso. “Dev’essere verso Bassano”, risponde, incerta, e mi indica la direzione opposta al fiume che, invece, è dietro l’angolo. Per capire che rapporto c’è tra gli abitanti e il territorio, è buona cosa uscire dalla via maestra e chiedere informazioni a caso. Il test migliore è quello di domandare delle acque. Sono sempre le prime ad essere dimenticate. E’ per incultura e anche per cattiva coscienza da inquinamento.


Pablo Neruda
Storia di acque, di boschi, di popoli

Compare la pioggia nel paesaggio, cade intrecciandosi da ogni parte del cielo. Vedo appiattirsi i grandi girasoli dorati e oscurarsi l’orizzonte dei monti per la sua palpitante velatura.
Piove sopra il villaggio, l’acqua danza dai sobborghi di Coilaco fino alla parete dei monti; il temporale corre per i tetti, entra nelle case di campagna, nei recinti dei giochi; lungo il fiume, tra cespugli e pietre, il maltempo riempie i campi di apparizioni e di tristezza.
Pioggia, amica dei sognatori e dei disperati, compagna degli inattivi e dei sedentari, agita, sbriciola le tue farfalle di vetro sui metalli della terra, corri per le antenne e per le torri, infrangiti contro le case e i tetti, distruggi il desiderio di azione e aiuta la solitudine di coloro che tengono le mani sulla fronte dietro le finestre che sollecita la tua presenza.
Tra le foglie bagnate, pesanti gocce come frutti pendono dai rami; odore di terra, di caprifogli inumiditi; apro il portone calpestando le prugne abbattute, cammino sotto i rami verdi e bagnati. Attraverso di essi appare d’improvviso il cielo, come il fondo della mia tazza azzurra, appena pulito di pioggia, sostenuto dai rami e pericolosamente fragile. Il cane accompagnatore cammina, coperto di gocce come un vegetale.


Paolo Rumiz
La secessione leggera

Che mito favoloso l’Adriatico. Storie di lampare, mandolini, arcipelaghi e scorrerie; guerre, commerci e dolorosi abbandoni; merci cinesi, vele cristiane, galere turche e genti del Nilo. Una mescolanza di eredità illirica, bizantina, ottomana, veneziana, ragusea, spalatina, anconetana, ebraica, austro-ungherese. Rimini, notturna, carnale, sabbiosa e indolente, è l’antitesi perfetta del roccioso santuario del Tersatto, a picco sull’altra sponda, coperto dagli ex-voto dei marinai spergiuri. Paiono due mondi inconciliabili. Eppure, quel sacro e quel profano sono due facce di un identico modo di dirigere storie, genti e memorie. La terra allontana, il mare avvicina.


Paolo Sorcinelli
Storia sociale dell’acqua
        
Dalla fine del XVIII secolo gli uomini hanno intrattenuto con l’acqua rapporti completamente diversi e rivoluzionari rispetto al passato: l’hanno compressa nelle caldaie, ne hanno deviato il corso per portarla negli stabilimenti produttivi, l’anno imbrigliata nelle condotte e nelle bottiglie per venderla, fatta precipitare dall’alto per creare elettricità, irreggimentata con nuovi percorsi e con le bonifiche per frenarne la potenza e gli effetti deleteri, codificata ed esaltata a fini terapeutici. Soprattutto l’hanno analizzata e studiata.


Philip Ball
H2O una biografia dell’acqua

L’acqua non ha mai perso il suo mistero. Ancora oggi, dopo duemilacinquecento anni di indagini filosofiche e scientifiche, la più vitale tra le sostanze del mondo resta circondata da profonde incertezze. Ciò che nessuno può ignorare dell’acqua è la sua unicità. Al mondo esistono altre sostanze che si presentano in un’infinita varietà di forme, pur essendo di carattere simile. Generalmente opache, tali sostanze tendono a mantenere la propria forma: una foglia, una roccia, un animale sono composti da strutture che non si separano se le si sonda con un dito. L’acqua si comporta in modo opposto. E’ condiscendente, mobile, trasparente, insapore. Si ha facilmente l’impressione che, a paragone col resto della realtà, essa sia in qualche modo ultraterrena.


Tiziano Scarpa
Venezia è un pesce

In laguna ci sono strade invisibili in mezzo all’acqua. Sono i canali navigabili, con i fondali più profondi: doppie file di tronchi segnano la via ai battelli per non farli incagliare nelle secche. I gabbiani si riposano in cima ai quei tronchi, ognuno sul suo rotondo monolocale di cento centimetri quadrati. Fanno la siesta sulle briciole dei rii. Si svegliano tutti insieme, si danno appuntamento alle Zattere con i pensionati e le vecchiette che svuotano sulla riva pane secco e cornici di pancarré. Sulla superficie dei canali scoppiano le bollicine dei granchi. L’acqua stagnante rabbrividisce per un attimo, il suo sonno profondo viene disturbato dalla coda di un branzino, dal guizzo di un cefalo.


Vandana Shiva
Le guerre dell’acqua

In tutto il mondo, nel corso della storia, i diritti idrici hanno assunto la loro forma prendendo in considerazione contemporaneamente i limiti degli ecosistemi e le necessità della popolazione. Storicamente, quello relativo all’acqua è sempre stato trattato come un diritto naturale- un diritto che deriva dalla natura umana, dalle condizioni storiche, dalle esigenze alimentari e dalle idee di giustizia.
I diritti all’acqua come diritti naturali non nascono con lo stato: scaturiscono da un dato contesto ecologico dell’esistenza umana. In quanto diritti naturali, quelli sull’acqua sono diritti di usufrutto; l’acqua può essere utilizzata ma non posseduta.
Gli esseri umani hanno diritto alla vita e alle risorse che la sostengono, e tra queste c’è l’acqua. Il suo essere indispensabile alla vita è il motivo per cui, secondo le leggi consuetudinarie, il diritto di accedervi è stato accettato come un fatto naturale, sociale.

Jonh Von Duffel
Noi torniamo sempre all’acqua

L’odore dell’acqua.
Si può sentirne l’odore. Generalmente l’acqua è considerata inodore. Invece può essere odorata. Sono in grado di ricordare l’odore di diversi fiumi e mari. E anche se non è l’acqua in sé ad avere quel certo odore, ma solo l’unione dell’acqua con qualcosa d’altro, il bello degli odori di cui conservo il ricordo è che sono odori dell’acqua.
Ricordo com’è l’odore dell’acqua che scorre, che fluisce, dell’acqua viva. Proprio come all’opposto c’è l’acqua morta, maleodorante. Esiste una particolare connessione tra acqua e odore. Quando, dopo un lungo periodo di siccità, noi usciamo in strada al cadere della prima pioggia, l’aria sembra non solo più fresca e come lavata, ma piena di odori. La pioggia che vapora dall’asfalto, la terra imbevuta, l’erba, il fogliame, dopo quello scroscio tutto riacquista nuovamente odore. E gran parte della limpidezza e della frescura che percepiamo quando cessa uno di questi rovesci deriva dal fatto che l’acqua ci ha restituito la dimensione dell’odore.


Jonh Von Duffel
Noi torniamo sempre all’acqua

Abitatori dell’acqua.
Nelle storie delle madri e delle nonne, nei loro ammonimenti, l’acqua era abitata. E in estate, mentre facevamo colazione sulla terrazza e la nera Orpe scivolava via silenziosa portando con sé i nostri pensieri ancora intrisi di sogni, e mentre il nostro desiderio di raggiungere l’acqua diventava sempre più forte, mamme e nonne raccontavano le loro storie ammonitrici sugli abitatori dell’acqua, e noi seguivamo le loro parole con grandi occhi spalancati, lo sguardo che oltre il bordo dei piatti scivolava giù verso il giardino, la fontana, il fiume. Nella Orpe abitava l’Uomo-Rastrello. Si nascondeva nel nero dell’acqua. Dormiva nelle profondità del fiume, nei punti in cui gli alberi erano più fitti e carichi di foglie. La sua lunga barba toccava il fondo, le sue braccia si allungavano lungo la corrente e ancora più lontano arrivava il rastrello col quale, se qualcuno disturbava il suo riposo, afferrava il disturbatore sulla riva, lo trascinava in acqua e lo traeva a sé giù nel profondo. Muschio, alghe e fuco ricoprivano tutto il corpo dell’Uomo- Rastrello,nere piante acquatiche melmose erano impigliate nella barba.


Jonh Von Duffel
Noi torniamo sempre all’acqua

Dipingere l’acqua.
Il giorno seguente il Reno è verde mare. E’ una giornata ventosa, che accavalla e trascina nuvole e sole.
Lievi raffiche corrugano la superficie dell’ acqua e sospingono controcorrente piccole onde a losanga.
Un alito freddo passa lungo i bordi dell’ acqua liscia, silenziosa, facendoli rabbrividire come una pelle.
Fasci di luce  e ombre di nubi si mischiano nella corrente, che lampeggia schiumando nel suo verde marino.
Griglie di raggi penetrano a illuminare il fondo, che poi si chiude di nuovo sotto le ombre. E’ difficile non voler risalire ancora il fiume e non pensare a nient’ altro che alla mutevole bellezza della viva corrente. Ma qui c’è anche il fiume del ricordo. E qui ci sono gli abitanti di quel fiume. Qui c’è il ritratto del mio indipingibile bisnonno, della cui morte che non voleva mai aver fine, i domestici confabulavano raccontandone gli aspetti più truci.


Jonh Von Duffel
Noi torniamo sempre all’acqua

Ombre d’acqua.
Ricordo gli acquerelli del pittore, che vidi bruciare dopo che lei si era separata da lui per causa mia, e pare lui avesse detto : “Noi torniamo sempre all’ acqua “.
Ricordo lo strano fascino di quei quadri che, tenuto conto della sua rabbia, lei tolse dalle pareti con sorprendente cautela, facendo attenzione a spingere nel fuoco per il lungo i fogli assolutamente intatti, senza strappi o pieghe, come se volesse non distruggere gli acquarelli, ma soltanto mostrarli al fuoco.  Ricordo il fasto di quei quadri, l’ agio dello sguardo che vi traspariva, e ricordo ancora quanto per me fu difficile restare indifferente ad essi. Nei quadri che lei mostrò prima a me poi al fuoco, potei vedere che lui sapeva molte cose dell’ acqua, del silenzio e del ciangottare dell’ acqua, della sua immanente risolutezza, del modo in cui si muove e sta ferma. E fu come sacrificare uno sguardo, un sapere divenuto immagine, quando il fuoco divorò le tracce che l’ altro elemento, l’ acqua, l’ elemento nemico, aveva dipinto in quei colori e in quelle forme.
E io, che ero lì accanto, mi rassegnai a questo accecamento e tacqui.


Jonh Von Duffel
Noi torniamo sempre all’acqua

Pesca con la mosca.
L’ attesa. Lo sguardo ansioso, fissamente puntato su quell’ amo ballonzolante verso valle, il cui fitto piumaggio nasconde la punta provvista di un uncino. Le giravolte e le torsioni serpentine che alla lenza imprimono le correnti dalle direzioni variabili, e che si trasmettono al piumaggio flottante come una sorta di vita, una specie di arbitraria vitalità. I gorghi e i vortici che la corrente crea nelle vicinanze dell’ amo e che pulsano come piccole scosse elettriche attraverso la lenza e la canna, ma calma e sangue freddo, ancora non ci siamo. E poi il momento lungamente atteso eppure sempre imprevedibile nella sua repentinità, quell’ attimo colmo di attesa e di spavento mentre la speranza si realizza, quando il pesce affiora come dal nulla, prende la mosca, frusta l’ acqua con la pinna caudale e vuole rituffarsi nei fondali, ma avverte la resistenza, il dolore lancinante della stratta che la canna assesta scattando all’indietro per ancorare profondamente la punta dell’ amo nella carne e l’inarrestabile moto della lenza che si oppone al percorso del pesce.
E poi la domatura.


Jonh Von Duffel
Noi torniamo sempre all’acqua

Sventramenti.
C’ erano giorni in cui questa direzione, questo cerchio temporale che si richiudeva sempre, era come la corrente dell’ acqua, un tranquillo, sicuro scivolare via con una meta predestinata. E c’ erano giorni in cui essa diventava un unico insopportabile senso di lontananza e di allontanamento, un perenne non-ancora e non-più.
Erano quelli i giorni dell’impazienza, di un tempo che si dilatava all’infinito. In giorni simili lui conosceva un solo modo per aiutarsi: doveva costringere il tempo a rientrare nel paragone che glielo rendeva più tollerabile, nell’immagine che lui aveva del tempo. Doveva scendere al fiume, accostarsi all’ acqua, il cui fluire nero e silenzioso lo liberava dal tempo bloccato, portava via il tempo sull’ ampio dorso della corrente e infine diventava tempo essa stessa, un fluido, ininterrotto trascorrere di tempo, tempo nella sua forma più bella, tempo nella forma della regolarità e dell’indifferenziazione.


Jonh Von Duffel
Noi torniamo sempre all’acqua

L’odore dell’acqua.
E io percepisco l’ odore dell’ acqua in sé: acqua verde, selvaggia, che scorre vorticando in una larga corrente. Ancora prima di sedermi a guardare, ancora prima di aver visto l’ acqua, io avverto l’ odore di questa frescura, di questo refrigerio, di questo respiro dell’ acqua nell’ aria primaverile, avverto come lo sciabordio delle onde sulle rive del fiume induca i sassi ad emanare il loro odore in una specie di volta, bagnata dall’ acqua, illuminata da un pallido sole di primavera. E poi vedo come l’ acqua con lievi onde si insinua in tutti i pori dei sassi e restituisce loro il pieno colore e il peculiare odore, il respiro dell’ acqua e dei sassi. E mi siedo sulla riva e guardo l’ acqua che scorre via primaverilmente verde, con innumerevoli piccoli vortici a forma di bocciolo che come per gioco si rincorrono e si fondono, si gonfiano e si allontanano in marzo, poco prima di Basilea, sul Reno.


Jonh Von Duffel
Noi torniamo sempre all’acqua

Acqua e numero.
E comincio a capire l’ atteggiamento imperioso del mio bisnonno, la tensione della sua schiena e dietro la schiena le mani agganciate e intrecciate. Perché lui era per la solidità, per la stabilità, per la numerabilità delle sue dieci dita, e la sua paura dell’ acqua era anche questo : la fantasmagoria di quelle mani indefinite, di quelle dita indistinte senza appiglio e resistenza, niente di più che un vortice sfuggente nell’ acqua, un movimento all’interno di un movimento più grande, nel quale si sfacevano come una vecchia rete e sparivano. E comincio a capire il suo odio, la sua paura diventata odio per l'acqua, che scorre via in un largo letto, si spinge inarrestabile e possente attraverso il paesaggio immerso nel sonno, non con dimensioni e i limiti precisi di qualsiasi altra cosa, ma in una sterminata mescolanza di acqua con acqua.


Jonh Von Duffel
Noi torniamo sempre all’acqua

Ritorno.
Azzurro. Un azzurro assolutamente irreale, che mutava a vista d’ occhio, venato di scuro nei canali navigabili, chiaro, quasi trasparente dove lambiva i dorsi arcuati dei banchi di sabbia, armonioso e teso come una pelle sopra il fondo e poi di nuovo mosso da increspature, mentre si infrangeva e ribolliva, grigio, biancogrigio di spruzzi.
Il mare dispiegava sempre più generosamente la sua multiformità, la sua ricchezza, diventavano sempre più visibili il gioco del vento e delle onde, le ombre del fondo, le diverse tonalità, flussi, temperamenti dell’ acqua che si intrecciavano andando alla deriva, confluivano nella sua incredibile sconfinatezza. Per un lungo tratto avevamo viaggiato puntando dritto verso il mare, poi la strada piegò snodandosi lungo la costa, parallela all’ acqua.
Si avvicendavano scogliere, baie, piccole spiagge. Alcune barche, motopescherecci e, nell’azzurro caliginoso del lontano orizzonte, questa o quella grossa petroliera seguivano il nostro moto o avanzavano nella direzione opposta.

 

ALDA MERINI

Il mio passato

Spesso ripeto sottovoce
che si deve vivere di ricordi solo
quando mi sono rimasti pochi giorni.
Quello che è passato
è come se non ci fosse mai stato.
Il passato è un laccio che
stringe la gola alla mia mente
e toglie energie per affrontare il mio presente.
Il passato è solo fumo
di chi non ha vissuto.
Quello che ho già visto
non conta più niente.
Il passato ed il futuro
non sono realtà ma solo effimere illusioni.
Devo liberarmi del tempo
e vivere il presente giacché non esiste altro tempo
che questo meraviglioso istante.

Sogno d'amore

Se dovessi inventarmi il sogno
del mio amore per te
penserei a un saluto
di baci focosi
alla veduta di un orizzonte spaccato
e a un cane
che si lecca le ferite
sotto il tavolo.
Non vedo niente però
nel nostro amore
che sia l'assoluto di un abbraccio gioioso.

Antenate bestie da manicomio. L'umile giunchiglia

Dimmi almeno
che oscura meraviglia
già ti prende di me,
che trovi bella
questa sommessa,
e umile giunchiglia
che già ti paragona
a una stella;
dimmi che me divina
e me presente
senti dentro
il tuo letto di piacere,
dimmi che un bacio
fuga dolcemente
tutte le smanie
e tutte le chimere.


La volpe e il sipario

La mia poesia è alacre come il fuoco
trascorre tre le mie dita come un rosario.
Non prego perché sono un poeta della sventura che tace, a volte, le doglie di un parto dentro le ore,
sono il poeta che grida e che gioca con le sue grida,
sono il poeta che canta e non trova parole,
sono la paglia arida sopra cui batte il suono,
sono la ninnananna che fa piangere i figli,
sono la vanagloria che si lascia cadere,
il manto di metallo di una lunga preghiera del passato cordoglio che non vede la luce.

Folle, folle, folle di amore per te. Poesie per giovani innamorati.

Non voglio dimenticarti, amore
Non voglio dimenticarti, amore,
né accendere altre poesie:
ecco, lucciola arguta, dal risguardo dolce,
la poesia ti domanda
e bastava una inutile carezza
a capovolgere il mondo.
La strega segreta che ci ha guardato
ha carpito la nudità del terrore,
quella che prende tutti gli amanti
raccolti dentro un'ascia di ricordi.


Alda Merini

Io non ho bisogno di denaro
ho bisogno di sentimenti
di parole
di parole scelte sapientemente
di fiori detti pensieri
di rose dette presenze
di sogni che abitino gli alberi
di canzoni
che facciano danzare le statue
di stelle che mormorino
all'orecchio degli amanti .
Ho bisogno di poesia
questa magia che brucia
la pesantezza delle parole
che risveglia
le emozioni e dà colori nuovi


Alda Merini

Spazio spazio io voglio tanto spazio
per dolcissima muovermi ferita
voglio spazio per cantare crescere
errare e saltare il fosso
della divina sapienza.
Spazio datemi spazio
ch'io lanci un urlo inumano
quell'urlo di silenzio negli anni
che ho toccato con mano.


Alda Merini

Quando l'angoscia
spande il suo colore
dentro l'anima buia
come una pennellata di vendetta,
sento il germoglio
dell'antica fame
farsi timido e grigio
e morire la luce del domani.
E contro me le cose inanimate
che ho creato dapprima
vengono a rimorire dentro il seno
della mia intelligenza
avide del mio asilo e dei miei frutti,
richiedenti ricchezza ad un mendico.


Alda Merini

Se la morte
fosse un vivere quieto,
un bel lasciarsi andare,
un'acqua purissima e delicata
o deliberazione di un ventre,
io mi sarei già uccisa.
Ma poichè la morte è muraglia,
dolore, ostinazione violenta,
io magicamente resisto.
Che tu mi copra di insulti,
di pedate, di baci, di abbandoni,
che tu mi lasci e poi ritorni
senza un perchè
o senza variare di senso
nel largo delle mie ginocchia,
a me non importa
perchè tu mi fai vivere,
perchè mi ripari da quel gorgo
di inaudita dolcezza,
da quel miele tumefatto
 e impreciso
che è la morte di ogni poeta

 

ANNO NUOVO, VITA NUOVA


Simona Atzori
Cosa ti manca per essere felice?

La mia mamma e io siamo un po' strane. A tanti lei sembra folle, per il suo desiderio di sperimentare, di esplorare, di conoscere, di viaggiare, di comunicare. Ma un po' di follia, di sana follia, ci vuole, secondo me.
Ci sono persone per le quali, invece, i limiti sono il confine di una sorta di fortino di sicurezze dal quale non amano uscire.
Il limite lo vedono, lo sentono e gli sono parecchio affezionate; preferiscono rimanere al sicuro là dentro, dove non può succedere niente di brutto. Affacciarsi significa essere disposti a scoprire cosa c'è più in  là, a scoprire il nuovo, il diverso, magari il bello.
Io sono convinta che porsi limiti possa determinare la nostra vita. Se si rinuncia a dare una risposta a una domanda importante come questa - “Dove posso arrivare, io?” - si finisce con il lasciare che siano gli altri a decidere. E di solito gli altri sono piuttosto sfiduciati nelle nostre possibilità.

            
Julia Butterfly Hill
La ragazza sull’albero

Ben presto arrivò l’ultimo dell’anno e il primo anniversario della frana di Stafford. Dalla cima di Luna, Stafford sembra una città in miniatura. Mentre la guardavo dal mio rifugio appollaiato sulla collina, ricordai un posto che avevo visitato da bambina, a Chattanooga, nel Tennessee, con treni in miniatura, aeroplani, mongolfiere e piccole città con le macchine e la gente in movimento. Tuttavia quei ricordi furono ben presto soppiantati dal mesto pensiero che, a un anno dalla tragedia, nessun progresso materiale era stato fatto per proteggere Stafford dall’eventualità di un’altra frana. Anzi, le cose erano peggiorate.
“Okay”, dissi a me stessa. “Per l’anno nuovo si fanno dei propositi. Quali sono i miei?”
Ci pensai. I propositi devono portare delle soluzioni. Il mio era scegliere una sequoia per tribuna e non retrocedere.
Anche quando sono a pezzi sul terreno, le sequoie non mollano. Anzi, cercano di germogliare. Se non vengono ricoperte di erbicidi (usati dopo il taglio per controllare la vegetazione in modo che non competa per la ricerca della luce del sole con le giovani piante da vivaio) o bruciate con il gasolio o il napalm (pratica comune per pulirle), riescono a rigenerarsi.
Le sequoie sarebbero state la mia guida. Sarei rimasta in cima a Luna a qualunque costo.


Jacopo Fo
Yoga demenziale

La dimensione mentale del sogno a occhi aperti, del giocare a immaginarci mentre riusciamo a realizzare i nostri migliori desideri, è utile perché ci fa attivare per la loro concreta realizzazione. Ci spinge ad accumulare informazioni su ciò che desideriamo e questo aumenta le nostre possibilità di cogliere al volo un’occasione non appena si presenta. (…)
E mentre un piacere irrealizzato e poco sognato crea solo frustrazioni, sognare con passione regala comunque sensazioni gradevoli e stimolanti. E’ una forma di amore e si sa che l’amore fa miracoli. La veridicità della mia affermazione è facilmente riscontrabile: passa in rassegna le persone che conosci e chiediti quanti di loro abbiano realizzato un grande sogno. Vedrai che quelli che ci sono riusciti fanno parte della categoria dei sognatori.
Certamente ci sono sognatori che non realizzano i loro sogni, ma nessuno dei non sognatori arriva a concretizzarli.
E attenzione, realizzare un sogno poco sognato può provocare danni enormi. Ci sono moltissimi esempi di persone che hanno avuto la vita distrutta da una vincita straordinaria alla lotteria.. Se non hai passato ore a sognare e a pensare come spendere quei soldi, quando arrivano diventano i tuoi peggiori nemici.
                            

Donata Francescato
Ridere è una cosa seria

Per far colpo raccontando la storiella giusta per una certa persona, occorre tener conto di vari aspetti. In genere gli individui di carattere estroverso che amano stare con gli altri preferiscono le battute semplici e le barzellette a sfondo sessuale, mentre gli introversi, cioè quelli che sono più chiusi in se stessi e amano star da soli, amano storielle senza sesso e battute complesse.
Gli estroversi preferiranno:
Un cane passa davanti a un albero di Natale e dice: “Finalmente hanno messo le luci nei cessi”.
E gli introversi:
Ci sono due dinosauri, uno è depresso e l'altro gli dice: “Dai, non ti fossilizzare”.


Peter Quennel
La ricerca della felicità

La felicità, riteneva Aristotele, “non è un prodotto dell'azione”, ma è in sé una forma di attività, un sistema di vita che dipende dall'uso della semplice ragione. L'uomo felice è colui che “vive bene”, o “agisce bene”; poiché mentre la maggior parte degli uomini cercano il divertimento in cose vaghe e contraddittorie, il cultore di ciò che è nobile trova naturalmente il suo piacere in azioni conformi alla virtù; e poiché tali azioni sono sempre essenzialmente piacevoli, non ha bisogno di altre gioie. La felicità non è quindi un sottoprodotto della semplice fortuna terrena. E' in se stessa “una cosa onorata e perfetta... il grande principio o punto di partenza” da cui deriva tutto il meglio della vita umana, e quindi “il fine e lo scopo supremo della nostra condotta”.


Luciana Littizzetto e Franca Valeri
L'educazione delle fanciulle

Prima hai detto che la donna ha imparato a consolarsi cambiando uomo, sesso o naso. Si tratta sempre di cambiare qualcosa. Però bisogna stare attenti. Mi sembra come quelli che dicono: siccome sto male, faccio un viaggio. Non funziona. Perchè tanto i dolori te li porti dietro come bagaglio a mano. Come quelle orchidee che hanno le radici pendenti e le puoi appendere alle finestre. Non è vero che dimentichi. Magari ti distrai, ma non dimentichi, perchè se dimentichi sei un cretino. L'autoconsolazione è un'altra cosa. E' come il cappellaio di Alice che festeggiava il non compleanno, è qualcosa che bisogna imparare e che le donne stanno imparando. Ogni tanto c'è proprio bisogno di farci dei regali. Abbiamo bisogno di premiarci. Imparare a volerci un po' bene. Se non te ne vogliono gli altri, almeno devi volertene tu. Ma è chiaro che tra consolazione, accettazione e rassegnazione il confine è sottile. E' un confine di testa. Il naso e le tette non c'entrano. L'accettazione è decidere che prendi questa cosa e la porti con te. Nella rassegnazione c'è invece un deporre le armi che l'accettazione non ha. […]
Forse hai ragione, Franca: ci vorrebbe un insegnamento alla solitudine. Perchè la solitudine è necessarissima per fare benzina. Anche se pensarsi sola sola sola, a volte spaventa.


Joe Vitale
Corso di risveglio

In questo preciso momento, guardatevi attorno e dite: “Quello che ho va benissimo, questo momento è davvero bello. Ho delle preoccupazioni, ma posso ripulirmi, lasciar andare le preoccupazioni e vedere al di là di esse (perchè le preoccupazioni sono soltanto pensieri), ed essere nel momento presente”. Quando siete nel momento presente, tutto va bene.
Un altro modo per capire se siete nel momento presente è quello di fare attenzione al vostro dialogo interno mentre state parlando con qualcuno. Molte persone non fanno attenzione, non ascoltano. O stanno già preparando dentro di sé la risposta o non ascoltano del tutto. Sono nella loro storia, nel loro programma, e così non sono nel presente.
Guardate se fate anche voi così. Se siete impegnati in una conversazione tra colleghi, durante un pranzo o una cena, o se parlate al telefono, osservate se state facendo davvero attenzione, se fate attenzione soprattutto a quello che state dicendo voi o che direte voi, e non a quello che dice l'altro. Se è così, è la prova che non siete nel momento.
Provate a fare questo esercizio: ascoltate la persona che vi sta parlando e abbiate fiducia che la risposta giusta vi verrà al momento giusto. Non anticipate quello che direte. Non stressatevi per la risposta da dare. Fate un respiro profondo e ascoltate realmente chi vi sta parlando. In questo modo sarete nel momento e avrete un dialogo molto più ricco e più profondo.

 
Pulsatilla
La ballata delle prugne secche            

Mi girai: nell'angolo c'era una ragazza circonfusa dal vapore. Annaspai verso di lei per metterla a fuoco nitidamente, intravidi il suo viso gioviale e molto stancamente le sorrisi, scivolando lungo la parete per sedermici accanto. Non sapevo cosa ci facessi lì, anche perchè cominciavo ad avere forti giramenti di testa. Con tutta quella nebbiolina sembrava di stare in un sogno: “Sembra di stare in un sogno”, dissi, e con grande disinvoltura collassai a peso morto: bum, di faccia nella pozzanghera. E così si concluse degnamente il mio primo giorno di allenamento al Planet Planet: il pianeta del benessere.
La prima cosa che vidi quando riaprii gli occhi fu – ironia della sorte – il cespuglietto della signora, la quale stava tentando di farmi riprendere i sensi tenendomi per le caviglie. Mi guardai intorno e vidi altri svariati cespuglietti imperlati di sudore. Mi portarono a mo' di barella nell'area di riposo e, lentamente, mi aiutarono a rimettermi in piedi. Ero sudata come una ragazza-squillo. […]
Quella sera mangiai come un pitone. Mia madre mi vide spazzolare una teglia di penne al ragù e due tranci di tonno senza colpo ferire. Con le gambe aperte a tarallo per il dolore, filai in camera senza dare la buonanotte a nessuno e crollai di sasso sul cuscino, dove conclusi con un tonfo la mio promettente carriera di atleta.
Alla fine mi sono iscritta al corso di yoga kundalini, che incidentalmente costava il doppio.


Beppe Tosco
Finchè matrimonio non ci separi

Luciana a cena mi ha di nuovo chiesto di sposarci.
Naturalmente ho cambiato subito discorso lasciandomi cadere un gamberone sui calzoni.
Ma poi io ci penso e ci ripenso.
E oggi ho pensato che una volta, per radio, ho sentito uno che diceva: “... Allora, guardi, premetto che io sono felicemente sposato...”. E mi sono chiesto: come mai quel signore ha premesso questo? E' strano, no? Per altre cose noi non diciamo mai “felicemente”.
Perchè deve specificare? Se fosse una cosa tranquilla, che uno che è sposato è felice, non avrebbe bisogno di aggiungere “felicemente”.
Neppure quando scendi dall'aereo dici: “Sono felicemente atterrato”. Eppure sei stato sospeso a 10.000 metri di altezza fino a ora. Su una roba pesante e grossa che se si rompono due motori viene giù. E non guidi neanche tu! No, sei pilotato da un altro. Magari da un coglione che se si rompono un paio di motori non sa cosa fare. Eppure quando scendi e accendi il telefonino non dici: “Sono felicemente atterrato, amore...”. Dici: “Quegli stronzi di Fiumicino c'han fatto salire e poi siamo stati tre quarti d'ora in pista”.
Questo, dici.
E allora perchè invece quando sei sposato devi specificare “felicemente”?
Vuole dire forse mica per caso che la maggioranza di quelli sposati stanno di merda?
Non vuole forse dire così?

 

CANT-AUTORI

Luciano Ligabue
La neve se ne frega

Sono nato a settantanove anni. Meglio non poteva andare. Ovvio che parlo per me. Uno, quando parla, lo fa per sé. Gli altri di solito preferiscono nascite più lunghe. Tipo ottantacinque o novantadue anni. Poi, naturalmente, si beccano quella che gli danno. Gli altri sono gli altri. La mia è stata una nascita perfetta.
Non ci vuole un cervello di tre chili per capire che i nati intorno ai novant’anni qualche inconveniente ce l’hanno. Tipo doverne aspettare quasi una ventina prima che il corpo si faccia un po’ vivo. E se è vero che quelli come me si cuccano una decina d’anni di vita in meno, è anche vero che la pazienza richiesta è francamente troppa.
Io e la pazienza non è che ci frequentiamo granché.
Oppure, ancora peggio, avrei potuto avere una nascita più corta. Tipo di sessantotto. O addirittura di cinquantasei. Invece sono stati precisi: sessantanove. Sono un “orizzonte curvo”. Davvero mi sentivo di ringraziare qualcuno. E se non loro, chi?
Così ho deciso di farlo sapere al Centro Nascite un paio d’anni dopo, quando andavo per i sessantasette. Voglio dire: non è che fossi tenuto. E invece mi sono messo lì e gliel’ho scritto.
Per risposta mi è arrivato un modulo prestampato. Diceva: “Il processo di approvazione delle nostre scelte è previsto per chiunque nel corso della propria vita. Siamo particolarmente lieti di poterla annoverare fra gli approvatori precoci. È importante che sia consapevole che la sua comunicazione non le favorirà ulteriori miglioramenti di condizione. Una volta chiarito questo, teniamo a farle sapere che i nostri meriti si limitano all’esecuzione materiale. L’efficacia del piano Vidor è comprovata da… (e qui il numero era scritto con un’altra font)… 46… anni di storia. Se la sua nascita è stata di… (ancora altra font)… 79… anni è semplicemente perché non poteva essere altrimenti. Grazie per la condivisione del Modello”.


Roberto Vecchioni
Diario di un gatto con gli stivali

Io nelle mie canzoni ho sempre tentato di scrivere storie al contrario, laterali o oblique.
Le favole mi hanno sempre affascinato: in esse si trova la rappresentazione di psicologie elementari; i personaggi e le vicende celano le nostre paure, le nostre passioni, i nostri desideri primari: e tutto precipita verso un lieto fine che tende a rassicurarci.
Così, quasi per gioco, ho voluto applicare alle favole il senso del dubbio, il gusto del contrario che uso in canzone, ipotizzando interpretazioni diverse da quelle tradizionali. È stato come rimischiare il mazzo di torti e ragioni, buoni e cattivi, e ridistribuire le carte.
Ho cercato di far uscire le favole da se stesse.
Perché ogni storia contiene il su contrario.
Perché niente è come appare. Le favole sono alibi.
E perché niente, infine, appare com’è: gli alibi generano altre favole.


Lucio Dalla
Bella Lavita

L’ultimo e irripetibile mistero musicale è Josef O. Autentico gitano, quasi zingaro, non so come arrivò con una canzone nel mio ufficio. Mi incuriosì subito per quella sorta di masochismo che mi contraddistingue quando ascolto le musiche degli altri. (In verità, fin dall’inizio della mia carriera, feci il voto a Frate Decibel di ascoltare tutto quello che mi sarebbe arrivato.)
Ascoltai e rimasi sbalordito. Non solo mi colpì la bravura del cantante, ma anche la storia che la canzone raccontava, quasi un resoconto della sua vita di Figlio del vento.
Devo dire che ho sempre odiato i duetti, […] ma nonostante questo gli ho proposto di cantarla con me. Per prima cosa ho sistemato il testo che riguardava la sua vita e ho scritto quello che parlava di me, fin da quando bambino ero in collegio a Treviso e scalavo di notte a torso nudo le pareti per arrivare sul terrazzo e da lì sentire il vento che mi arrivava addosso. Anch’io mi sono sempre sentito un poco zingaro, ho vissuto per un’estate a Roma dormendo sulla poltrone di vimini in un bar di via Veneto, erano gli Anni Sessanta io ne avevo diciassette e non sono mai stato così felice.
Ora è chiaro che Josef O ha la sua vita e soprattutto la avrà: farà il professionista. Se anche avrà successo con la gente io credo che lui non cambierà mai il suo stile, il suo comportamento e le sue caratteristiche […].
Intanto è già sera in via d’Azeglio. Da lontano, nell’aria si sente una chitarra che suona dolcemente tra la nebbiolina delle nove di sera e la baffa delle luci dei lampioni. E suona benissimo. Che sia San Petronio che al buoi della sua chiesa vuole fare una serenata alla città dove è caduto il mio cuore?
[…]
C’è solo un’occasione che, stando a quello che pensa, lui avrebbe sfruttato meglio di me: il mio duetto in Caruso con Pavarotti.


Francesco Guccini
Dizionario delle cose perdute

Oggi il servizio militare obbligatorio non c’è più, ci sono gli eroici volontari, a paga accettabile, con giovani e graziose commilitone al fianco (cosa nemmeno immaginabile negli antichi tempi bui, o solo vagamente sognata), e divise e corredo (maglie, mutande et coetera) di discreta indossabilità. I diciottenni contemporanei non sanno che pèsca si sono evitati. Sì, lo suppongono: “Meno male che non c’è più la naia, è vero. Ma tu l’hai fatta? Com’era?”.
Com’era? Era dura, almeno i primi tempi. Dopo un po’ ti abituavi, ti scafavi, imparavi cento piccoli trucchi per imboscarti, come quello, quando percorrevi il cortile della caserma in tempo di riposo, di tenere sempre qualcosa, tipo una cartellina, fra le mani, per fingere di avere da fare, di stare ubbidendo a un ordine superiore. Altrimenti, il primo sergente che incontravi, vedendoti ozioso, ti spediva subito a fare qualcosa di spiacevole e ti fotteva il tempo libero.
Questo, e altri novantanove piccoli trucchi, imparavi e mettevi in opera. Per sopravvivere.


Vinicio Capossela
Non si muore tutte le mattine

…Quando non si è nella luce ci si contenta di sentire delle ombre. Ombre nel cammino come alberi attorno a un viale. Soltanto i marciti, gli incattiviti non fanno ombra attorno a sé. L’ombra è la ricchezza che non si vede, ma rende luccicante il cammino là dove si deve andare da soli. Per quei viaggiatori soli, quelli che arrivano più lontano, ci vogliono le ombre. Per non perdersi del tutto. Che così passano tra gli uomini, donandogli a loro volta il bagliore, la perla che essi hanno intravisto.
Nella nostalgia e nell’euforia. Così sono quelli che arrivando a sé trovano anche la vita, e nella loro ebbrezza c’è la perla. Quelli che ancora si addentrano nella notte, nelle pieghe, nelle visioni, e rimangono altro da sé. Cantano celebrando, e allora soltanto amano. E amano così, come nella sbornia, nella luce che gli si apre davanti a squarci, e poi ritornano quelli di prima, peggio di prima per quanto poco sopportano di ritrovarsi.
E tutto li fa soffrire e li ottunde… il miracolo appena accaduto, perfino. Non li appaga affatto! Continuano, come per acciuffarne ancora, però non si sa quando succede. Sono iracondi e non lo sanno fare a comando. Perciò soffrono come cani, come cani soli, rimpiangendo sempre la sera prima. E ogni cosa intravista è per loro un sorriso tra i denti nell’estasi e un lutto. Però… dignitosi. Nel continuo ombreggiare intricato, dignitosi. Come chi possiede qualcosa. Solo allora finisce. Senza abbracci si ritorna…


Giuliano Sangiorgi
Lo spacciatore di carne

Invidio

Invidio l’aria che ti sta intorno
che ingoia i tuoi silenzi
trattiene i tuoi sospiri
e li vomita su narici poco attente
invidio il sole che ti scalda
che non ha pudore nel farlo
mentre ruba pelle bianca
e la rende indietro come fosse notte
invidio la luna che ti addormenta
che si finge tua intima confidente
quando strappa a te speranze
e sogni che non saprò mai coltivare
invidio le stelle che ti seguono in ogni cielo
che ti vogliono cometa
di una notte la più accesa
invidio il tempo che a te si concede
e non conosce clessidra migliore
per farsi distruggere.

Invidio te che non ti conosci
Che puoi così fuggire la bellezza
che dentro ti porti.
Non so fare nient’altro
se non invidiarti
nel tuo splendore che muore.

Dalle mie ginocchia invidiarti è facile.
Guardo e non ne so niente.


Enrico Ruggeri
Non si può morire la notte di Natale 

CHE FINE HA FATTO GIORGIO SALA?
È il titolo di un articolo. Naturalmente parla molto bene di me, ripercorrendo la mia carriera e intervistando qualche mio collega.
“Una vita sempre vissuta al massimo…” Già, quando ero ancora nella mischia si parlava di me come un irresponsabile, uno leggero, uno che avrebbe potuto fare molto di più se non avesse avuto tanti vizi a distrarlo. Adesso i miei vizi sono diventati peccati veniali. C’è anche una foto che mi ritrae con Carola e i bambini, uno degli ultimi scatti di famiglia. Lei sorride, ma sul suo viso c’è un velo di tristezza che ricordo bene. Un velo di tristezza e ansia. Io sorrido, ma probabilmente volevo essere da un’altra parte.
“In tutte le foto con me e i bambini hai sempre quella faccia”, mi fa notare Carola, “non ce n’è una in cui sei completamente felice, a tuo agio.”
L’articolo muove una piccola reazione a catena. Anche altri giornali si interessano al mio caso, vengo perfino citato in televisione.
“Giorgio, ti aspettiamo tutti” è la chiusura di un servizio fatto da una conduttrice specializzata in programmi strappalacrime.
Arriva anche qualche invito: un’ospitata, un servizio fotografico, un’intervista in esclusiva.
Per fortuna tutti fanno quadrato, mi difendono e mi proteggono.
Un gesto di affetto da parte di tutta la mia famiglia, anche se non posso non pensare che uno di loro deve avere una maledetta paura che io cominci a parlare, e che magari lo faccia per raccontare che non sono stato io a spararmi.
Anche per questo motivo non ho fatto sapere a nessuno che ho iniziato a scrivere. È un segreto che divido con Irina, e lei è sempre attenta a far sparire i foglietti che le affido. 


Zucchero Fornaciari
Il suono della domenica

Ho conosciuto Sting a una festa organizzata da lui, a Migliarino Pisano. Era il 1990. Mi avvio alla villa curioso e felice, ma ance un po’ preoccupato. Chissà che tipo è, Sting. Mi accoglie calorosamente: “Zucchero, I love you, I love your music.” Cordiale, simpatico, aperto. Cominciamo bene. Andiamo a tavola e lì, al mio fianco, si siede un signore biondo, che non parla, non saluta nessuno, non sorride mai, sempre cupo in faccia. Dopo un po’, comincia a interrogarmi, in americano. “Chi sei?” “Zucchero.” “Zucchero who?” “Zucchero, I’m an italian singer.” “Che musica fai?” “Blues.” Fa l’aria schifata: “Blues? Un italiano che canta il blues in inglese?” “No, in italiano” Si volta dall’altra parte e continua a mangiare sempre più schifato. Era Miles Copeland. E sarebbe presto diventato il mio manager.  Dopo cena, Sting mi chiede di fargli ascoltare i miei nuovi brani, quelli di Oro, incenso e birra. Gli piace Madre dolcissima. Poi lui mi fa ascoltare i suoi, quelli che avrebbero fatto parte di Soul cages. “Fermati domani. Dormi qua stanotte. Perché domani battezziamo la bimba di sei mesi, si chiama Coco. Mi piacerebbe che tu fossi il suo padrino.” “What? Why?” “Perché mi dai l’idea di una persona molto buona, sincera e genuina.” Il giorno dopo siamo andati nella chiesetta di Migliarino Pisano. Molti parlano di Sting come di un narcisista un po’ snob. Eppure con me è sempre stato molto semplice e gentile. Ha radici umili, per questo mi piace.

 

Lorenzo “Jovanotti” Cherubini
Viva tutto!

Nevica.
La neve il 9 marzo è una bella sorpresa.
Clima adatto a stare chiusi in uno studio al caldo delle macchine per la musica tutte accese.
Sono un palombaro in questo periodo, non so quanto durerà ma per ora nuoto in un magma informe di informazioni.
Stamattina ascoltiamo musica, da Elliot Smith ai Blondie all’elettronica più spinta a Silvio Rodriguez. Ho 56.000 canzoni nel mio hard disk e l’effetto random fa girare la testa.
La parola random che terrorizza molti è in realtà una falsa condizione. Non esiste il random in natura e non esiste nemmeno nell’ascolto di un iPod. Le sequenze di senso sono infinite. Quando al catechismo ci dicevano «le vie del signore sono infinite» si riferivano a quello che c’era e che si profila sempre più nettamente nel nostro panorama.
La sequenza random è una delle infinite possibili ma è anche la unica e sola in quel preciso momento. Penso  alle monete dell’i-ching.
Accettare la randomizzazione estrema della realtà significa porsi in modo creativo rispetto ad essa (anche la parola creativo non mi convince, preferisco «inventivo», noi non creiamo casomai inventiamo usando il creato).
Il disco non c’è ancora ma io per ora continuo a giocare a nascondino con lui finché ne ha voglia, comunque è un modo per relazionarmi con lui.

 

CITTA'

 Alessandro Banda
La città dove le donne dicono di no

La televisione privata di Meridiano colpiva per i suoi tempi. Tempi lenti, disumanamente lenti.
I tempi in assoluto più antitelevisivi che esistessero, che esistano.Che siano mai esistiti.
Chi parlava alla televisione privata di Meridiano non aveva l’obbligo di dire tutto quello che aveva da dire in un minuto e quarantaquattro secondi guardando in macchina e camminando da destra verso sinistra.
Alla televisione privata di Meridiano uno aveva tutto il tempo che voleva. Poteva dilungarsi.
Poteva fare ampie digressioni. Seguire un ragionamento non era uno scandalo inconcepibile alla televisione privata di Meridiano.
Non era un inconcepibile spreco di tempo, come accadeva in certe televisioni non di Meridiano.


Alejo Carpentier
L’Avana amore mio

Camminando per quest’Avana che amo più di qualsiasi altra città al mondo, mi sono domandato tante volte se il suo destino non sia sempre stato in mano a certi fantastici collezionisti di case, viali, moli, parchi ed edifici pubblici. A uomini, cioè, che temono che terminando un’opera perfetta vedrebbero finire il loro piacere.
Perché all’Avana coesistono tutti gli elementi della perfezione : un lungomare comparabile solo a quello di Nizza e Rio de Janeiro, un clima propizio per i fiori in tutte le stagioni; un cielo che non copre il suolo di fanghiglia grigia; una situazione geografica che decora il fondo di ogni strada con mare, nubi o sole. Eppure…
L’Avana è la città dell’incompiuto, dello zoppo, dell’asimmetrico, dell’abbandonato.
Sin da bambini siamo abituati a imbatterci, ogni giorno, in terreni incolti su cui si ammucchiano barattoli sempre più secolari, rifiuti sempre più vari.


Edward Carey
Alva e Irva

Il campanile- e nel dirlo non rivelo nulla di eccezionale- è alto e magro. Il battistero
-e anche qui si tratta di cosa alquanto prevedibile- è basso e grasso.
Penso a mio padre e mia madre.
Penso al campanile e al battistero.
Il campanile abbassa lo sguardo e si strugge d’amore per il tozzo battistero, il battistero alza lo sguardo e si strugge d'amore per l’allampanato campanile. Consentitemi di assegnare al campanile il nome di Linas-padre, giacchè se mio padre fosse stato un edificio anziché una persona sarebbe stato senza dubbio una costruzione lunga e sottile.
E consentitemi di assegnare al battistero il nome di Dallia-madre, giacchè se mia madre fosse stata anch’ella di pietra avrebbe raggiunto
sì e no i due piani d’altezza, e si sarebbe sviluppata orizzontalmente.


Italo Calvino
Le città invisibili

A Cloe, grande città, le persone che passano per le strade non si conoscono.
Al vedersi s’immaginano mille cose l’uno dell’altro, gli incontri che potrebbero avvenire tra loro, le conversazioni, le sorprese, le carezze, i morsi.
Ma nessuno saluta nessuno, gli sguardi s’incrociano per un secondo e poi si sfuggono, cercano altri sguardi, non si fermano.
Passa una ragazza che fa girare un parasole appoggiato alla spalla, anche un poco il tono delle anche. Passa una donna nerovestita che dimostra tutti i suoi anni, con gli occhi inquieti contro il velo e le sue labbra tremanti. Passa un gigante tatuato; un uomo giovane con i capelli bianchi; una nana; due gemelle vestite di corallo.
Qualcosa corre tra loro, uno scambiarsi di sguardi come linee che collegano una figura all’altra e disegnano frecce, stelle, triangoli finchè tutte le combinazioni in un attimo sono esaurite e altri personaggi entrano in scena…


Robert Stone
La porta di Damasco

La porta di Damasco era immersa nella confusione dell’imbrunire. Il cielo cominciava a impallidire; una luce tenace e promiscua proveniva da fonti diverse, illuminando i caffè e le bancarelle della città.
Lucas si sentiva osservato da vicino.
Accanto ai banchi dei cambiavalute, lo strillone che vendeva “Al-Jihar” era piuttosto agitato, aveva un titolo da annunciare, un’edizione straordinaria.
Quando Lucas gli chiese una copia in inglese reagì in maniera ambivalente. Prima negò di averne, poi ne tirò fuori una. Sembrava una copia di scarto, le cui pagine interne recavano notizie del giorno prima.
Ma in prima pagina caratteri cubitali, verdi su sfondo bianco, annunciavano “ Difesa dei luoghi santi in nome di Dio”.
Le parole accrebbero in Lucas quell’inquietudine teologica che poteva essere interpretata come virtù. Timore di Dio. Era appunto l’ora della preghiera. I muezzin, amplificati alle due estremità delle vie crepuscolari, sembravano davvero furibondi.


Antonio Munoz Molina
I misteri di Madrid

Nella caffetteria, che si trovava nella bella piazza de Santa Aria, a fianco del teatro Espanol, gli spiegarono che via Postas non era molto lontana.
Decise così di avviarsi a piedi, in parte per risparmiare il costo di una corsa di taxi, e in parte anche per schiarirsi le idee durante la camminata.
Era una mattina fresca con una luce chiara e umida, che aveva riflessi di un colore quasi azzurro, una mattina di sabato tranquilla e solitaria.
Lorencito non tardò molto a raggiungere Plaza Mayor e, per quello che ne sapeva, il centro della città vecchia. Ammirò la sua ampiezza e la regolarità allo stesso tempo maestosa e pura dei suoi edifici e dei suoi portici[…] A lui Plaza Mayor sembrò piccola e un po’ meschina, una piazza di paese.
Constatò, con occhi da esperto e senza ombra di dubbio, che le attività commerciali di Madrid, perlomeno quelle della zona, erano molto più antiquate rispetto a Magina…


Anita Desai
Giochi al crepuscolo

Forse fu solo perché Manali era così piccola ( si poteva a stento definire cittadina; piuttosto, era un villaggio cresciuto troppo, dove facevano sosta i pastori diretti verso il valico che portava nel Lahaul, e dove i coltivatori di mele caricavano la frutta sui camion in partenza per le pianure, improvvisamente investito e gonfiato da una valanga stagionale di turisti con i loro veicoli) che Pat imparò a conoscerla rapidamente e a sentirsi a casa.
Contrariamente ad altre città indiane di sua conoscenza, non presentava alcuna difficoltà, era innocente e aperta e, pur non invitando in maniera sfacciata o umile, neanche sbarrava le sue porte : semplicemente, non ne aveva.
Giaceva nella conca della valle, con il fiume e la foresta da un alto, dall’altro risaie lucenti e boschi di meli, piccola, agevole e soleggiata.
Poi si comprò una borsa di tela da portare a tracolla e con quella percorreva spedita l’unica strada di Manali nei suoi sandali che scricchiolavano allegri.


Ballard J.G.
Millennium people

Davanti a me si stendeva Chelsea Marina, le strade deserte per la prima volta nei suoi vent’anni di esistenza. L’intera popolazione era svanita, lasciando una zona di silenzio simile a una riserva naturale urbana. Ottocento famiglie erano fuggite, abbandonando le loro comode cucine, i giardini profumati e i soggiorni tappezzati di libri. Senza un’ombra di rimpianto avevano voltato le spalle a se stessi e a tutto ciò a cui avevano creduto. Al di là dei tetti potevo sentire il traffico di Londra ovest, ma il rumore si attutì mentre percorrevo Beaufort Avenue, l’arteria principale della proprietà.
La vasta metropoli che circondava Chelsea Marina era ancora col fiato sospeso.
Qui era iniziata la rivoluzione della buona borghesia,  non la rivolta di un proletariato disperato, ma la ribellione del ceto dei professionisti istruiti, colonna portante della società.


Tiziano Scarpa
Venezia è un pesce

Venezia è un pesce. Guardala su una carta geografica.
Assomiglia ad una sogliola colossale distesa sul fondo.
Come mai questo animale prodigioso ha risalito l’Adriatico ed è venuto a rintanarsi proprio qui?
Poteva scorrazzare ancora,fare scalo un po’ dappertutto, secondo l’estro; migrare, viaggiare, spassarsela come le è sempre piaciuto : questo fine settimana in Dalmazia, dopodomani a Instanbul, l’estate prossima a Cipro.
Se si è ancorata da queste parti, un motivo ci deve essere.
I salmoni si sfiancano controcorrente, si arrampicano sulle cascate per andare a fare l’amore in montagna.
Balene, sirene e polene vanno a morire nel mar dei Sargassi[…] Venezia è sempre esistita come la vedi, o quasi.
E’ dalla notte dei tempi che naviga; ha toccato tutti i porti, ha strusciato addosso a tutte le rive, le banchine, gli approdi : sulle squame gli son rimaste attaccate madreperle mediorientali, sabbia fenicia trasparente, molluschi greci, alghe bizantine.

 

DI LUCE PROPRIA

Jane Corry
Il segreto della collana di perle

“Volevo darti queste”.
Louisa sa di cosa si tratta. Gliel’hanno già detto. Sono state donate a ogni moglie, e alla sua morte sono passate alla successiva. Ma lei non le ha ancora mai viste. Senza dubbio erano rimaste nascoste in qualche polverosa cassetta di sicurezza dopo la dipartita di sua suocera, tanti anni prima.
Louisa si volta, per curiosità, ma anche perché è inutile insistere.
Sono uno di fronte all’altra. Un viso affascinante, quello di lui. Dei piccoli baffi curati, come si addice alla moda del momento. Capelli scuri. Occhi castani che fissano i suoi con una sfumatura verde muschio, come la pesanti tende di broccato alle sue spalle, ora solo parzialmente tirate. E’ poco più in basso del solito in ginocchio, mentre torreggia su di lei, coprendo la luce del mattino primaverile che filtra dalle persiane accostate. Quei modi gentili, rispettosi e ben educati da giovane medico che conquista i propri pazienti, a prescindere dalla loro età. Le viene quasi voglia di ridere, ma
probabilmente si tratta soltanto di quella che il padre definisce “una leggera inclinazione al nervosismo”, proprio come la madre.
“Sono molto belle”. La sua stessa voce risulta strana, come se anche quella, insieme al resto del suo corpo, fosse stata lacerata poche ore prima. Non potendone fare a meno, prende prima un filo, poi l’altro. Le piace di più il primo, con il grazioso fermaglio di diamanti, ma anche il secondo è delizioso. Come una cascata di perle, ognuna separata da quella vicina da un piccolo nodo di seta, in una delicata trama. La tela di un ragno.


Andrea Vitali
Galeotto fu il collier

Alla fine le aveva riunite, tutte insieme, in una vecchia cassaforte Juwall, modello 22, che era stata di suo padre leone e che aveva recuperato dalla cantina di casa. La chiave naturalmente se l’era appesa al collo, alla catenina, accanto alla medaglietta della Madonna di Lezzeno. In quei tre giorni Lidio Cerevelli le aveva contate centinaia di volte. Il totale era stupefacente: trecentoventicinque.
Trecentoventicinque monete di oro zecchino. Di peso e dimensioni diverse. Prima di occultarle nella cassaforte, le aveva anche divise in gruppi, dalle più piccole alle più grandi, una gioia per gli occhi. E antiche, inoltre. Pur non capendone niente, le date che vi erano incise, e che andavano dal 1362 al 1488, parlavano chiaro.
Altro che avversari murati vivi! Ecco quello che, dentro quel muro, il conte Lorla o chi per lui aveva nascosto.
Per quale motivo?


Karen Swan
Un diamante da Tiffany

Brett scosse la testa. “Sono state le dieci settimane più lunghe della mia vita, sempre a chiedermi quanto tempo dovessi ancora resistere prima che fosse il momento giusto per questo. Ma ormai non posso aspettare nemmeno un altro giorno, Kelly.
Ho capito dal momento in cui ti ho vista proteggere Cassie come… una guardia del corpo. Ho capito subito che tu eri la donna della mia vita”.
La sua voce tremò, e lui fece qualche colpo di tosse per cercare di riconquistare la propria compostezza. Poi prese l’anello dalla forchetta e lo tuffò nel suo bicchiere d’acqua.
“Grazie a Dio è di platino”, mormorò. “Chissà a quale temperatura è arrivato incastrato dentro cinque uccelli”. Tutti gli ospiti sorrisero mentre lui puliva il gioiello con il tovagliolo.
Brett rivolse di nuovo lo sguardo a Kelly e il resto del mondo sparì.
“Kelly Emma Hartford… vorresti rendermi l’uomo più felice del mondo e diventare mia moglie?”.
 

Jessica Jiji
I diamanti sono i migliori amici delle donne

“Andiamo”, fece lui, “lo so che ogni ragazza sogna…”.
“Il mio sogno è una meravigliosa vita insieme”, dissi, credendoci fino in fondo per la prima volta.
In faccia gli si riaccese la speranza e mi seguì in camera da letto, dove infilai una mano sotto il mio cuscino. “Questo”, dissi, tirando fuori teneramente il tappo appiattito di birra Miller, “è il regalo più romantico che tu mi abbia mai fatto”.
Berry sorrise. “Non che non ami gli zaffiri – santo cielo, non farti idee sbagliate! – ma quando me l’hai spedito hai dimostrato di essere con me nel momento in cui ne avevo bisogno e non perché così suggeriva una guida vattelappesca, ma perché lo sentivi con il cuore”.
“Dubito che ti sia costato chissà quanto”, continuai, “e di sicuro non è appartenuto alla tua nonna defunta”.
Benny rise. “No. Nana non era con noi quella volta sui binari della metro”.
Ci guardammo negli occhi seduti sul letto. “Voglio sposarmi”, sussurrai. “Solo questo. Non il pegno del tuo amore…”.
“Ma io voglio che tu ne abbia uno”, mi interruppe. “Qualcosa di nuovo…”.
Sta forse parlando di un anello?, pensai, ma non osai dirlo.
Lo fece lui per me. “Un diamante, non perché è tradizione, ma perché ne ha passate tante e questo lo rende splendido”, disse, “come te”.
Proprio ciò che avevo sempre voluto sentirgli dire, ma ahimè in quel momento non lo ascoltavo.
Ma pensavo: e questo lo rende indistruttibile.
                        

Tracy Chevalier
La ragazza con l’orecchino di perla

Lo sapevo. Non l’avevo osservato a lungo — era troppo inquietante vedere me stessa là dentro — eppure avevo capito subito che era indispensabile l’orecchino di perla. Senza di esso c’erano solo i miei occhi, la mia bocca, lo scollo della camicia, la zona buia dietro il mio orecchio, ma come pezzi separati e indipendenti. L’orecchino li avrebbe legati, avrebbe fatto sì che il quadro fosse perfetto.
Ma mi avrebbe anche gettata in strada. Sapevo che lui non avrebbe preso a prestito un orecchino da Van Ruijven, o da Van Leeuwenhoek o da chiunque altro. Aveva adocchiato la perla di Catharina, e voleva che mettessi all’orecchio proprio quella.
Per i suoi quadri pretendeva quello che gli sembrava adatto, senza pensare alle conseguenze. Proprio come aveva detto Van Leeuwenhoeck, quando mi aveva messo sull’avviso. Se Catharina avesse visto il suo orecchino nel quadro, sarebbe scoppiato un pandemonio. Avrei dovuto scongiurarlo di non rovinarmi.
                                                                    
 
James M. Cain
Mildred Pierce

Fu allora che Mildred si avventò. Ma non si avventò contro Monty, suo marito, l’uomo che l’aveva tradita. Balzò su Veda, sua figlia, colei che aveva semplicemente esercitato, per dirla con le parole di Mildred, il diritto di ogni donna: una creatura implacabile, più giovane di lei di diciassette anni, con dita di acciaio per i lunghi esercizi al piano e gambe di caucciù per aver cavalcato, nuotato, praticato tutti gli sport che sua madre aveva pagato. Ma quell’atleta si accasciò come fosse di gelatina avanti a una piccola donna paffuta, affannata, in abito nero, con il cappello di traverso e una collana di perle che si spezzò mandando le piccole sfere a rimbalzare per tutta la stanza. Chissà dove, lontano, Mildred udiva Monty urlare qualcosa, lo sentiva sforzarsi di trascinarla via, sentiva Veda graffiarle gli occhi, la faccia, sentiva un sapore di sangue nella bocca. Ma niente la fermò. La sua mano afferrò alla gola la ragazza nuda e strinse forte. Strappò a Monty l’altra mano,
si aggrappò anche con quella e strinse ancora. Vedeva la faccia di Veda farsi rossa, violacea, la lingua di Veda penzolare dalla bocca, i suoi occhi azzurri perdere ogni espressione. Strinse sempre più forte.

                                
Marcel Proust
Alla ricerca del tempo perduto

Lo zio indossava la giacca da camera di tutti i giorni, ma davanti a lui con un abito di seta rosa e una lunga collana di perle al collo, era seduta una giovane donna che stava finendo di mangiare un mandarino.
[…] Una grande cocotte, come era stata lei, vive molto per i suoi amanti, vale a dire in casa. [...] In vestaglia, in camicia da notte, deve essere altrettanto elegante che in abito da passeggio. Altre donne mettono in mostra i loro gioielli, lei vive  dell’intimità delle sue perle.
[…] Ogni volta che spostava la testa, creava una donna nuova, spesso insospettata. […] Il suo respiro, a poco a poco più profondo, le sollevava ora regolarmente il petto e, sopra questo, le perle, spostate in modo diverso dallo stesso movimento, la mano rimastami libera era sollevata, anch’essa, come le perle. Mi ero imbarcato sul sonno di Albertine.

 
Grazia Deledda
La danza della collana

Qualche volta di notte, cingeva la collana per tener vive le perle. Ebbene, io spiavo dal buco della chiave, per poterla vedere: ma non ci riuscivo. La mia adolescenza è stata tutta un sogno di questa collana: non la richiedevo mai, ma ci pensavo sempre e di notte la sognavo. E mi pare un sogno, un fatto avvenuto dieci anni or sono: ne avevo già quasi quattordici, ma ne dimostravo di più, e già qualcuno per la strada mi diceva parole d’amore. Tutto un fermento di primavera mi agitava;
e un giorno la zia era andata giù dagli inquilini del villino, io penetro nella sua camera, frugo, trovo in un posto molto prosaico, sotto il materasso, un astuccio di pelle; e mi è facile aprirlo, e dentro c’è la collana: me la metto, e per la gioia, o anche immaginandomi di essere in una grande festa, tento qualche passo di danza; ella mi sorprese, e mi bastonò ferocemente: per questo anche le serbo rancore. Dopo, credo che abbia depositato la collana nella cassetta di sicurezza di una banca. Ebbene, questa collana mi unisce a lei non tanto per l’avidità che io ho di averla, quanto per il problema se ella, a suo tempo, vorrà o no consegnarmela. Io non ho nessun documento che possa provarne la proprietà: tutto sta nella volontà della zia, nell’onestà della razza.

  
Sveva Casati Modignani
E infine una pioggia di diamanti

E infine una pioggia di diamanti. Un tesoro che suggellava il riconoscimento della sua paternità. Finchè era vissuto, Paolo aveva avuto dal vecchio soltanto tutto quello che si era duramente guadagnato. Giovanni Rovesti lo aveva trattato come un dipendente qualsiasi, premiandolo per le sue invenzioni editoriali come qualunque altro collaboratore. Ma prima di morire
aveva voluto favorire soltanto due dei suoi eredi: Maria Carlotta, la più innocente e vulnerabile, e Paolo Montecchi, il più intraprendente e il più ignorato.
Maria Carlotta era morta senza scoprire i macchinosi disegni del nonno.
Paolo, con i diamanti, avrebbe tentato una ristrutturazione in grande stile della casa editrice Rovesti. Si illuminò pensando al nuovo organigramma dell’azienda al vertice del quale c’era lui con ampia facoltà di decidere.
Pensò a sua madre, giovane e ingenua comparsa di Cinecittà che, alla fine, l’aveva spuntata su tutti i pregiudizi del vecchio.
Pensò a Loretta, la sua nuova compagna, che aspettava il suo ritorno nel loro appartamento di via Brera.
Accarezzò il tesoro ed ebbe l’impressione che quel gruppo di diamanti sprigionasse bagliori e colori che ravvivavano l’aria desolata e triste di quel giorno piovoso.


DIECI BUONI MOTIVI PER ANDARE IN BIBLIOTECA

Stefano Parise
in occasione del IX Forum del Libro_26-28 ottobre a Vicenza

1.LA BIBLIOTECA È TUA,
   LA BIBLIOTECA È PER TE

Dove si ragiona del perché le biblioteche
vengono finanziate e della convenienza a farlo

Luca però non si dà per vinto. “Sì, ma non trovo giusto che con le tasse di tutti si paghino
servizi utilizzati da pochi, anche se devo ammettere che per qualcuno possono essere utili.
Prendi ad esempio l’asilo nido: chi ci va paga. Non è lo stesso?”
“Non è esattamente così: il comune per ogni bambino che va al nido paga una parte della
retta. Si dice che sostiene un costo sociale. Sai perché lo fa? Perché permettere a una
famiglia con figli di continuare ad avere due stipendi migliora le sue condizioni economiche
ma anche quelle di tutta la comunità, perché parte di quei soldi torneranno qui, saranno
spesi in paese. E sai perché ogni anno organizzano la festa del borgo? Perché mantenere le
tradizioni e coinvolgere le persone che sono venute ad abitare in paese da fuori migliora
la coesione sociale. Con la biblioteca il discorso è simile: dare a tutti la possibilità di
frequentare una biblioteca come la nostra, nuova e ben fornita, migliora tutta la comunità
perché i lettori di oggi saranno persone più istruite, più informate, magari più civili
domani. E questo diventa un vantaggio per tutti, anche per te che non ci vai”.


2.IN BIBLIOTECA SI LEGGE

Dove si narra di come la biblioteca
aiuti a diventare lettori

E allora, mi dirai, che fai sprofondata in quest’angolo di biblioteca, come se ti sentissi
a casa?
Da quando c’è Gaia ci vengo praticamente tutti i giorni. Gaia, riccioli e sorrisi. Non me
la sono sentita di farle del male. Di negarle ciò che a me era mancato. E anche se avessi
voluto, Massimo non me l’avrebbe permesso. Mio zio, il pediatra. Quando sono rimasta incinta
mi ha detto che avrei dovuto farle sentire subito la mia presenza attraverso la voce.
Quella del padre, impossibile. Sparito appena ha appreso la notizia. Uno stronzo, benché
lettore. Aveva iniziato a parlarmi del fascino delle biblioteche di notte. Ma invece che in
biblioteca mi ha portato a casa sua. A garantire la coerenza fra teoria e pratica, restava
la notte. Un ottimo esempio di come i libri possano essere utili. A fregarti.
Massimo mi ha parlato della percezione intrauterina. Significa che il feto può imparare a
riconoscere la voce dei genitori attraverso la pancia. Il liquido amniotico la trasmette
come una vibrazione alle sue orecchie. Quando nasce, si tratta solo di continuare. Leggi,
cara, mi ha detto, se le vuoi bene. Guarda la sua espressione mentre ti ascolta, considera
le sue domande, il desiderio di risentire dieci e dieci volte la stessa storia. Non è lei
che vuole, sei tu, il tuo tempo, la tua attenzione.


3.IN BIBLIOTECA SI APPRENDE
   A TUTTE LE ETÀ

Dove si parla della biblioteca
come luogo di apprendimento continuo

Era impressionato dalla varietà di occasioni offerte ai frequentatori per mettere alla prova
abilità e conoscenze. In quel luogo si combatteva una guerra quotidiana contro la superficialità
imperante, dispiegando sul campo ogni forza utile a mettere in movimento la voglia di
crescere. Avevano iniziato con qualche corso di informatica e si erano presto accorti che
c’era un desiderio onnivoro di consumare tempo libero che attendeva risposta: per questo
organizzavano corsi di fotografia, , lingue, economia, medicina, storia della musica, cucina,
grafica e molto altro ancora.
Da quando si era accinto a quell’impresa, il padre aveva sicuramente migliorato le sue
competenze nell’uso di diversi programmi ma si era reso conto che quella era soltanto una
condizione preliminare, una potenzialità incompiuta se non accompagnata dalla capacità di
cercare ed utilizzare le informazioni, di comprendere e assimilare la conoscenza che è il
nutrimento delle coscienze, fa crescere le persone e le rende capaci di affrontare situazioni
complicate come quella che stava vivendo. Questa consapevolezza lo aveva reso euforico,
come se il fatto di trovarsi di fronte a una nuova sfida avesse amplificato la sua
determinazione. Ecco a cosa servono le biblioteche, ripeteva fra sé, segnando un altro punto
a loro favore.
Il figlio era tornato altre volte ad osservarlo, senza farsi scorgere.


4.IN BIBLIOTECA SI FORMANO
   LE OPINIONI

Dove si rappresenta la biblioteca
come palestra per il confronto delle idee

Erano le truppe d’assalto che colonizzavano la sezione periodici dalle nove del mattino a
mezzogiorno per trecentocinquanta giorni l’anno. Uomini più che maturi in fuga dal tran tran
domestico o dalla solitudine ma anche desiderosi di tenersi informati. Meglio se gratis.
Per loro la biblioteca era una seconda casa. Forse più accogliente di quell’altra, la prima.
La lettura dei quotidiani era parte di un rito articolato, al quale non avrebbero rinunciato
per niente al mondo. […]
A metà mattina il paesaggio umano iniziava a cambiare. I primi arrivati, scaricata
l’adrenalina, abbandonavano gradualmente il campo ai nuovi venuti, le avanguardie delle
ondate successive. Persone in età da lavoro che arrivavano quasi ogni giorno, come seguissero
un richiamo segreto. Turnisti, disoccupati o facoltosi nullafacenti, extracomunitari e
studenti, qualche liceale in libera uscita non autorizzata e sparuti adolescenti che la
scuola l’avevano abbandonata del tutto: in attesa di correre incontro alla vita, si accucciavano
sulle poltroncine azzurre della sezione periodici, lasciandosi cullare dalle pagine della
rivista preferita. […] Così il confronto lasciava posto a forme di esercizio alternative,
dando ricchezza a quell’ecosistema delicato dove anche il lettore più schivo poteva sentirsi
parte di una comunità che legge.


5.IN BIBLIOTECA
   NESSUNO È STRANIERO

Dove si racconta della biblioteca
come ponte fra culture

“Mi chiamo Kharima e vengo dal Marocco. Vorrei raccontarvi la mia storia”. Iniziava così
l’appuntamento settimanale organizzato in biblioteca per favorire l’integrazione fra vecchi
e nuovi italiani.
Ogni giovedì sera una babele di etnie si dava convegno nella saletta al primo piano.
Asiatici, africani, slavi e sudamericani sedevano fianco a fianco, seggiola a seggiola con
gli indigeni del luogo, italiani da generazioni che avevano iniziato a frequentare gli
appuntamenti dapprima con cautela, poi con sempre maggiore curiosità e partecipazione. […]
In una stanza ribattezzata “sala dei libri viventi” quattro tavolini rotondi in stile parigino
avevano iniziato ad ospitare questa pratica di lettura, dove i libri venivano scelti sulla
base  del titolo da un catalogo che comprendeva immigrato, musulmano, rom, commerciante
cinese, donna islamica con velo, rifugiato.
Dopo l’iniziale diffidenza il catalogo era andato cautamente arricchendosi di diversità col
marchio doc: alcolista, omosessuale, tossicodipendente, ex carcerato, disabile, senza fissa
dimora […]. Persone disponibili a donarsi, non tipi o figuranti, regalavano emozioni e storie
uniche che scioglievano egoismi e diffidenza.
Man mano che l’esperienza progrediva, i bibliotecari avevano registrato un fenomeno inedito:
ad ogni prestito aumentava l’indice di tolleranza fra le persone… 


6.LA BIBLIOTECA
   È SOCIAL

Dove si dice della biblioteca
come luogo d’incontro e partecipazione

Nella casa dei libri a tutti era sembrato prioritario dar vita a un gruppo di lettura.
Oltre a promuovere le sorti di questa pratica negletta, si concordava sulla necessità di
condividere un piacere notoriamente privato per trasformarlo in pubblica virtù. La biblioteca
avrebbe fornito luogo, ora e materiali, i volontari voce ed entusiasmo. Quando trovarsi?
La sera, senza dubbio. […]
È qui che emerge lo specifico bibliotecario, al di là di qualsiasi tecnicismo: la capacità
di cementare l’adesione ai valori di apertura, integrazione, consapevolezza dei diritti e
necessità del sapere, e con essi l’ambizione non di cambiare ma di rendere più solidali le
persone. È solo in questo senso che la biblioteca può essere una piazza, crocevia colmo
della ricchezza che solo la cultura intrisa d’umanità può dare.


7.LA BIBLIOTECA
   È DIGITAL

Dove si mostra come la biblioteca sia
aperta ai linguaggi della contemporaneità

Facebook, NetChat, martedì pomeriggio.
Ale_97: “Ciao Fra, ci 6?”
Fra: “Yep”
Ale_97: “Indovina da dove sto chattando? Dalla biblio. Hanno messo 3 iPad a disposizione del
pubblico. Me l’ha detto ieri mio fratello, ke studia qui con i suoi compagni”


8.LA BIBLIOTECA RISPONDE

Dove si parla del servizio di reference
e dei quesiti che possono ricevere una risposta
(purchè si formuli la domanda)

Angela e Maria erano nate in un’epoca in cui l’autorità del maestro non era in discussione,
tutto ciò che era scritto nel libro di testo era vangelo e ce n’era d’avanzo. Oggi il mondo
era diverso e si divertivano a guardarlo con la leggerezza distaccata di chi, pur fuori dai
giochi, aveva capito l’antifona.
“O impari a distinguere la qualità delle fonti o internet amplifica il problema. E allora
avrai sempre bisogno di qualcuno che ti aiuti ad orientarti”.
Le due vecchine amavano tornare su questo argomento. Erano contente di constatare che esistessero
persone capaci di prenderti per mano e accompagnarti alla conquista di una vetta, non
importa quanto elevata, di assisterti nei tuoi bisogni informativi come nelle tue esigenze
spicciole. Ai loro occhi i bibliotecari erano i cartografi del futuro, moderni angeli
custodi come quelli che popolavano i cieli sopra Berlino in un film di Wenders, interpreti
dei bisogni della variegata umanità che popola le mura di ogni biblioteca.
“Maria, lo sai che da settimana prossima le richieste di consulenza informativa potranno
essere inviate anche attraverso il sito della biblioteca?”.
“Ho letto. Posta elettronica e chat. Una bella novità, soprattutto per chi non riesce a
visitare la biblioteca in orario di apertura. Purchè – e gli sguardi si incrociavano
complici – non ci tolgano il piacere di vederci qui”.


9.BIBLIOTECA È LIBERTÀ

Dove si descrivono i servizi che la biblioteca
allestisce per i lettori in difficoltà

A tutta questa gente la biblioteca del carcere offriva un approdo riparato e qualche
strumento per scavare nel porto sepolto delle loro vite. Lo scrivano faceva da ufficiale di
collegamento con il mondo di fuori, dove la biblioteca fungeva da fureria ben fornita di
provviste. Aveva pensato di adattare alcuni libri per renderli masticabili anche in presenza
di dentature poco affilate. Aveva selezionato tutte le pubblicazioni con margini spaziati e
caratteri più grandi e fotocopiato – rigorosamente nel limite del 15 per cento, perché le
leggi si rispettano, e massimamente in carcere – alcune poesie d’amore e brevi racconti,
ingrandendoli. Li faceva avere ai detenuti più vecchi tramite Michele, che qualche volta
glieli leggeva ad alta voce, e agli stranieri in grado di apprezzare l’italiano: in questo
caso, si fidava del suo istinto, se li capiva lui avrebbero capito tutti. Anche fra quelle
mura tristi la biblioteca si sforzava di garantire l’esercizio dei diritti elementari, per
aiutare quelle anime perdute ma ostinatamente in ricerca di se stesse a rimanere nel recinto
della vita sociale.


10.BIBLIOTECA È MEMORIA

Dove si descrive il rappporto
Fra identità locale e biblioteca

I tomi che facevano bella mostra sul tavolo da lavoro erano le annate del settimanale locale
che corrispondevano al periodo delle lettere rinvenute in cantina. […]
Uscì all’aria aperta. Il sole riverberava gli ultimi raggi sui tetti dei palazzi che si
affacciavano sulla piazza. I giovani confluivano verso il bar, alla ricerca di compagnia.
Chiese un bicchiere di vino e si mise a sedere accanto a quattro giovani che discutevano
animatamente sull’opportunità di aver aperto la nuova biblioteca e sul senso di mantenerla
a spese della comunità.
Ciò che al padre, uomo cresciuto nel passaggio fra una civiltà agricola e una industriale,
appariva un granaio, a lui sembrava piuttosto un vivaio, un incubatore aperto a chiunque
abbia il desiderio di farvi germogliare una passione, crescere uno stimolo, mettere alla
prova l’intelligenza e il cuore.
Finchè ci saranno comunità consapevoli, pensava, ci sarà sempre una biblioteca pronta ad
accoglierle. E questa certezza gravida di futuro lo fece sentire un po’ meno solo.

 

DONNE STRAORDINARIE 

Caterina contini
Ipazia e la notte

Ipazia è una donna famosa, non solo ad Alessandria ma in tutto il mondo dei dotti; la conoscono anche a Roma, a Costantinopoli e ad Atene; si parla di lei, della sua bellezza e intelligenza, di come con i suoi commentari a Tolomeo abbia rilevato errori nel calcolo dell’astronomo, errori gravi che ne mettono in dubbio l’intera teoria. Si dice che Ipazia abbia ripreso il sistema di Aristarco, un sistema eliocentrico che Tolomeo aveva dimostrato falso ma cha a Ipazia, alla luce degli errori di Tolomeo, sembra meno incompatibile con i fenomeni e con i calcoli che vi si applicano. Si parla di Ipazia come di colei che tiene testa ai cristiani, che li sfida pubblicamente in dispute accanite, confutandone le tesi e coprendo di ridicolo i loro campioni. Non si può essere indifferenti a Ipazia: o la si odia o la si ama senza riserve. Ogni sua uscita è un avvenimento; per questo la folla si accalca e spinge, preme per vederla da vicino, per toccarla, per strapparle un lembo di veste e tenerlo per reliquia o mostrarlo agli amici suscitandone l’invidia o addirittura rivenderlo a qualche ammiratore che vive lontano e non può recarsi fino ad Alessandria. Dicono che di questi oggetti ne girino molti per il mondo, perfino lembi della sua pelle, chiusi in medaglioni e reliquiari, falsi naturalmente, ma venerati o custoditi con feticismo malato da parsone che non possono fare a meno di pensare a lei, di custodire qualcosa di lei, di impossessarsene in qualche modo.


Loredana Fescura - Marco Tomatis
Ho attraversato il mare a piedi

“Già! Garibaldi era partito piangendo, ma il cadavere di sua moglie era rimasto in casa mia. Non potevo lasciarlo lì, ma nemmeno farle avere un funerale normale. Se si fosse saputo che avevo ospitato Garibaldi, io e la mia famiglia avremmo fatto tutti una brutta fine. Così, con mia moglie, senza nemmeno levarle i vestiti sporchi, l’abbiamo avvolta in un lenzuolo, poi in una stuoia di giunco, caricata in un calesse e portata di notte in un campo nascosto. Lì abbiamo scavato una fossa con il terrore di essere scoperti. Sulla tomba non abbiamo messo nessun segno. Lei ormai era morta, dovevamo pensare ai vivi.”
Adesso su quello che rimane della buca c’è una croce piantata per terra. Due semplici rami a malapena sfrondati legati insieme da un mazzo di erbe di palude. Un piccolo gesto di pietà che avresti apprezzato, nonostante quello che pensavi della religione.
[…] “La donna era alta circa un metro e tre quarti, e la sua età tra trenta e trentacinque anni. Il corpo era robusto, i capelli che erano separati dal cuoio capelluto e giacevano nella sabbia, erano scuri, abbastanza lunghi ed erano stati pettinati alla puritana.
Le vesti erano una camicia di lino bianco, una sottana dello stesso materiale e un mantello con cappuccio di cotone rosso con fiori bianchi. Le gambe e i piedi erano senza calze e non c’erano ornamenti alle dita e al collo. Le orecchie invece avevano buchi per orecchini. I piedi non apparivano quelli di una contadina, non avevano calli sulla pianta. Nel ventre portava un feto approssimativamente dell’età di sei mesi.”
[…]Rumori di passi, brusio di voci.
“Ecco, è qui.”
Un gruppo di persone, un altro, che viene a vedere dove ti hanno sepolta.
Sei leggenda ormai.


Giovanna Ferrante
La dama di ferro

Sono sola sugli spalti del castello. L’aria è fredda, la luna in questa notte limpidissima è uno spicchio dai contorni perfetti, d’un argento puro, con accanto una stella luminosa, una pietra preziosa da incastonare nel cuore.
Autari è morto. Di veleno. Lo so. Anche se hanno cercato di celare la verità, non si può mentire alla mia ragione. La mia mente è limpida come questa notte, il mio pensiero netto e tagliente come la curva dello spicchio di questa luna, dentro di me la fredda consapevolezza di quanto è accaduto.
Non mi domando perché l’hanno ucciso, è nel destino di un capo non vedere molte albe e molti tramonti.
Mi domando se l’ho amato.
No. Almeno non nel senso che io attribuisco all’espressione amore.
Gli ho voluto bene, molto. L’ho stimato, molto. L’ho protetto, dentro di me, dai miei stessi sogni. Ora, dagli spalti del nostro castello, gli parlo. “Autari – gli dico – ora tu sai ogni cosa, conosci ogni respiro, dall’eterno tempo che hai raggiunto osserva i miei passi, e perdonali. Nessuno stanotte profanerà il nostro colloquio: tu e io, soli come mai lo fummo, sinceri come mai lo fummo. Ora conosci la mia verità, l’irrequietezza e la prepotenza, l’entusiasmo e la fame, si, la fame di vita. Sei stato lo sposo, sarai stanotte il confidente.
Voglio esistere, Autari, essere io sola a me indispensabile, io a decidere le sorti di questa mia breve fragile vita, fatta di una manciata di giorni come questa manciata di polvere che raccolgo ai miei piedi per gettarla nell’aria di questa notte così tersa.
Sarò regina accanto a un re, ancora; però, anche, sarò donna accanto a un uomo da me scelto, da me voluto.
L’hai sempre saputo, vero Autari?, che dentro di me era tempesta, e flutti, e voglia infinita di indipendenza, nei pensieri, nelle decisioni, nell’amore”.


Maria Rosa Cutrufelli
La donna che visse per un sogno

La carretta avanza. Rue Barthélemy. Pont au Change. Rue de la Monnaie. Rue Saint-Honoré.
Sull’ultimo gradino della chiesa di Saint-Roche un violinista suona stringendosi al suo strumento. La musica si perde in un pigia-pigia di giacche ruvide, mantelli corti, mantelli lunghi, berretti, cappelli tondi, cappelli a cencio, un ammasso umano che si spintona senza misericordia per veder passare “la famosa De Gouges”.
Le finestre delle case si aprono, i balconi si affollano, si riempiono di voci che cozzano l’una contro l’altra.
Il ronzio di uno sciame che cala sulla mia testa.
È quella? La teatrante che voleva portare i negri sul palco della Comédie? La girondina che voleva difendere Capeto? La vedova che si lavava due volte al giorno in un bidet d’argento? È quella?La pazza che scriveva: anche le donne nascono libere…
Riesco a raggiungere la carretta, benché il fango sia diventato un brago sdruccioloso.
Mi accodo alla scorta.
Già si scorgono le terrazze dei giardini delle Tuileries, gremite di curiosi nonostante il mal tempo. Da una carrozza ferma davanti a un portone una mano guantata di bianco si sporge a chiudere la tendina.
Ha ripreso a piovere furiosamente. Mi riparo alzando il cappuccio del mantello. Lei non ha mantello. La sua camicia s’incolla, fradicia, alla catena delle vertebre, al busto magro che trema con violenza. Cascate si riversano dalla cuffia sul suo collo nudo.
Sotto il mio cappuccio, io tremo insieme a lei. È un inverno gelido. L’inverno della Rivoluzione.


Anne-Lise Marstrand-Jørgensen
La guaritrice

È una sera calda e Hildegard cerca la solitudine in giardino. Si sforza di richiamare alla memoria il frutteto di Bermersheim. Pensa a quello che è invisibile ai più, a come eventi e sentimenti possano lasciare la loro traccia nel mondo. I luoghi hanno i loro ricordi, filtrano nell’aria come profumi segreti e possono essere percepiti solo dai pochi che hanno la mente aperta e sono perciò tormentati da rimorsi maggiori da quelli degli altri. Solo lei aveva intuito che una ragazzina era stata uccisa a Disibodenberg. Solo lei aveva capito che le prugne dell’albero sotto il quale Benedikta era stata abusata, avrebbero avuto il sapore del suo sangue.
Jutta dice che altri hanno il suo stesso dono, ma lei non ne conosce nessuno. Non ha mai avuto difficoltà a distinguere la Viva Luce dai sogni notturni, è facile come distinguere la luce dal buio. Ma non capisce perché Dio non si accontenti di aprirle lo spirito ai suoi messaggi e alle immagini che le fanno comprendere le sue parole. Quando la Viva Luce non le parla, ci sono tutte le altre visioni che le ardono davanti agli occhi. Sono presagi e premonizioni sul passato e il futuro, sui pensieri e i segreti più intimi degli altri. Il fatto di non capirlo la tormenta, come un rumore continuo che assillante che può essere messo a tacere solo dalla preghiera. Jutta non l’aiuta, è diventato più difficile confidarsi con lei. Hildegard percepisce chiaramente che sono su due lati diversi del crepaccio dell’esperienza, e nonostante tutta la sua buona volontà, Jutta non riuscirà mai a capire cosa si prova a essere tormentati da pensieri e visioni senza avere una voce capace di esprimerli. La felicità che prova quando la Viva Luce le parla si trasforma in un silenzio tormentoso e si vergogna della sua grettezza quando tiene per sé le ricchezze del signore, ma il pensiero di condividerle con Jutta la riempie di rabbia. Che differenza potrebbe fare? Al massimo Jutta lo dirà all’abate, anche se Hildegard le ha ripetuto più volte che le parole che le è dato di ascoltare illumineranno il mondo come mille fiaccole.


Jeanne Kalogridis
La regina maledetta

“Questo che cosa significa?” domandò Maria. “Che cosa bisogna fare adesso?”
“Io non posso più nulla”, le confessò il dottore. “È questione di ore, al massimo un giorno o due.” Lei gli si avventò contro; la mossa mi fece aprire gli occhi proprio un attimo prima che alzasse la mano per artigliare il viso del dottore. Il duca di Guisa la trattenne a fatica, mentre lei urlava: “Non può morire! Fate qualcosa!”
[…]Non c’è molto altro da dire. Francesco non riacquistò più conoscenza, pur gemendo di dolore di tanto in tanto. Alla fine il suo corpo si contorse pietosamente, più e più volte. Si immobilizzò quando Maria recitò l’Ave Maria e il Pater Noster e quando esalò l’ultimo respiro, del pus giallo limone gli scorse dalle narici.
Solo allora aprii le braccia e lentamente uscii dal letto. Maria aveva interrotto le preghiere e guardava inorridita il cadavere del marito; restò inerte e senza reazioni mentre l’abbracciavo quale tanto da dirle in un orecchio: “Ora tornate in Scozia. Ve lo garantisco, sarete più al sicuro là che qui”. Lasciai Francesco e Maria alle agitate cure dei Guisa e andai a cercare i miei figli ancora vivi. La previdente governante li aveva vestiti di nero e li aveva radunati nel loro appartamento. Carlo sedeva impassibile e guardava Edoardo. Margot e il piccolo Navarra tiravano una pallina allo spaniel, che la riportava, ben lontano dalla portata di Carlo. Quando mi vide, Carlo alzò il viso accigliato.
“È morto allora? Francesco, è morto? Sono io il re?”
Non potei fare altro che annuire. Edoardo abbracciò Margot e lui e il piccolo Enrico si misero a piangere, mentre le labbra di Carlo si curvarono in un sorrisetto di autocompiacimento.
“Vedi?” disse a Edoardo. “Sono re, alla fine, e ora dovrete fare tutto quello che vi dico!”
Vedendo piangere i bambini poco mancò che non perdessi la testa, ma le parole di Carlo mi riportarono a me stessa.
“No, non è vero”, lo corressi. “Sei re solo di nome, Carlo. Ora la Francia la governo io.”


Silvia Alberti de Mazzeri
La regina veneziana

Il podestà si fermò a un passo dal trono: gli era sempre piaciuto quel trono di gusto barbaro, appartenuto al re di Cipro. Forse lo avrebbe aggiunto alle rarità del suo studio. Si schiarì la voce.
“Maestà, in nome del senato di Venezia, vi ordino di abbandonare Asolo immediatamente.”
I cortigiani lo fissarono come se fosse un animale, oltre che strano, impazzito. Il rumore dell’acqua era adesso un diluvio intorno.
“I lanzichenecchi del gran capitano d’Aragona hanno travolto le nostre difese a nord e stanno per piombare qui. Tutti i soldati della Serenissima sono con Bartolomeo d’Alviano. Non ci sono forze per difendere Asolo.”
Il volto di Caterina non cambiò espressione.
“Non capite signora? La città verrà messa a sacco!”
“No. Questo non avverrà. Non lo permetterò.”
“Davvero? E come?”
“Ho scritto all’imperatore Massimiliano. Gli ho offerto tutto quanto possiedo se ordinerà a Diego d’Aragona di risparmiare Asolo.”
“Altivole?” la voce di Giorgio sovrastò il rumore scrosciante della pioggia. “Il vasellame d’oro, i manoscritti, le statue. I quadri… Tutto?”
“Massimiliano è un collezionista.”
Nella sala nessuno si muoveva. I gentiluomini, le damigelle, i poeti, gli artisti, i notabili e perfino i servi, sembravano paralizzati dall’orrore.
“Geniale” disse Giorgio in un soffio. “Geniale”.
Solo allora il podestà capì: Asolo, quel piccolo borgo insignificante, avrebbe dato la gloria a Caterina. Non più l’onta di un regno finito in saccheggio, ma l’estremo sacrificio di una regina. Il senato, il doge e tutta Venezia si sarebbero commossi: prima Cipro e, adesso, ogni sua ricchezza… Come si poteva ricompensare una donna simile?


Susan Sellers
Vanessa e Virginia

E insomma. Sto per avere un altro figlio. Nonostante tutte le tribolazioni, il mio amore per Duncan se non altro ha prodotto questo. Appoggio lo specchio contro il letto e mi ci metto davanti. Al momento, si vede poco o niente. Il seno leggermente più gonfio, le piccole increspature della pelle intorno ai capezzoli, una decisa rotondità della pancia. Per ora il bambino è un miraggio, non più reale di un desiderio. Alzo gli occhi, mi guardo in faccia e mi vedo una minuscola figura riflessa nelle pupille. Penso a te, china sulla scrivania, che abbozzi il tuo nuovo romanzo. Tu hai realizzato molto più di me. All’improvviso sento un movimento interno, sotterraneo. Rimango con la mano sulla pancia. La figura nei miei occhi brilla.
Decido di partorire in casa. Il Natale si avvicina e io faccio i miei progetti. La guerra è finita e, sebbene ci sia ancora penuria di viveri, io trovo il tempo per fare migliorie in casa. Scartavetro le assi del pavimento in camera mia e le pitturo di un bruno dorato intenso, il colore del miele. Tingo nuove tende e un copriletto per me. Dipingo le pareti, il soffitto e la porta. Le acque si rompono alle cinque il pomeriggio della vigilia. Bunny prende la bicicletta e va a chiamare il medico, mentre Duncan mi aiuta a sistemarmi in camera. È un parto facile. Tra una contrazione e l’altra mi appoggio alla caminiera. Appena partorito, chiedo di poter tenere la bambina in braccio. Il dottore annuisce. La levatrice l’avvolge in un asciugamano pulito e me la porge. Le sue dita si piegano a formare piccole stelle. Stringo la mia nuova figlia al seno e poi la metto tra le braccia di suo padre.


Valter Binaghi
Melissa. La donna che cambiò la storia

Melissa mostrò al druido i simboli scolpiti nella roccia, il labirinto e la spirale, e le conchiglie ammucchiate ai piedi della grande scultura della dea.
“Non disturbarti a misurare”, disse. “L’ho già fatto io. Molti dei simboli e delle forme che troverai qui sono costruiti secondo l’aurea proporzione che conosci, anche se dubito che il popolo che qui si radunava in un’età remota sapesse di geometria come i druidi o il mio maestro Pitagora”.
“Ma allora”, chiese il druido che si aggirava incantato dal luogo, osservando attentamente ogni cosa, “ in quale altro modo queste genti possono avere appreso la regola?”
“Nel modo in cui la conoscono i molluschi, che producono la loro conchiglia senza contare per numeri, o le rose, che dispongono i loro petali seguendo non le indicazioni di un giardiniere ma muovendosi secondo l’armonia che nascostamente governa tutte le cose. Vedi, a volte io vengo qui, sola, mi siedo al centro di questo spazio, circondata dal silenzio. Qui abbandono i miei pensieri, le cure della casa e i dubbi del giudizio che il popolo si attende da me saggio e imparziale. Quando me ne torno al villaggio, so cosa fare: eppure non ho ascoltato qui parole di uomo o di dio. Ho solo lasciato che i miei pensieri si posassero, come polvere sollevata dal vento, e nell’aria pulita le cose si svelassero nella loro forma originaria.



FESTA DELLA DONNA

Claudine Monteil
Le sorelle Beauvoir

Malgrado la diffidenza per i media, Simone si dichiarò pronta a occupare il terreno della comunicazione. Aveva l'abitudine di rifiutare le interviste (lo aveva fatto anche quando aveva ricevuto il Goncourt): rimandava pubblico e critici ai suoi scritti. A partire dal 1970 cambiò atteggiamento: incontrò la stampa per promuovere le azioni in favore dei diritti delle donne. Cosa che continuò a fare fino alla sua scomparsa, nel 1986. La pubblicità che diede alle nostre lotte fu inestimabile, e noi ne avevamo bisogno eccome. Prendemmo d'assalto il centro per ragazze madri di Plessis-Robinson per portare alla luce del sole il calvario che vivevano le occupanti, e riuscimmo a rompere l'omertà. Simone intervistava lei stessa le ragazze alla radio. Riuscì a innescare un'ondata di solidarietà nell'opinione pubblica. Avevano poco da accusarci i media di essere delle «borghesi» che difendevano cause «piccolo borghesi»: le giovani ragazze madri ammassate nei centri venivano quasi sempre dagli ambienti più poveri. Alla sede del movimento ricevemmo molti messaggi di solidarietà. Le testimonianze si moltiplicavano, dalla Francia e dall'estero.
Per fare una campagna di sensibilizzazione alla nostra causa, avevamo deciso di organizzare due giornate di denuncia dei crimini contro le donne. Delle sconosciute sarebbero venute a raccontare in pubblico le loro esperienze di stupro, incesto, molestie sessuali e ingiustizie sul lavoro.
          

Cristina Siccardi
Elena, la regina mai dimenticata 

Una «grande donna», questo è stata Elena di Savoia.
Una donna capace di lottare contro le avversità che l'hanno colpita in maniera dura e feroce. Le sue origini semplici, le leggende della sua terra, i canti, la storia del suo popolo, «la consacrazione alla sofferenza che è patrimonio inalienabile della donna montenegrina» hanno contributo a renderla forte di fronte ai dolori e agli odi; la fede l'ha certo corroborata nelle sue battaglie, ma resta comunque un mistero il fatto che sia riuscita a vivere da sola le tragedie della sua esistenza, senza privare gli altri della sua costante, serena e fondamentale presenza. Sì, fu sola ad affrontare il «terribile quotidiano», come lo definiva Pio XI, e ad affrontare le tragedie della Storia. Non fu consolata perché fu lei a consolare, non fu protetta, perché fu lei a proteggere. Diede forza a Vittorio Emanuele e sostenne i figli. Nell'esilio egiziano fu Elena a strappare sorrisi nella sua casa, a creare il clima accogliente e sereno, a radunare gli affetti rimasti, a scherzare con i nipoti, a rendere più dolce la morte del marito... Il suo segreto era riposto nell'amore, che elargiva a piene mani con una passione così manifesta, che non poteva passare inosservata, nonostante la sua indiscutibile umiltà, saggezza e prudenza. Da ragazza, Jela sognò la felicità: i suoi stessi versi poetici lo rivelano e con gli anni le parve di raggiungere quel sogno, ma il successo iniziale, quando cioè venne in Italia da un Paese tanto povero, quanto orgoglioso, si trasformò presto in travaglio per poi approdare a cocenti e incancellabili dolori. Ben sapendo che fama volat, Elena fu preparata ad affrontare le sue e altrui battaglie.
E tutto il dolore che serbava nel suo cuore, era nascosto con immensa dignità e con la fierezza propria del soldato, pronto a difendere affetti e patria.

              
Dara Kotnik
Jane Austen ovvero genio e semplicità

In lei coesistevano due caratteri, contraddittori soltanto in apparenza poiché l'uno serviva all'altro rifornendola di opposte sensazioni. La "farfalla" nata dalla chiusa crisalide scopriva colori, suoni, batticuori, fantasie, innamoramenti, desideri, impulsi, debolezze. E tutto ciò, affidato alla penna, un giorno sarebbe stato rielaborato con limpido umorismo. Che male c'è se passeggiate, bigliettini, merende sotto gli alberi, indiscrezioni, confidenze, prevalsero sulle curiosità intellettuali? Se a Jane piacevano i giovanotti, meglio così. I suoi Darcy, i suoi Edmund e gli altri protagonisti maschili non sarebbero stati insulsi principi azzurri, ma avrebbero avuto anima, corpo, sangue. Tanta esuberanza con gli uomini ci rende la Austen più simpatica e decifrabile. Leziosa farfalla? Sì, ma anche saggia formichina: ordinatissima, compìta, diligente, brava in cucina, meticolosa con l'ago. Cuciva come scriveva: con punti piccoli, sicuri, resistenti. Oltre agli umili strumenti della laboriosità domestica, resta la profana reliquia di qualche lavoretto, per esempio, una graziosa borsa da lei fatta, a diciassette anni, per Martha Lloyd. Conteneva aghi, filo, ditale e un biglietto con pochi versi : «This little bag, I hope will prove/To be not vainly made ;/For should you thread and needles want,/It will afford you aid ./And, as we are about t o part,/'twill serve another end:/For, when you look upon this bag,/You'll recollect your friend». (Questa borsetta, spero, non sarà inutile. Quando avrai bisogno di filo e di aghi, ti darà aiuto. E, poiché stiamo per lasciarci, avrà pure un altro scopo: nel guardarla, ricorderai la tua amica).
                 

Marisa Bulgheroni
Nei sobborghi di un segreto. Vita di Emily Dickinson

A metà febbraio 1855 Emily ha acconsentito, dopo tanti rifiuti, a raggiungere con Vinnie il padre, impegnato a Washington nei lavori del Congresso, al quale non sarà rieletto: vi rimarranno tre settimane, e poi proseguiranno per Filadelfia, dove saranno ospiti della cugina, Eliza Coleman. Dalla sarta di casa si è fatta cucire i vestiti nuovi da indossare nel corso del viaggio; e le sembra — scrive a Susan a fine gennaio — di essere «un pavone perplesso in piume non sue».
Per la prima volta nella sua vita Emily fugge: da Amherst, da Austin, da Sue, di cui desidera e insieme teme il ritorno dal Michigan dopo mesi di silenziosa assenza. E per la prima volta vive senza narrarsi: la solerte cronista che miniava, per il fratello assente, pagine e pagine di eventi e figure rubate dal vero, cede la penna al poeta che esclude, seleziona, elude per salvare, del vissuto, soltanto la risonanza interiore:
«Dolce e morbido, qui, come l'estate, carissime» scrive il 28 febbraio da Washington a Sue e Mattie, appena rientrate a Amherst, «aceri in fiore, erba verde nelle chiazze di sole — sembra impossibile che sia ancora inverno; e l'erba mi spunta nel cuore, e ogni cardellino canta se penso che siete a casa... Qui tutto è turbine, subbuglio e confusione, e non posso indulgere, scrivendo, ai particolari, come vorrei . . .»


Elisabeth Burgos
Mi chiamo Rigoberta Menchù

In seguito ebbi l'occasione di conoscere altri indigeni, degli Achies, che sono quelli che vivono più vicino alla nostra regione. Conobbi anche alcuni indigeni Mam. Questi mi dicevano: «I ricchi sono cattivi, mentre non tutti i ladinos sono cattivi». E io pensavo: «Possibile che non tutti i ladinos siano cattivi?» Per me erano tutti cattivi. Ma loro dicevano: il fatto è che con noi vivono dei ladinos poveri. Ci sono ladinos poveri e ladinos ricchi. I ladinos ricchi sono quelli che ci sfruttano ma anche i ladinos poveri sono sfruttati.
Fu allora che cominciai ad aver chiara la questione dello sfruttamento. Continuavo a scendere alla finca, ma ormai con il desiderio di conoscere, di verificare come stavano le cose, di esaminarle con maggior precisione. Nella finca c'erano dei ladinos  poveri. Lavoravano allo stesso modo. I loro figli erano gonfi tanto quanto i miei fratellini. Allora mi dicevo: sì, non c'è dubbio, non tutti i ladinos sono cattivi. E cominciai ad avere rapporti con dei ladinos. A quell'epoca già riuscivo, in qualche modo, a parlare lo spagnolo. E così cercavo di stare assieme ai ladinos. Una volta dissi a un ladino povero: «Lei è un ladino povero, vero?» E quello, beh, stava quasi per darmi un pugno. Mi rispose: «Cosa ne sai tu, india?» Allora mi dicevo: «Però come è possibile credere che i ladinos poveri sono uguali a noi, se questo mi sta respingendo?» Non mi rendevo conto che era il sistema stesso che aveva cercato di allontanarci, di creare barriere tra indigeni e ladinos. Sapevo che tutti i ladinos ci respingevano, ma non ne trovavo la causa, e le idee mi si confondevano ancor di più.


Grazia Honegger Fresco
Maria Montessori. Una storia attuale

Di giorno sta con i bambini, la sera torna a essere la studiosa che prende nota, classifica e raggruppa le osservazioni realizzate. Finalmente, dopo tanti sforzi dall'esito incerto, una sorta di miracolo: uno dei bambini ritardati supera l'esame di scuola elementare con maggiore facilità e voti migliori rispetto ai bambini normali; poi un altro e un altro ancora (...). Anche la relazione personale che Maria stabiliva con ciascuno di loro - oggi sappiamo quanto importante - può avere probabilmente contribuito a quel prodigioso risultato (...). Ciascuno di noi possiede una tendenza speciale, una vocazione latente, dirà, e per lei fu questa, di insegnare ai bambini e agli adulti, al punto che si iscrisse a filosofia, pur senza laurearsi. (...). Visti gli esiti, straordinari oltre ogni aspettativa (e visto il loro ripetersi anche altrove seguendo la stessa metodologia), i responsabili della Lega, con il sostegno del ministro dell'Istruzione Baccelli, si preoccupano di diffondere maggiormente le nuove conoscenze acquisite. Nell'aprile del 1900 avviano a Roma, sotto la direzione di Bonfigli, la Scuola Magistrale Ortofrenica - ulteriore risposta all'immobilismo del governo - allo scopo di preparare i futuri maestri dei frenastenici. Maria, (...) la gestirà insieme a Montesano per due anni o poco più. I corsi principali sui temi della fisiologia, della psicologia e sulla conoscenza delle apparecchiature allora considerate necessarie per le anamnesi sono svolti da loro, mentre altri li aiutavano gratuitamente in corsi di musica, linguaggio, ginnastica (...). Qui Maria avrà modo di ampliare le sue esperienze con i futuri maestri, grazie a una nuova carica esplorativa, creativa e a suo modo spirituale, mentre si va appassionando all'antropologia, vista allora come scienza che "misura" l'essere umano in ogni modo possibile: attenta agli aspetti sociali, al tempo stesso questa giovane studiosa sostiene i valori individuali dei bambini e le loro domande nascoste. Nessuno prima di lei l'ha mai fatto allo stesso modo.


Josyane Savigeau
L’invezione di una vita. Marguerite Yourcenar

8 febbraio 1986. Per la terza volta, Marguerite Yourcenar si ritrovava sola. Jerry era morto quella mattina a Parigi, all'ospedale Laennec. Jerry, trentaseienne, il compagno di viaggio dei suoi ultimi sei anni, grazie al quale lei aveva riannodato un rapporto con la giovinezza: Jerry che, se esistesse un ordine nelle cose, avrebbe dovuto tenerle la mano la sera del suo congedo dalla vita. Come lei aveva tenuto la mano del padre Michel, un giorno dell'inverno 1929. Michel, il solo testimone della sua infanzia, il suo unico legame con la piccola Marguerite de Crayencour che era stata, era morto a Losanna il 12 gennaio 1929. Lei non aveva ancora compiuto ventisei anni. Un editore francese aveva appena accettato il suo primo romanzo, Alexis ou le Traité du vain combat, che sarebbe uscito nel novembre di quello stesso anno. Una certa Marg Yourcenar - lei avrebbe ripreso presto il suo nome proprio, Margherite - cominciava a vivere. Sola (...). La morte di Michel era stata una sparizione, non un abbandono. Al contrario. Una volta di piú, lui aveva incoraggiato la figlia a volersi indipendente da legami obbligatori, a decidere da sola (...). Cinquant'anni dopo, il 18 novembre 1979, giusto mezzo secolo dalla pubblicazione di Alexis, Grace Frick, lei, sí, l'aveva abbandonata (...). Grace, una storia riassumibile in poche parole: quarant'anni passati insieme. Oggi nel 1986, come nel 1929, come nel 1979, ma questa volta in pieno inverno nordamericano, l'interminabile inverno di ghiaccio del Maine, la morte di Jerry era piú che un ritiro, piú che un abbandono, era una diserzione (...). 1986: Marguerite Yourcenar andava per gli ottantatré anni. Per la prima volta – lo avrebbe annotato qualche settimana dopo lamorte di Jerry, quando le tornò un poco di forza – l'idea non le appariva piú astratta: «Vivere è molto difficile ; e di colpo mi sento quella che non mi ero mai sentita: vecchia».


Maja Pflug
Natalia Ginzburg. Arditamente timida: una biografia
             
Nella sua qualità di deputata, andò a visitare carceri, partecipò alle commissioni parlamentari occupandosi dei problemi delle minoranze, di questioni femminili, del diritto di adozione. Non stare mai dalla parte del potere era la sua parola d'ordine, e spesso le capitava di ascoltare con stupore i discorsi dei suo i colleghi, che non sembravano contenere nulla di vero. A poco a poco il suo stupore si trasformò in indignazione. «Sto solo perdendo il mio tempo,» pensava quando negli intervalli se ne stava seduta timidamente sull'ultimo divano in fondo al Transatlantico e osservava in silenzio il febbrile andirivieni. Talvolta aveva l'impressione di essere tornata sui banchi di scuola, diceva scherzando ai figli. Tuttavia quel nuovo impegno strutturava le sue giornate e si confaceva al suo stile di vita metodico. Il suo forte senso del dovere le imponeva di non mancare mai alle votazioni più importanti, nelle quali abitualmente seguiva le indicazioni del partito che rappresentava. Quando rientrava a casa,  venivano spesso a pranzo le nipoti, con le quali conduceva animate discussioni essendo per loro un'amica e confidente. Alla seduta parlamentare del 15 novembre 1983, la deputata Levi Baldini Ginzburg prese la parola per la prima volta. Si trattava dello stazionamento di missili NATO su suolo italiano e della decisione presa alcuni giorni prima di inviare duemila soldati italiani in Libano. Natalia disse che un buon numero di deputati si era pronunciato contro l'invio delle truppe, ma la maggioranza aveva votato a favore. Eppure, «se interrogassimo la gente nelle strade... non chiederebbero forse tutti di farli ritornare a casa?».


Philip V. Cannistaro
Margherita sarfatti. L'altra donna del duce

Squadre di uomini furibondi reagirono aggredendo le femministe nel corso delle manifestazioni. La WSPU, nonostante il sostegno di personaggi eminenti come Israel Zangwill e George Bernard Shaw, era orientata a cacciare gli uomini dall’organizzazione e ad assumere una posizione decisamente separatista e ostile al matrimonio. Le leader della WSPU, Emmeline Pankhurst e le due figlie, Christabel e Sylvia, si erano divise su un’altra questione. Mentre Sylvia incitava il movimento a dedicare le proprie energie alla organizzazione delle donne lavoratrici, la sorella e la madre, seguendo Millicent Garrett Fawcett, sostenevano la necessità di porsi un obiettivo più limitato: la conquista del suffragio per le donne agiate. Nel maggio 1913 la camera dei Comuni respinse per pochi voti il progetto di legge che garantiva il voto alle donne il cui marito fosse proprietario di una casa. Alla violenza delle suffragette militanti il governo rispose con misure così severe per le consuetudini britanniche che molti ritennero fossero state violate le garanzie costituzionali sui diritti dei cittadini. Margherita trovò l’atmosfera esaltante. In Italia il movimento suffragista era deriso dalla stampa più autorevole. Le donne avevano ben poche speranze di conquistarsi il voto nell’immediato futuro.

 

GIANNI RODARI

Gianni Rodari
Il libro dei perchè

Vorrei sapere in che consiste la felicità e se si può essere felici tutta la vita
Per essere sicuro di non sbagliare a rispondere, sono andato a cercare in un grosso vocabolario la parola “felicità” ed ho trovato che significa “essere pienamente contenti, per sempre e per un lungo tempo”. Ma come si fa ad essere “pienamente contenti”, con tutte le cose brutte che ci sono al mondo, e con tutti gli errori che facciamo anche noi, ogni giorno dell’anno? Ho chiuso il vocabolario e l’ho rimesso in libreria , con molto rispetto perché è un vecchio libro e costa caro, ma ben deciso a non dargli retta. La felicità dev’essere per forza qualche altra cosa, una cosa che non ci costringa ad essere sempre allegri e soddisfatti (e un po’ stupidi) come una gallina che si è riempita il gozzo. Forse la felicità sta nel fare le cose che possono arricchire la vita di tutti gli uomini; nell’essere in armonia con coloro che vogliono e fanno le cose giuste e necessarie. E allora la felicità non è semplice e facile come una canzonetta: è una lotta. Non la si impara dai libri, ma dalla vita, e non tutti vi riescono: quelli che non si stancano mai di cercare e di lottare e di fare, vi riescono, e credo che possano essere felici per tutta la vita.


Gianni Rodari
Il libro degli errori

Chi Comanda?
Ho domandato a una bambina: - Chi comanda in casa?
Sta zitta e mi guarda.
- Su, chi comanda da voi: il babbo o la mamma?
La bambina mi guarda e non risponde.
- Dunque, me lo dici? Dimmi chi è il padrone.
Di nuovo mi guarda, perplessa.
- Non sai cosa vuol dire comandare?
Sì che lo sa.
- Non sai cosa vuol dire padrone?
Sì che lo sa.
E allora?
Mi guarda e tace. Mi debbo arrabbiare? O forse è muta, la poverina.
Ora poi scappa addirittura, di corsa, fino in cima al prato. E di lassù si volta a mostrarmi la lingua e mi grida, ridendo: - Non comanda nessuno, perché ci vogliamo bene.


Gianni Rodari
Prime fiabe e filastrocche

Filastrocca del ferroviere,
che bellissimo mestiere
stare in treno tutto il giorno
per l’Italia andare attorno.

E’ un bel mestiere, non dico di no,
sempre a spasso, ma però
quando di notte tu stai nel tuo letto
io vado in giro a bucare il biglietto.

Ferroviere, che bel lavoro,
sul berretto due righe d’oro,
chiamare per nome paesi e stazioni
come simpatici amiconi.

Ma se il mio bambino chiama “papà”
Io sono sempre in un’altra città.


Gianni Rodari
Favole al telefono

Il palazzo da rompere
Una volta, a Busto Arsizio, la gente era preoccupata perché i bambini rompevano tutto. Non parliamo delle suole delle scarpe, dei pantaloni e delle cartelle scolastiche: rompevano i vetri giocando alla palla, rompevano i piatti a tavola e i bicchieri al bar, e non rompevano i muri solo perché non avevano martelli a disposizione.
I genitori non sapevano piú cosa fare e cosa dire e si rivolsero al sindaco.
Mettiamo una multa?  propose il sindaco.
Grazie tante, esclamarono i genitori,  e poi la paghiamo con i cocci.
Per fortuna da quelle parti ci sono molti ragionieri. Ce n'è uno ogni tre persone e tutti ragionano benissimo. Meglio di tutti ragionava il ragionier Gamberoni, un vecchio signore che aveva molti nipoti e quindi in fatto di cocci aveva una vasta esperienza. Egli prese carta e matita e fece il conto dei danni che i bambini di Busto Arsizio cagionavano fracassando tanta bella e buona roba a quel modo. Risultò una somma spaventevole: millanta tamanta quattordici e trentatre.
Con la metà di questa somma, dimostrò il ragionier Gamberoni, possiamo costruire un palazzo da rompere e obbligare i bambini a farlo a pezzi: se non guariscono con questo sistema non guariscono piú.
La proposta fu accettata, il palazzo fu costruito in quattro e quattro otto e due dieci. Era alto sette piani, aveva novantanove stanze, ogni stanza era piena di mobili e ogni mobile zeppo di stoviglie e soprammobili, senza contare gli specchi e i rubinetti. Il giorno dell’inaugurazione a tutti i bambini venne consegnato un martello e a un segnale del sindaco le porte del palazzo da rompere furono spalancate.
Peccato che la televisione non sia arrivata in tempo per trasmettere lo spettacolo. Chi l'ha visto con i suoi occhi e sentito con le sue orecchie assicura che pareva — mai non sia! - lo scoppio della terza guerra mondiale. I bambini passavano di stanza in stanza come l'esercito di Attila e fracassavano a martellate quanto incontravano sul loro cammino. I colpi si udivano in tutta la Lombardia e in mezza Svizzera. Bambini alti come la coda di un gatto si erano attaccati ad armadi grossi come incrociatori e li demolirono scrupolosamente fino a lasciare una montagna di trucioli. Infanti dell'asilo, belli e graziosi nei loro grembiulini rosa e celesti, pestavano diligentemente i servizi da caffè riducendoli in polvere finissima, con la quale si incipriavano il viso…


Gianni Rodari
Prime fiabe e filastrocche

L’omino della pioggia
Io conosco l'omino della pioggia. È un omino leggero leggero, che abita sulle nuvole, salta da una nuvola all'altra senza sfondarne il pavimento soffice e vaporoso.
Le nuvole hanno tanti rubinetti. Quando l'omino apre i rubinetti, le nuvole lasciano cadere l'acqua sulla terra. Quando l'omino chiude i rubinetti, la pioggia cessa. Ha un gran da fare, l'omino della pioggia, sempre ad aprire e chiudere i rubinetti e qualche volta si stanca. Quando è stanco stanchissimo si sdraia su una nuvoletta e si addormenta. Dorme, dorme, dorme e intanto ha lasciato aperti tutti i rubinetti e continua a piovere. Per fortuna un colpo di tuono più forte di tutti gli altri lo sveglia. L'omino salta su ed esclama: - Povero me, chissà quanto tempo ho dormito!
Guarda in basso e vede i paesi, le montagne ed i campi grigi e tristi sotto l'acqua che continua a cadere. Allora comincia a saltare da una nuvola all'altra, chiudendo in fretta tutti i rubinetti. Cosí la pioggia cessa, le nuvole si lasciano spingere lontano dal vento e muovendosi cullano dolcemente l'omino della pioggia, che cosí si addormenta di nuovo.
Quando si sveglia esclama: - Povero me, chissà quanto tempo ho dormito! Guarda in basso e vede la terra secca e fumante, senza una goccia d'acqua. Allora corre in giro per il cielo ad aprire tutti i rubinetti.


Gianni Rodari
La macchina per fare i compiti e altre storie

Le memorie della luna
La luna scrive le sue memorie. Non ha penna né matita, perciò è costretta a scrivere con una stella cometa, intingendone la coda nel buio della notte. Non ha nemmeno carta, scrive sulle nuvole, che poi volano via. Ogni tanto la luna si domanda:
— Dove sarà andata a finire la pagina numero 18? La pagina numero 18 è una nuvola che proprio in quel momento sta sciogliendosi in pioggia sulla città di Modena.
I modenesi vedono la nuvola, vedono la pioggia, ma non sospettano nemmeno che quella pioggia è fatta di parole della pagina 18. Cosí la luna scrive e scrive, e le memorie il vento le porta via.
— Ho perso la pagina 24! — si lamenta la luna. La pagina 24 è una nuvoletta rosa che è scappata a cullarsi sul mare.
Sono riuscito a leggere solo la pagina 35, su cui la luna ha scritto: «Sono piú brava di tutte le trottole, perché faccio tre girotondi in una sola volta: attorno a me stessa, attorno alla terra, attorno al sole. Io sono la serva della terra, ma la terra non mi paga mai il salario. Qualche volta la pianto e vado a girare attorno al pianeta Marte, che è sapiente ed educato, e ha la pancia tutta rigata di canali dritti».
Sulla pagina 51 (che era una nuvola bianca come il latte) la luna ha scritto: «Ho fatto un sogno. Ho sognato che la Terra era diventata tutta rossa come il fuoco. E al posto del Polo c'era una stella». Il seguito non ho potuto leggerlo perché la pagina 51 (la nuvola bianca come il latte) è volata via dalla parti di Abbiategrasso.

                                                
Gianni Rodari
Tante storie per giocare

La grande carota
Questa e la storia della carota più grande del mondo.
E’ già stata raccontata in tante maniere, ma per me le cose sono andate così.
Una volta un ortolano piantò delle carote. Le coltivò a dovere, fece ogni cosa come andava fatta e, alla stagione giusta, andò nell’orto e cominciò a cavare le carote dal terreno. A un certo punto, trovò una carota più grossa delle altre. Tirava, tirava, ma non veniva su. Provò in cento maniere: macchè… Finalmente prese una decisione e chiamò sua moglie.
Giuseppina!
Che c’è, Oreste?
Vieni un po’ qua, c’è un acciderba d’una carota che non vuol uscire dalla terra. Ecco, guarda…
Pare grossa sul serio.
Facciamo così: io tiro la pianta della carota, e tu mi aiuti tirandomi per la giacca. Attaccati, dài… Pronti? Tira! Su, insieme…
Sarà meglio che tiri un braccio, perché la giacca si strappa.
Tira il braccio. Forza! Macché! Chiama un po’ anche il ragazzo… Io sono senza fiato!
Romeo! Romeo! – chiamò la moglie dell’ortolano.
Che c’è mamma?
Vieni un po’ qua. E corri…
Ho i compiti da fare.
Li farai dopo, adesso aiuta. C’è una carota che non vuol venire su. Io tiro questo braccio del babbo, tu tiri quell’altro, il babbo tira la carota e vediamo un po’ cosa succede…
L’ortolano si sputò nelle mani.
Siete pronti? Forza, via! Tirate! Oh, issa! Oh, issa! Macchè, non viene.
Questa deve essere la carota più grossa del mondo,
disse Giuseppina...

Primo Finale
La carota non viene su.
Tutto il paese si attacca a tirare: niente.
Arriva gente dai paesi vicini: macchè.
Arriva gente dai paesi lontani: e siamo sempre da capo a dodici.
Finalmente si scopre che la carota gigante attraversa tutto il globo terrestre e dall’altra parte c’è un altro ortolano, c’è un’altra folla che tira, insomma è tutto un gran tiro alla fune che non finirà mai...


Gianni Rodari
Fiabe e fantafiabe

La bambina dai capelli d’oro
Un giorno, in casa di certi contadini, a metà strada fra il paese e i boschi, nacque una bambina dai capelli d’oro.
metà strada fra il paese e i boschi, nacque una bambina dai capelli d'oro.
— Che bella biondina, — dissero i vicini quando la videro.
Era stata chiamata Ríta, ma i vicini continuarono a chiamarla «Bella Biondina» anche quando crebbe e cominciò a sgambettare in cortile. Da quelle parti tutti hanno i capelli neri, quelli biondi sono una rarità. La madre e il padre di Rita avevano un pensiero, perché i capelli della loro bambina parevano più durettí del normale.
— Sembrano i peli di una spazzola, — disse una sera il padre. E prese l'abitudine di chiamare Rita, affettuosamente, «Spazzolina».
La madre di Rita aveva un fratello, che viveva in una città lontana e non aveva ancora visto la nipotina. Viaggiando per affari, si trovò a passare da quelle parti e decise di fare una visita per portare un regalo a Rita.
Anche lui fu colpito dalla bellezza dei capelli della bambina. Li accarezzò e rimase perplesso.
E una «Spazzolina», — disse il padre. Il visitatore lo guardò con una strana espressione.
Ma davvero non avete ancora capito? — Che cosa?
Cognato mio e tu, cara sorella, avete in casa un tesoro e non ve ne siete accorti. Questi capelli non sono soltanto color dell'oro: sono d'oro, proprio. Oro del piú fino.
Ma cosa dici...
Oro, di quello con cui si fanno gli anelli, i braccialetti, le monete d'oro...
Il padre e la madre di Rita non ci volevano credere. Erano anche un po' spaventati, senza sapere bene perché. Si dovettero convincere che il parente diceva il vero, però. Un orefice, cui avevano portato da esaminare uno di quei fragili fili splendenti, sentenziò: — Oro, oro. Ve lo compro.
«Una miniera d'oro vivente», pensò lo zio di Rita. Ora pareva che non avesse piú nessuna fretta di ripartire per i suoi affari.
Sorella mia, cognato carissimo, resterò qualche giorno con voi. Però mi dovete fare un piacere. Voi vedete come Rita gioca in cortile, con gli altri bambini. Corrono, saltano, si accapigliano: così non va. E’ pericoloso. I capelli possono cadere, e ognuno di essi vale una fortuna. Bisogna che Rita se ne stia in casa, calma e tranquilla. Le comprerò delle bambole, giocherà con quelle. Le comprerò anche una bella parrucca, che le nasconda i capelli veri: se altri scoprissero che sono d’oro ne potrebbe venire un guaio...


Gianni Rodari
Il gioco dei quattro cantoni

Cielo e terra
Una volta san Pietro riunì gli Angeli al suo servizio e tenne loro questo discorso: — Ragazzi, avrete notato, come l'ho notato io, che non tutto quassú funziona alla perfezione. Prendiamo, per esempio, i nuovi arrivati, quelli che stanno qui da poco tempo, diciamo da cento, duecento anni. Hanno anche loro tutta la beatitudine che si meritano, naturalmente. Però, gli manca qualcosa. Io, almeno, ho questa impressione. L'altra mattina ne incontro uno, se ne stava tutto sospiroso in un angoletto. «Cosa c'è che non va? » gli domando. E lui: «Eh, niente, per carità... Solo che mi piacerebbe sapere se quest'anno i limoni vengono bene o no».
— I limoni? — esclamò un Angelo, sbalordito.
— Già, quello aveva in mente i suoi limoni. Non i nipoti, gli eredi o le balene: esattamente i limoni. Mi sono spiegato?
Gli Angeli lo rassicurarono che si era spiegato benissimo. Però non capivano ancora dove potesse andare a parare il suo discorso.
San Pietro riprese: — E poi non si tratta solo di limoni. L'altro giorno una signora mi ferma e mi fa: «Scusate, padre. Prima di morire avevo piantato certi pomodori: pensate che siano maturati?» Ho gettato subito un'occhiata sulla Terra, ho visto che i pomodori di quella signora erano venuti una bellezza e avevano dato almeno cento bottiglie di salsa. Gliel'ho detto, se n'è andata tutta contenta. Ma voi mi capite, non posso mica passare il mio tempo a tener d'occhio gli orti e i giardini terrestri per conto dei nostri ospiti. Con tutto quel che c'è da fare in portineria. Ho dunque pensato che forse sarebbe utile organizzare qualcosa come un servizio informazioni. Insomma, che ne direste di fare un giornale?
Ah, certo, sí, sí, un giornale.
— Magnifico!
Come mai non ci avevamo pensato?
Fu un coro di approvazioni e di suggerimenti. — Un giornale illustrato!
Con una pagina di barzellette. Pulite, però...
Anche i fumetti!
Io farei volentieri l’inviato speciale per i limoni! — Ai pomodori potrei pensarci io!
In breve, la proposta fu approvata. L'Arcangelo Gabriele fu nominato direttore del giornale. Eccetera eccetera. Bisogna raccontare queste cose molto in fretta, senza tanti fronzoli, perché lassú le cose si fanno a velocità supersonica. Pochi istanti dopo, infatti, il giornale era già in distribuzione. Andò a ruba. Se ne dovettero stampare cinquecento milioni di copie. Un successo. Però...
Però, ecco che qualche ora piú tardi San Pietro entra nella redazione del giornale, indice l'assemblea degli Angeli giornalisti e comincia cosí: — Bravi, ben fatto. Per essere dei principianti ve la siete cavata mica male. Mi è piaciuta la corrispondenza sulla stagione degli agrumi in Sicilia. Anche il servizio sulle vigne in Francia era ben scritto. I beati l'hanno commentato molto favorevolmente, deducendone che il vino, quest'anno, verrà buono. Però...

 

GIORNATA INTERNAZIONALE CONTRO LA VIOLENZA ALLE DONNE_25 NOVEMBRE

Elena Doni, Chiara Valentini
L’arma dello stupro

Alla stazione di polizia però non c’era alcuna dichiarazione da fare: la chiusero in una
stanza con un’altra donna, un’infermiera, e la lasciarono lì per due notti e un giorno.
Il secondo giorno le trasferirono nel campo di Keraterm, una vecchia fabbrica di mattonelle,
e qui le separarono. Fu a quel momento – racconta arrossendo Zilhada – che le vennero le
mestruazioni. La prima notte a Keraterm fu una notte d’indicibile angoscia, in cui il silenzio
era continuamente rotto dalle urla dei torturati: Zilhada non riuscì mai a prendere sonno.
Nel cuore della notte si aprì la porta per lasciar entrare il comandante del campo, Sikiric
Zoran: le disse che era venuta una commissione da Banja Luca e che le avrebbero fatto alcune
domande. “Meno male – pensò Zilhada – non ho fatto niente per cui debba temere, potrò chiarire
l’equivoco e mi rimanderanno a casa”. Ma quest’idea confortante durò solo un secondo.
“Voglio fare l’amore con te”, dichiarò brevemente il comandante e lei restò impietrita,
paralizzata dallo sgomento: ciononostante lui preferì andare a prendere delle corde e legarla.
Zilhada piange nel ricordare e nel pronunciare la frase antica: “E lui fece di me ciò che
volle”. Piangeva anche durante la violenza e supplicava il suo carnefice: “Hai una moglie,
hai una madre, pensa a loro”. Lui, irritato, estrasse la pistola e il coltello e ghignò
“quale preferisci?”. Quando ebbe terminato uscì dalla stanza lasciandola legata: altri tre
vennero dopo di lui. E fecero di lei ciò che vollero.


Simonetta Agnello Hornby
La zia Marchesa

Proprio al momento decisivo – quando la cosa si deve concludere – Diego non ce la faceva e
si buttava accasciato di lato sulla coperta che fungeva da lenzuolo e materasso, mugugnando,
sudato e vinto. Donna Titta, che si faceva raccontare tutto dal figlio, suggerì che ci
provassero di pomeriggio, quando Diego aveva più forze. Amalia era giunta ad aborrire quegli
amplessi pomeridiani, dettati dalla suocera. Quella svergognata si appostava dietro la tenda
che separava l’angolo del loro giaciglio dal resto della stanza in cui vivevano insieme all’asina
e pilotava il figlio gridando: “Dacci, Diego, dacci, conta fino a dieci, dacci dacci, che ci
riesci a farlo dentro, attento Diego,” e persino scostava la tenda e sporgeva la testa per
controllare che eseguisse i suoi ordini.
Dopo due anni di matrimonio, avevo inteso il senso delle mezze parole lasciate cadere dai
suoceri, Amalia capì il loro diabolico piano: qualora Diego avesse continuato a essere incapace
di accoppiarsi, lo avrebbe sostituito don Carmelo. Amalia ricordava il disagio delle occhiate
del suocero, le sue viscide maniate, sempre più spinte e ripugnanti. Impaurito e incapace anche
di proteggerla, Diego – uno scimunito che le voleva bene – ne soffriva in silenzio: sua madre
lo notava e se ne angustiava, ma al marito non diceva niente.

                                      
Marie-France Hirigoyen
Sottomesse

Hector è un lavoratore instancabile che ha avuto particolarmente successo negli affari.
Esigente verso se stesso, lo è anche con chi lo circonda. Dato che dorme poco e ha costante
bisogno di un’assistente, pretende che la moglie si alzi tutte le mattine alle sei, insieme
con lui, per preparargli il caffè. Le ha impedito di lavorare, dicendo con chiarezza che lei
dev’essere sempre disponibile per lui.
Quando le cose in casa non sono come vuole lui, monta in collera: grida, diventa tutto rosso,
perde la voce. Gli è capitato di picchiare la moglie quando la cena non era pronta per tempo
o non gli piaceva.
Per evitare le scenate, sua moglie accetta tutto. Sa che, se lui è così è perché è fragile
e ha bisogno che tutto sia perfetto per sentirsi sicuro. Ha compassione di lui. Quando tira
brutta aria e lui la svilisce (sei una nullità, racchia, e non hai più vent’anni), lei resta
segregata in casa a fumare e a bere caffè. “Eppure, gli sono attaccata. Quand’è gentile,
dimentico i momenti in cui mi picchia”.


Amélie Nothomb
Stupore e tremori

Per nascondere la bocca che si torceva, abbassai la testa il più possibile; assunsi così
un’apparenza di umiltà che la mia superiore sicuramente apprezzò.
“Ci avviciniamo alla scadenza del mio contratto e volevo annunciarle, con tutto il rincrescimento
di cui sono capace, che non potrò rinnovarlo.”
La mia voce era quella, sottomessa e timorosa, dell’inferiore archetipico.
“Ah, e perché?” mi domandò seccamente.
Domanda formidabile! Non ero l’unica, allora, a fare la commedia. Docilmente, le snocciolai
questa caricatura di risposta:
“La Yumimoto mi ha offerto grandi e molteplici occasioni di dare il meglio di me stessa.
Gliene sarò riconoscente in eterno. Purtroppo non sono riuscita a dimostrarmi all’altezza
dell’onore che mi veniva concesso.”
Mi dovetti fermare per mordermi di nuovo l’interno delle guance, tanto la mia storia mi
sembrava comica. Fubuki invece non sembrava trovarla divertente, perché mi disse:
“È esatto. Secondo lei, perché non ne era all’altezza?”
Non potei impedirmi di alzare la testa e di guardarla stupefatta: era mai possibile che mi
domandasse perché non ero all’altezza dei cessi dell’azienda? Così smisurata era la sua
necessità di umiliarmi? E se così era, quale poteva essere la vera natura dei suoi sentimenti
nei miei confronti?


Nedjma
La mandorla

“Oh!” ha gridato mia sorella.
Non so cosa abbia visto, ma lo spettacolo non doveva essere gradevole. Mia suocera schiumava
di rabbia, consapevole che la notte nuziale rischiava il fallimento.
Mi ha allargato di forza le gambe e ha strillato:
“È intatta! D’accordo, non abbiamo scelta! Dobbiamo legarla!”
“Ti supplico, non farlo! Aspetta! Io penso che sia mtaqfa. Mia madre l’ha “blindata” quando
era bambina e ha dimenticato di cancellare le sue difese.”
Parlavano di un rituale vecchio come Imchouk, che consisteva nell’incatenare l’imene delle
bambine con formule magiche, rendendole inviolabili anche al proprio marito, se non sono
state riaperte con un rito contrario.
[…] Mia suocera mi ha legato le braccia alle sbarre del letto con il suo foulard e Naïma si
è preoccupata di immobilizzarmi le gambe. Pietrificata, mi sono resa conto che mio marito
stava per deflorarmi sotto gli occhi di mia sorella. Mi ha spaccato in due con un colpo
secco e io sono svenuta per la prima e unica volta nella mia vita.
[…] La camicia macchiata di sangue non era la prova di niente, solo della stupidità dei
maschi e della brutalità delle donne schiavizzate.
Un fatto era certo: Hmed avrebbe fatto l’amore con un cadavere durante i cinque anni del
nostro turpe matrimonio.


Concita De Gregorio
Malamore

Il mio nome è Dalia. Se fossi nata fiore avrei voluto essere giallo: come il sole, come i campi
d’estate davanti a casa mia. Quello che vi chiedo è di ascoltare la mia storia perché potrebbe
essere la vostra storia. Non voglio compassione, né pietà, né aiuto: non mi servono, non
servono a nessuno. Non serve niente dopo, serve prima. Perciò voglio solo chiedervi: avete
una figlia di dodici anni? Conoscete una bambina di quell’età? Ricordate i vostri dodici
anni? Ecco: quella sono io. […] La nonna mi ha venduto per ottocento dollari. Sono venuti
quegli uomini, sono entrati in casa e da una sacca scura hanno tirato fuori tanti soldi
come non ne avevo mai visto. […] Il viaggio è stato lunghissimo. Nel posto dove siamo arrivati
parlavano una lingua che non capivo. Non conoscevo nessuno. Mi hanno dato un letto in una
stanza: la stanza era più calda, sì, ma non era la mia. […] Non voglio parlare di quel posto
dove sono stata né di quello che mi è successo. Non c’è niente da raccontare. Era uguale
ogni giorno, orribile. Le ore non passavano mai. La gente che entrava non la vedevo neanche
in faccia, non ricordo nessuno. Solo odore di umidità, puzzo, sudore, mani, vestiti sporchi.
Non voglio parlare. Dopo un po’ ho smesso di piangere perché se piangi, mi dicevano, nessuno
ti vuole e ti buttiamo in mare. Ho avuto due figli, non so dove siano, li ho partoriti in
casa, li hanno portati via. Non so se erano maschi, femmine. Li ho sentiti uscire da me,
piangere mentre li portavano fuori dalla stanza, non li ho visti. Un giorno uno degli
uomini che veniva mi ha picchiata, era ubriaco, rideva, mi ha tagliata dappertutto con un
piccolo coltello, rideva, alla fine mi ha aperto la faccia.


Nicholas D. Kristof e Sheryl WuDunn
Metà del cielo

Du’a Aswad era una bella ragazza curda che viveva nel nord dell’Iraq. Aveva diciassette anni
quando s’innamorò di un ragazzo arabo sunnita. Una notte rimase fuori con lui. Nessuno sa
se avessero effettivamente dormito insieme, ma la famiglia della ragazza lo diede per scontato.
Quando Du’a tornò a casa la mattina seguente e si trovò di fronte alla reazione rabbiosa di
tutta la famiglia, fuggì a cercare riparo nella casa di un anziano della tribù, ma i capi
religiosi e i membri della sua famiglia sostennero che doveva morire. Otto uomini presero
perciò d’assalto la casa dell’anziano e trascinarono la ragazza in strada, dove una grande
folla si raccolse attorno a lei.
L’omicidio per onore è illegale nel Kurdistan iracheno, ma quando Du’a fu attaccata erano
presenti le forze di sicurezza irachene, che però non interferirono. Almeno un migliaio
di uomini parteciparono all’assalto. Varie persona ripresero immagini video con i loro
telefoni cellulari, così che su Internet si possono trovare una mezza dozzina di versioni
di quel che accadde poi.
Du’a fu gettata a terra, e le fu strappata la gonna nera per umiliarla. I suoi lunghi capelli
neri le caddero a cascata sulle spalle. Cercò di rialzarsi, ma gli uomini la colpirono a
calci come se fosse una palla di cuoio. Si sforzò invano di difendersi dai colpi, di risollevarsi,
di coprirsi, di trovare fra la folla un viso amico. Poi gli uomini raccolsero sassi e blocchi
di cemento, e li lanciarono contro di lei; la maggior parte rotolò via, ma la ragazza cominciò
a sanguinare. Alcuni sassi la colpirono alla testa. Du’a impiegò trenta minuti a morire.


Dacia Maraini
L’amore rubato

Ale ha raggiunto il portone e si è seduta per qualche minuto all’ombra dell’atrio, per
riprendere fiato prima di affrontare il caldo della strada asfaltata.
Un’ombra attraversa la luce del portone. Strano che non abbia sentito i passi dell’uomo
che ora le sta di fronte e la fissa sorpreso.
Ale lo guarda in faccia e trasale. Lo riconosce immediatamente. É uno degli assalitori.
È l’uomo che le si è buttato addosso mentre altri due la tenevano e l’ha schiacciata con
il suo peso. […]
Ale è talmente sorpresa che rimane muta. L’uomo la incalza con aria cattiva. “Come hai fatto
a sapere dove abito? Parla, chi ti ha dato il mio indirizzo?” Ale vede la faccia dell’uomo
che si fa sempre più minacciosa. Vede la sua mano che si solleva per colpire. E si ripara
la testa col braccio piegato.
Per fortuna si sentono dei passi sulle scale. […]
Il medico si ferma qualche gradino prima del pianerottolo e osserva freddamente la situazione.
“Che succede? Ha bisogno di aiuto?” Ale non riesce a spiccicare parola. La sua gola è chiusa.
Capisce che se non parla, il medico andrà oltre e l’assalitore potrà colpirla a suo piacere.
Ma per quanti sforzi faccia non riesce a tirare fuori una parola. […]
“Mi ha violentata tre mesi fa.”
“Finalmente riesci a muovere la bocca. Era la sua presenza a terrorizzarti? Ti minacciava?”
Ale china la testa assentendo.
“Per questo sei venuta ad abortire?” chiede lui e improvvisamente le sembra che la guardi
come una persona umana. Anzi, con sorpresa lo vede sedersi sul gradino accanto a lei e
prenderle una mano.     


Suad
Bruciata viva

Viene verso di me. È mio cognato Hussein. È in abito di lavoro, un paio di pantaloni vecchi
e una maglia con le maniche corte. Si mette davanti a me e sorride: “Come va?”. Ha in bocca
un filo d’erba e continua a masticarlo sempre sorridendo. “Adesso mi occuperò di te.”
Quel sorriso… Dice che si prenderà cura di me, non me l’aspettavo. Sorrido un po’ anch’io,
per ringraziarlo, senza trovare il coraggio di pronunciare una parola.
“Ti si è ingrossata la pancia, eh?”
Abbasso la testa. Mi vergogno a guardarlo. Tengo la testa così bassa che la fronte mi tocca
le ginocchia.
“Hai una macchia sul naso. L’hai coperta con l’henné?”
“No, l’henné l’ho messo sui capelli.”
Guardo il bucato che sto risciacquando con le mani che tremano.
È l’ultima immagine fissa e nitida: le mie mani che tremano mentre risciacquano il bucato.
Le ultime parole che mi sento dire da Hussein sono: “L’hai coperta con l’henné?”.
Sto zitta, con la testa bassa per la vergogna, ma anche con un po’ di sollievo perché sento
che lui non mi fa altre domande.
Ad un tratto un liquido freddo mi cola sulla testa. In un attimo il fuoco è su di me.
Brucio. Il film scorre più in fretta, le immagini si susseguono rapidissime. Corro scalza
nell’orto, mi batto le mani sulla testa, grido. Sento sulla schiena la stoffa che vola via.
Anche i vestiti sono in fiamme?

 

GIORNATA DELLA MEMORIA

Nechama Tec
Gli ebrei che sfidarono Hitler

All'inizio del 1942, gli ospiti del ghetto avevano ideato vari ingegnosi nascondigli. La famiglia e i vicini di Pesia erano proprietari di un bunker ben camuffato.
I genitori di Pesia erano entrambi cinquantenni, e credevano di esser e troppo vecchi per sopravvivere all'esterno. Sua sorella era zoppa a causa della poliomielite, e pensava che non ce l'avrebbe fatta nel mondo cristiano.
Secondo Pesia, tali atteggiamenti testimoniano il successo della politica tedesca volta a far perdere agli ebrei la speranza e la fiducia in sé. La famiglia, tuttavia, voleva che Pesia tentasse la fuga. Era giovane e all'aspetto non sembrava ebrea, quindi aveva maggiori possibilità di cavarsela.
Ma l'amore e la lealtà famigliare la trattenevano.
Poi arrivò il 9 maggio 1942, la data stabilita per liquidare il ghetto di Zoludek . Il raid cominciò all'alba, senza preavviso. Molti non riuscirono a raggiungere i loro nascondigli, e quel giorno quasi tutti i millecinquecento ebrei furono trucidati. I tedeschi risparmiarono soltanto ottantun uomini, tutti artigiani e professionisti, con le loro mogli, trasferendoli in un campo di lavoro non lontano.
Ufficialmente, il ghetto era rimasto vuoto. Ma non era così.
Due giorni dopo, la maggior parte di coloro che erano riusciti a nascondersi aveva finito il cibo e l'acqua. Alcuni uscirono dai bunker e tentarono la fuga, ma furono uccisi. Gli altri, udendo gli spari, capirono che uscire significava morire. Ma, senza viveri, presto non ci sarebbe stata differenza tra restare nascosti ed essere fucilati.
Pesia era l'unica della sua famiglia che fosse riuscita a raggiungere il nascondiglio, insieme a due bambini di dieci e dodici anni. I tre non parlavano e non si lamentavano.


Betty Schimmel Joyce Gabriel
I ponti di Budapest

Ma il nonno si mise a ridere. «Qui tutti mi conoscono. Con o senza barba sanno che sono ebreo, e io non intendo negarlo. Ormai lo dovresti sapere. »
Si guardarono, ed entrambi stavano piangendo. Il nonno aveva settantotto anni. Forse sentiva che non avrebbe più rivisto né sua figlia né noi. Mi abbracciò forte. Scoppiai in singhiozzi, ma lui mi disse che presto ci saremmo rincontrati, anche se non penso che lo credesse davvero. Quando il treno arrivò in stazione salimmo, aiutando la mamma a caricare le cinque valigie che contenevano tutto ciò che ci era rimasto.
Il nonno restò sulla banchina, diritto e dignitoso, ad assistere alla nostra partenza, una figura ancora imponente nonostante l'età avanzata, amato da noi bambini e dai gentili che lavoravano alla sua fattoria. Ma nulla di tutto ciò poté aiutarlo quando arrivarono i nazisti. Lui e la sua famiglia vennero circondati e fatti sfilare lungo la strada principale della cittadina mentre amici e vicini assistevano inorriditi ma impotenti. I nostri parenti vennero sterminati come
tanti milioni di altri dalla mortale macchina dei nazisti e dei loro sostenitori. Ma noi non venimmo a sapere nulla fino al termine della guerra.
Ricordo ancora l'ultima visione che ebbi di lui: sembrava un profeta dell'Antico Testamento, con la mano destra sugli occhi mentre osservava il treno che si allontanava dalla stazione. Rimasi a guardare indietro finché potei scorgerlo, fino a quando i binari fecero una curva ed egli scomparve dalla mia vista.


Anne Michaels
In fuga

I soldati italiani che pattugliavano Zante non avevano niente contro gli ebrei della zudeccha - il ghetto. Non vedevano il motivo di disturbare quella comunità vecchia di trecento anni, un pacifico miscuglio di ebrei provenienti da Costantinopoli, Izmir, Creta, Corfù e dall'Italia. Almeno a Zante sembrava che le "maccheronate" non fossero al primo posto negli interessi dei tedeschi; loro poltrivano al caldo del pomeriggio e cantavano quando il tramonto si posava sulle increspature delle onde. Ma quando gli italiani si arresero, la vita sull'isola cambiò drasticamente .
La notte del 5 giugno 1944. Nel l'oscurità piena di fruscii dei campi, voci da notte tarda: una moglie si volta verso il marito che già dorme e gli dice che entro Natale ci sarà un altro bambino; una madre invoca il figlio andato per mare; le promesse da ubriaco e le minacce dei soldati tedeschi nel kafenio della cittadina di Zante.
Nella zudeccha, il siddur d'argento spagnolo incardinato sul dorso, il tallith e i candelabri vengono nascosti sotto i pavimenti delle cucine. Vengono sepolte le lettere ai figli lontani, e le fotografie. Se anche gli uomini e le donne che affidano alla terra questi oggetti di valore non l'hanno mai fatto prima, pure compiono quei gesti con secoli di pratica che li guidano, un rito familiare come quelli del Sabbath. Perfino il bambino che porta il suo giocattolo preferito, il cagnolino con le rotelle di legno, per metterlo al sicuro sotto il pavimento di cucina sembra agire in piena coscienza. L'Europa è piena di quei tesori nascosti. Un pezzetto di pizzo, una zuppiera. Diari del ghetto che non sono mai stati trovati.         


Elisa Sprinter
L’eco del silenzio

I superstiti, prima di essere visitati dai medici che erano arrivati al seguito dell'Armata Rossa, giravano senza meta nel campo ancora circondato dai reticolati, ai quali era stato tolto il flusso di corrente ad alta tensione, causa di tanti suicidi nati dalla disperazione di prigionieri troppo avviliti per sopravvivere.
Stavano muti, osservando il cielo e gli uccelli liberi, che volavano alti — come sempre — in tondo, quasi a sottolineare la loro  estraneità a ciò che accadeva nel territorio sottostante, occupato da lunghe file di baracche, segnate dall'umidità del tempo, macchiate dal fango nero della terra.
La liberazione, raccontava Hedy, era avvenuta improvvisamente, sconvolgendo i rituali che segnavano le nostre giornate. I guardiani delle SS, gli ufficiali e i soldati, se n'erano andati via con i camion, portandosi appresso le armi e tutta la riserva di viveri ammassata nei magazzini del campo.
Nessuno aveva avuto sentore, fino a qualche ora prima, che la loro fuga sarebbe stata imminente.
Poi, di notte, si udirono molti rumori di automezzi in marcia e, dalle garitte che sovrastavano il campo, scomparvero improvvisamente le guardie che impugnavano le mitragliatrici, pronte a far fuoco, nel caso qualche ombra si fosse mossa attorno ai perimetri che delimitavano le baracche .


Cynthia Ozick
Lo scialle

Rosa s'infilò nel buio. Fu facile scoprire lo scialle: Stella ci si era rannicchiata sotto, addormentata nelle ossa esili. Con uno strappo Rosa liberò lo scialle e volò - poteva volare, non era che aria -  nell'arena. Il calore del sole mormorava di un'altra vita, di farfalle d'estate. La luce era placida, morbida. Dall'altra parte del reticolato, in lontananza, c'erano prati chiazzati di denti di leone e di violette dal colore intenso; al di là, ancora più lontano, innocenti gigli tigrati, alti, che drizzavano i loro berretti arancione. Nelle baracche parlavano di «fiori», di «pioggia : escrementi, rigide trecce di sterco, e la lenta cascata marrone puzzolente che colava giù dalle cuccette di sopra, il fetore misto a un fluttuante fumo acre e oleoso che restava appiccicato alla pelle di Rosa. Rimase per un attimo al margine dell'arena. Talvolta la corrente elettrica dentro il reticolato sembrava ronzare; persino Stella diceva che era soltanto immaginazione, ma Rosa sentiva voci reali nel filo: tristi voci granulose. Più era lontana dal reticolato, più chiaramente le voci si affollavano a parlarle. Le voci lamentose facevano vibrare le corde con tanta convinzione, con tanta passione, che era impossibile sospettare che fossero fantasmi. Le voci le dicevano di levare in alto lo scialle; le voci le dicevano di agitarlo, di farne una frusta, di spiegarlo come una bandiera. Rosa sollevò, agitò, frustò, spiegò.


Rosetta Loy
Nero è l’albero dei ricordi

Al cinema davano Siiss l'ebreo e dai grandi manifesti affissi sul lungomare, Ferdinand Marian compariva con il naso esageratamente adunco e le mani ad artiglio lorde di sangue. Ludovico è andato a vederlo di nascosto perché nel film c'era lo stupro di una ragazza; e questo né padre né madre permetterebbero ad alcuno dei loro figli di vederlo, neanche seduto in platea. Durante la proiezione l'amico seduto accanto a lui ridacchiava, Ludovico invece si era sentito a disagio. E a Marcello ha mentito.
Non per lo stupro, di quello non si vedeva quasi niente. Ma è sicuro che Marcello disapprova la scelta di un film che ha subito liquidato come "abbietta propaganda contro gli ebrei". Parla invece volentieri dei film che davano prima della guerra, e per spiegargli la società americana gli ha portato ad esempio L 'eterna illusione di Frank Capra. Un film, gli ha spiegato, che mostra con grande chiarezza l'opposizione fra denaro e felicità. E mentre Marcello si addentrava nei particolari della trama quasi ne conoscesse a memoria ogni sequenza, Ludovico lo guardava, colpito dalla sua rassomiglianza con James Stewart. «Che fai, non mi ascolti?» lui si era interrotto, colto da un'improvvisa insofferenza: un ragazzo viziato, doveva essersi detto, tutte parole sprecate.


Tzvetan Todorov
Memoria del male, tentazione del bene

La sorveglianza non è molto stretta, ma la fuga è impossibile: per centinaia di chilometri tutto intorno c'è il deserto. I detenuti politici, poco numerosi, sono sottomessi al terrore che i detenuti ordinari impongono. Le condizioni igieniche sono pietose, i prigionieri sono coperti di pidocchi e di cimici. Ma il peggio è nella relazione stabilita dalla direzione del campo fra quantità di lavoro compiuto e quantità di cibo fornito. I detenuti lavorano nei campi o nelle miniere, dove devono raggiungere una certa norma. Se non lo fanno, si incomincia a diminuire le loro razioni alimentari. Il cibo è già assai scarso, della zuppa e del pane, salvo per le diverse categorie di privilegiati. Meno i detenuti ricevono cibo, meno sono capaci di lavorare; ma meno lavorano, meno sono nutriti. Ricevendo porzioni sempre più piccole, spossati dalla fame, muoiono nel giro di qualche mese. Buber-Neumann deve la sopravvivenza solo alla misericordia di un detenuto medico che le rilascia un certificato con questa diagnosi: «Inabile ai lavori di fatica».
Trascorso un anno, all'inizio del 1940, è convocata nell'ufficio del comandante che le annuncia che deve partire. Dopo un lungo viaggio, si ritrova nella prigione di Mosca, ma in ben migliori condizioni: lenzuola pulite, acqua calda, cibo a volontà. Tutto accade come se lei e le sue nuove compagne, tutte vecchie detenute di origine tedesca o austriaca, dovessero venire rimesse «in sesto» prima di essere mandate altrove. Ma dove? Tutte queste vecchie comuniste, o compagne di comunisti, non possono immaginare che saranno consegnate a Hitler.


Misha Defonseca
Sopravvivere con i lupi

Qualche tempo fa, a molti anni dalla fine della guerra, mi è capitato di osservare il mio gattino mentre giocava con un topo che aveva appena catturato. Scoprii Volodia in cantina, intento a malmenare un minuscolo roditore.
Di solito mi limito a salvare la preda, liberandola in cortile, ma in quell'occasione rimasi a osservare per un minuto, per vedere se il gatto sapeva cosa fare.
Quando il topo cercava di scappare, Volodia gli permetteva di allontanarsi di qualche centimetro, e poi riprendeva a colpirlo. Decisi di intervenire prima che la bestiola potesse ferirsi seriamente, ma più tardi quell' episodio mi tornò in mente: alcune persone ritengono che un comportamento del genere sia una dimostrazione di crudeltà, ma io non sono affatto d'accordo.
Il mio gattino si stava semplicemente esercitando alla caccia, in modo da poter sopravvivere se avesse dovuto condurre un'esistenza più selvaggia, lontano da casa: non voleva far del male alla sua vittima, e non provava piacere assistendo alla sua sofferenza, di cui non era nemmeno consapevole.


Helga Schneider
Lasciami andare, madre

Non ho bisogno di guardare Eva per sentirmi addosso il suo sguardo accorato. Ma ormai è fatta.
Mia madre a sua volta risponde quasi con sdegno.
«Io non ho mai sofferto di insonnia a Birkenau, e poi te l'ho già detto, avevo subìto un addestramento severo. Non potevo permettermi di...». Ma poi succede una cosa strana: comincia a tremarle la mascella. E’ uno spettacolo grottesco, penoso.
Stringe forte le labbra nel tentativo di contrastare il tremore, ma questo, anziché diminuire, aumenta, diventa incontrollabile, le altera i lineamenti. Il suo volto è ora al tempo stesso disarmato e contratto dall'ira.
«Quelli che venivano bruciati erano solo gentaglia,» proclama con disprezzo «la Germania doveva sbarazzarsi anche dell'ultimo Stùck, dell'ultimo esemplare di quella razza ignobile».
«E tu eri d'accordo?».
«Che cosa? Se ero d'accordo con la soluzione finale? Perché credi che mi trovassi in quel posto? Per godermi una vacanza?». Ride, ma le sue mascelle non smettono di tremare.
«Non avevi pietà nemmeno per i bambini?» chiedo. Non oso incrociare lo sguardo di Eva.
«E perché mai avrei dovuto averne?» ribatte prontamente. «Un bambino ebreo sarebbe diventato un adulto ebreo, e la Germania doveva liberarsi di quella razza odiosa, quante volte te lo devo ripetere? » Inspiro profondamente.
«Ma tu eri madre,» obietto «avevi due figli. Mentre i bambini venivano spinti nelle camere a gas, non pensavi mai a noi?».
«E questo che c'entra?».
«Voglio dire... non ti veniva mai in mente che se fossimo stati bambini ebrei ci sarebbe toccata la stessa sorte?».
«I miei figli erano ariani!» esclama sdegnata.  

 

Springer Elisa
Il silenzio dei vivi

1° novembre 1995: sono tornata ad Auschwitz.
Ho rivisto i reticolati, le torrette, quel che resta dei forni crematori e le baracche, dove ci raccoglievamo tremanti.
Ho risentito, nel silenzio assoluto di oggi, le voci e le invocazioni di ieri.
Ho capito che non bastano cinquant’anni, per cancellare il ricordo di un crimine così grande.
L’immagine di quei luoghi, e il dolore che ne derivò, sono impressi in maniera indelebile nei miei occhi: non mi hanno mai abbandonato.
Oggi più che mai, è necessario che i giovani sappiano, capiscano e comprendano:
è l’unico modo per sperare che quell’indicibile orrore non si ripeta, è l’unico modo per farci uscire dall’oscurità.


Primo Levi
I sommersi e i salvati

In Lager si entrava nudi…
La giornata del Lager era costellata di innumerevoli spogliazioni vessatorie: per il controllo dei pidocchi, per le perquisizioni degli abiti, per la visita della scabbia, per la lavatura mattutina; ed inoltre per le selezioni periodiche, in cui una “commissione” decideva chi era ancora atto al lavoro e chi invece era destinato all’eliminazione.
Ora, un uomo nudo e scalzo si sente i nervi e i tendini recisi: è una preda inerme.
Gli abiti, anche quelli immondi che venivano distribuiti, anche le scarpacce dalla suola di legno, sono una difesa tenue ma indispensabile.
Chi non li ha non percepisce più se stesso come un essere umano, bensì come un lombrico: nudo, lento, ignobile, prono al suolo.
Sa che potrà essere schiacciato ad ogni momento.


Rolnikaite Masha
Devo raccontare

I tedeschi ormai danno fuori di matto.
Probabilmente perché la situazione al fronte è tutt’altro che rosea.
Scappare dal ghetto diventa sempre più difficile.
La popolazione è terrorizzata, ha paura a nascondere i fuggitivi. Hanno pubblicato sui giornali un’ordinanza di Murer :
se un ebreo verrà trovato nascosto in un alloggio, saranno fucilati o impiccati tutti gli inquilini.
Si dice che alcuni cittadini accusati di aver nascosto degli ebrei siano già stati impiccati nella piazza della cattedrale, accanto al municipio e in piazza Lukishkes.


Keneally Thomas
La lista

La municipalità di Tel Aviv fu il primo organismo a onorare Oskar. Il giorno del suo cinquantatreesimo compleanno toccò a lui scoprire un’iscrizione nel parco degli Eroi. Il testo lo descrive come salvatore di milleduecento prigionieri di Al Brinnlitz e , anche se minimizza numericamente la portata della sua benefica iniziativa, dichiara di essere stato dettato dall’amore e dalla gratitudine.
Dieci giorni dopo, a Gerusalemme, fu dichiarato Persona Retta, un particolare titolo d’onore in Israele, basato su un’antica credenza tribale secondo cui nella massa dei gentili il Dio di Israel avrebbe sempre provveduto a non far mancare gli uomini giusti. Oskar fu anche invitato a piantare un albero di carrubo nel viale dei Giusti, che conduce al Museo dello Yad Vashem.
L’albero c’è ancora, contrassegnato da una targa, in un boschetto che ne comprende altri piantati nel nome di altrettanti Giusti.


Liana Millu
Il fumo di Birkenau

E’ vero che sei incinta?- chiese Erna.
Maria arrossì, esitò, cercando una risposta, e mentre la sua mano continuava a carezzare il grembo rigonfio, alzò gli occhi verso la sua delatrice.
La vecchia le stava davanti implacabile e ostinata, tesa nella volontà di accusa, e la sua miserabile figura irradiava una tale forza di odio che, come sopraffatta, Maria volse gli occhi, accennando timidamente di sì.
Dunque sei incinta?-scoppiò Erna- e come hai fatto a imbrogliarci finora? Non sai che le donne incinte dovevano dichiararlo subito, nel tempo della quarantena? Quante volte son venute le infermiere a dirlo? E tu perché non ti sei fatta segnare?
Perché, razza di bagascia? Perche? …
Perché non volevo abortire – rispose- sapevo che le donne incinte di pochi mesi vengono fatte abortire e così ho pensato bene di non dire nulla e di tirare avanti.


Luce d’Eramo
Deviazione

E’ stato straordinariamente semplice fuggire
[…]
Mi hanno detto a Dachau : “ bacia per terra che non hanno già sbattuta in un loro bordello. Diciannove anni e femmina, che vai a sperare…la libertà nel Terzo Reich? ”
Ma un pomeriggio che ci avevano trasportati a Monaco, mentre lavoravamo alle condutture dei marciapiedi in un quartiere del centro, è suonato l’allarme subito incalzato da squarci sordi, la popolazione fuggiva, mi sono appiattita in un portone, una viuzza, mi schiaccio contro una rientranza nella pazzia delle bombe, sorvegliando di qua e di là getto via gli indumenti di gomma.
Nessuno m’insegue.
Sempre correndo giungo alla stazione dove penso di stare più al sicuro dalle spiate, poiché nessuno vi si rifugia
durante i bombardamenti.


Kertesz Imre
Essere senza destino

Mia madre mi sta aspettando e probabilmente sarà molto felice di rivedermi, la poveretta.
Ricordo che un tempo aveva in mente che io diventassi un giorno un ingegnere, un medico o qualcosa del genere. Probabilmente succederà proprio come lei desidera; non esiste assurdità che non possa essere vissuta con naturalezza e sul mio cammino, lo so fin d’ora, la felicità mi aspetta come una trappola inevitabile. Perché persino là, accanto ai camini, nell’intervallo tra i tormenti c’era qualcosa che assomigliava alla felicità. Tutti mi chiedono sempre dei mali, degli “orrori” : sebbene per me, forse, proprio questa sia l’esperienza più memorabile.
Sì è di questo, della felicità dei campi di concentramento che dovrei parlare, la prossima volta che me lo chiederanno.
Sempre che me lo chiedano. E se io, a mia volta,  non l’avrò dimenticata.


Wiesel Elie
Tutti i fiumi vanno al mare

Ciò che mi strazia e mi disgusta di più nell’ambiente fisico e morale ( o immorale) del campo, è la forza del male e il suo contagio.
Qui la brutalità esiste allo stato puro.
Perché mai degli esseri umani arrivano a comportarsi come lupi feroci?
In che modo spiegare il loro sadismo verso i compagni di sventura?
Io “ capisco” la ferocia dei tedeschi : è la loro “ vocazione”, la loro politica, la loro ideologia, la loro educazione,
stavo per dire la loro religione.
Ma gli altri? Gli ucraini che ci battono, i russi che ci detestano, i polacchi che ci offendono, gli zingari che ci schiaffeggiano, i kapò ebrei che ci bastonano, perché?
Per dimostrare ai carnefici che possono assomigliargli?

 

GRANDI SPIRITI FEMMINILI DEL '900

Etty Hillesum
Diario 1941-1943

Trovo bella la vita, e mi sento libera.
I cieli si stendono dentro di me come sopra di me.
Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. La via è difficile, ma non è grave.
Dobbiamo prendere sul serio il nostro lato serio, il resto verrà allora da sé: e “lavorare se stessi” non è proprio una forma di d’individualismo malaticcio.
Una pace futura potrà esser veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso – se ogni uomo si sarà liberato dall’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore se non è chiedere troppo.
E’ l’unica soluzione possibile. E così potrei continuare per pagine e pagine. Quel pezzetto d’eternità che ci portiamo dentro può esser espresso in una parola come in dieci volumi. Sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio, nell’anno del Signore 1942, l’ennesimo anno di guerra.


Abel Meeropol
Strange fruit (Canzone interpretata da Billie Holiday)

Gli alberi del sud hanno uno strano frutto,
Sangue sulle foglie e sangue alle radici,
Corpi neri oscillano nella brezza del sud,
Uno strano frutto appeso ai pioppi.

Scena pastorale del prode sud,
Gli occhi sporgenti e le bocche contorte,
Profumo di magnolia, dolce e fresco,
Poi l’improvviso odore di carne che brucia.

Ecco il frutto che i corvi beccano,
Che la pioggia coglie, che il vento succhia,
Che il sole fa marcire, che gli alberi fanno cadere,
Ecco un raccolto strano e amaro.


Simone de Beauvoir
Una donna spezzata

Ero pulita pura intransigente. Sono stata così fin dall’infanzia l’avevo nel sangue : non barare.
Mi pare di rivederla quella buffa bambinetta col suo vestitino di chiffon come mi combinava male la mamma
e la madama che sussurra :
“e allora, gli vuoi bene al fratellino?”
E io che rispondo posata : “ non lo posso vedere ”.
Il gelo; gli occhi di mamma. Che sia stata gelosa è normale in tutti i libri c’è scritto; la cosa straordinaria quello che mi piace è che l’abbia ammesso. Niente concessioni niente commedie : mi ci ritrovo in quella ragazzetta.
Io sono pulita sono vera gioco a carte scoperte; è questo che li fa incazzare non gli piace che uno ci veda chiaro in loro vogliono che si creda alle loro belle parole o almeno si faccia finta.
Questa è un’altra delle loro pagliacciate : le corse su e giù per le scale gli urli le risate. C’è senso di perdere la testa a data fissa a ora fissa solo perchè si cambia calendario?
Mi hanno sempre dato il voltastomaco queste scemenze.


Rita Levi Montalcini
Elogio dell’imperfezione

Passavo ormai tutte le ore del giorno e della notte vicino ai più gravi, più infermiera che medico, dato che il servizio di assistenza quasi non esisteva. Il rischio del contagio, al quale mi esponevo continuamente, attenuava il senso ormai sopito di colpa per non aver preso parte attivamente come avrei voluto alla guerra partigiana. Il pericolo mortale a cui era  esposta la mamma che non potevamo abbandonare, e la mia costituzionale incapacità per la vita cospirativa, mi avevano dissuasa dal parteciparvi.
Non si trattava tanto di coraggio, che ritengo non mi mancasse, quanto di presenza di spirito senza la quale avrei messo a repentaglio la mia vita e quella dei compagni, qualora fossi caduta nelle mani dei nazisti o dei fascisti.
I ricoverati che avevano fiducia in me, vedendo con quanta dedizione li curavo, cominciarono a nascondersi al momento della visita nel timore che un rialzo febbrile o i sintomi purtroppo così evidenti dell’infezione determinassero il loro ricovero in ospedale.


Luce Irigaray
La democrazia comincia a due

Tuttora è fallita -e non è la prima volta- una certa idea della democrazia : basta essere eletto a maggioranza per essere un democratico, una democratica.
Ho detto “ Non è la prima volta” perché è facile ricordare che Hitler è stato votato democraticamente a maggioranza. La cosa dunque non è così semplice. Forse la sola maniera oggi per continuare la strada della democrazia è di compiere il suo obiettivo, cioè non dare soltanto un diritto di voto ai cittadini ma dare a ciascuno e a ciascuna di loro un diritto e un dovere politici completi. Bisogna affidare a ciascuno e a ciascuna la singola, se così posso dire, responsabilità politica e non affidarla a qualunque capo e capa.
Questo compimento reale della democrazia significa trasferire una gran parte del potere degli organismi dello Stato a un’autonomia responsabile della società civile. Mi sarà obiettata la necessità di mediazioni istituzionali. Ma la risposta è abbastanza semplice : la mediazione istituzionale è allora un codice civile dei diritti e doveri di ciascuno e ciascuna verso di sé e verso la comunità.


Shirin Ebadi (premio Nobel per la pace 2003)
Il mio Iran

Dato che avevo cinque anni più di mio fratello, normalmente avevo la meglio nelle nostre baruffe.
I domestici si lamentavano apertamente di ciò, sbigottiti per questa sovversione dell’ordine sociale.
“ Come potete permettere che una ragazza batta Jafar khan?” domandavano a papà. Lui si limitava a sorridere e rispondeva “ Sono bambini, se la vedranno fra loro”.
Solo quando fui molto più grande capii che l’idea dell’uguaglianza tra i sessi si era impressa dentro di me in primo luogo grazie all’esempio avuto a casa.
Quando, con lo sguardo da adulta, mi volsi a considerare quale fosse la sensazione di me stessa nel mondo, vidi come la mia educazione mi avesse risparmiato la scarsa autostima e la dipendenza acquisite dalle altre donne, cresciute in famiglie più tradizionali. Il sostegno di mio padre alla mia indipendenza, dai giochi da bambina fino alla decisione di diventare giudice, mi ha instillato un senso di fiducia nelle mie capacità che non ho mai percepito consciamente, ma che alla fine sono giunta a considerare come l’eredità più preziosa.


Doris Lessing (premio Nobel per la letteratura 2007)
L’altra donna

Arrivati nella Rodhesia del Sud si trovarono a dover scegliere tra un campo d’immigrazione, che consisteva in capanne di fango con un punto di rifornimento idrico comune, e un albergo. Scelsero l’albergo, essendo quello che si definisce una coppia facoltosa, vale a dire possedendo qualche centinaio di sterline con cui avevano programmato di comprare una casa non appena giunti a destinazione. E comprare una casa era anche possibile, proprio come in Inghilterra, a patto di rinunciare all’idea di trovarne una di proprio gusto a un prezzo ragionevole. Marina aveva passato anni a vedere case. Si dividevano in due categorie : quelle che le piacevano e quelle che poteva permettersi. Ma dato che lei era una romantica, non si era ancora rassegnata all’atteggiamento passivo di chi accetta di trovare un angolo in cui stabilirsi, ovunque sia, e organizzare poi la vita attorno a quel fulcro : la scuola per i bambini, il lavoro e tutto il resto.
E siccome rifiutava di adattarsi a questa situazione aveva vissuto nell’estremo disagio, protestando:
“ Perché dovremmo spendere tutto il nostro capitale per incatenarci ad un posto che detestiamo?”


Maria Montessori
La mente del bambino

I bambini determinano le loro azioni in base alle leggi della natura, gli adulti in base alla riflessione.
E’ evidente che per esercitare questo potere è necessario che il bambino non abbia sempre vicino qualcuno che gli dica ciò che egli deve fare in ogni istante della sua vita, perché questa determinazione proviene dalla possibilità di azione delle forze interne. Se qualcuno usurpa l’ufficio della guida interiore, il bambino non può sviluppare né la determinazione, né la concentrazione.
Così, se vogliamo che tali qualità si affermino, dobbiamo per prima cosa rendere il bimbo indipendente dall’adulto : e del resto, l’istinto più forte del bimbo è quello di liberarsi dall’adulto. La cosa è logica se guardiamo alle conclusioni, ma il bambino non lo fa per logica, agisce per natura : è la natura , che come abbiamo detto, dà la  traccia speciale che egli deve seguire.


Dacia Maraini
Colomba

Quello era l’odore dell’amore senza amore, si diceva il futuro capitano. Il suo cuore, per impegno matrimoniale, si trovava aggrappato come una cozza al corpo giunonico della fidanzata. Nessuno l’avrebbe mai staccato dalla futura sposa e futura madre dei suoi figli. Ne andava del suo onore. I sensi invece, come cavallette salterine, correvano lungo i prati dell'avventura, si nascondevano tra le foglie dell’erba nuova, cantavano per la felicità di esistere. Eppure quei sensi, per quanto sembrassero indipendenti e guidati solo dall’istinto, in realtà erano ben diretti e mai sarebbero andati a pascolare là dove era proibito. Era diventato bravissimo il tenente Del Signore ad amministrare i suoi affetti : rosei e tradizionali, come le tappezzerie preziose, tutte fiore e fiocchetti della casa di Amanita, che venivano dedicati alla futura sposa; molli, burrosi, pigri, quelli dedicati al bordello, ma soprattutto alla sua Pina. Anche se sapeva benissimo che non era affatto sua. Ma quella idea la cancellava scrupolosamente.
Faceva parte delle complicazioni della sorte e lui non amava le complicazioni.

 

GUIDA GALATTICA PER AUTOSTOPPISTI: STORIE DI ALTRI MONDI

Luciano Ligabue
La neve se ne frega

So benissimo i rischi che corro, ma ho assolutamente bisogno di dirti delle cose “senza di loro”.
Non oso nemmeno pensare cosa succederebbe se eseguissero il ritiro di quello che ti sto per scrivere e lo leggessero. E’ un’ipotesi che non voglio nemmeno considerare: cerco di convincermi che in questo momento le microcamere non siano accese e basta.
Già, le microcamere. Non so per te, ma ancora oggi resta insopportabile l’idea che una vigilante ti possa vedere fare l’amore.
Lo sappiamo che lì viene messa solo gente che di nascita non può essere morbosa. Però mi viene difficile pensare che un’altra donna non provi proprio niente mentre ti vede sempre indovinare i miei punti.
Punti che non restano fermi. Che non si accontentano di una mappa sola.


Luciano Ligabue
La neve se ne frega

Sono nato a settantanove anni. Meglio non poteva andare.
Ovvio che parlo per me. Uno, quando parla, lo fa per sé.
Gli altri di solito preferiscono nascite più lunghe.
Tipo ottantacinque o novantadue anni. Poi, naturalmente, si beccano quella che gli danno. Gli altri sono gli altri.
La mia è stata una nascita perfetta.
Non ci vuole un cervello di tre chili per capire che i nati intorno ai novant’anni qualche inconveniente ce l’hanno. Tipo doverne aspettare quasi una ventina prima che il corpo si faccia un po’ vivo. E se è vero che quelli come me si cuccano una decina di anni in meno, è anche vero che la pazienza richiesta è francamente troppa.
Io e la pazienza non è che ci frequentiamo granché.


Philip K. Dick
Cacciatore di androidi

Una minuscola e allegra vibrazione elettrica, trasmessa dalla soneria automatica e proveniente dall’ organo degli umori, accanto al suo letto, svegliò Rick Deckard. Sorpreso (trovarsi sveglio senza preavviso lo sorprendeva sempre) si alzò dal letto, restò immobile un attimo nel suo variopinto pigiama e si stiracchiò. Sua moglie Iran in quel momento aprì gli occhi, mesti, ma subito con un gemito li richiuse.
- Il tuo Penfield è troppo debole - l’ avvertì. – Ora te lo regolo io, ti sveglierai e...
- Giù le mani dal mio apparecchio! – La sua voce era aspra, e s’ incrinò. – Non voglio essere sveglia.
Rick si sedette sul letto e si chinò su di lei, spiegandole dolcemente: - Se tu regoli l’ onda abbastanza alta, sarai contenta di essere sveglia. Qui sta il punto. Mettendo l’ apparecchio sul C, l’ onda supera l’ ostacolo dell’ inconscio, come succede a me. – Amichevolmente, poiché si sentiva ben disposto verso il mondo (aveva regolato il suo apparecchio sul D) le batté una mano sulla spalla, nuda e pallida...


Lisa Jane Smith              
Il diario del vampiro – La furia

Ti amo, Stefan, disse disperatamente Elena, mentre una bianca sagoma indistinta si affrettava a scendere.
Katherine riprese forma davanti a loro.
“Non capisco cosa stia succedendo”, disse, con aria infastidita. “State bloccando il mio tunnel”. Sbirciò di nuovo al di là di Elena, verso la tomba violata e la cavità nel muro. “Me ne servo sempre per andare in giro”, continuò, apparentemente inconsapevole del corpo di Damon che giaceva ai suoi piedi. “Passa sotto il fiume. Così non devo attraversare l’ acqua che scorre, capite. Invece, ci passo sotto”. Li guardò, come se aspettasse un segno di apprezzamento per il trucco escogitato. Ma certo, pensò Elena. Come posso essere stata così stupida? Damon è passato sopra il fiume insieme a noi, nella macchina di Alaric. Allora ha attraversato l’ acqua in movimento, e chissà quante altre volte. Non poteva essere l’ Altro Potere.
Era incredibile come riuscisse a ragionare pur essendo così terrorizzata. Era come se parte della sua mente osservasse la situazione da lontano.
“Penso che vi ucciderò adesso”, disse Katherine disinvoltamente.”Poi passerò sotto il fiume e ucciderò i vostri amici. Non credo che i cani l’ abbiano già fatto. Me ne occuperò di persona”...


Tullio Avoledo
L’ elenco telefonico di Atlantide

Niente è per caso. Tutto quello che sembra accada per caso è in realtà determinato da una volontà superiore. Guardi che non voglio convincerla di niente. Io stesso fatico ad accettare quello che a volte vedo accadere intorno a me. Sono atterrito dalle coincidenze, spaventato dal modo in cui le cose si legano e si concatenano tra loro, dal modo in cui eventi remoti e senza rapporto apparente s’ intrecciano, generando fatti altrimenti inspiegabili. Lei crede di vivere nel mondo della ragione, del principio causa-effetto. Anch’io vorrei tanto crederci. Ma quella che vediamo è solo l’ ombra del mondo.
E’ una cosa che ho imparato in un luogo terribile. Un luogo senza speranza. Una scuola di fuoco e cenere. I cattivi maestri erano uomini dagli stivali lustri, vestiti di nero, con teschi e simboli antichi sui berretti e sulle mostrine. Uomini usciti da un incubo, con fruste e fucili.
Ricordo un racconto di Salgari che avevo letto da bambino. Descriveva il rito cartaginese di sacrificare i bambini buttandoli nel ventre arroventato di una statua di Moloch.
Ricordo il mio spavento quando lo lessi...


Primo Levi
Se non ora, quando?

Nella cabina di guida si stava bene, ma gli uomini e le donne stipati nel cassone, insieme con la prima aria di libertà, respiravano il vento gelido della notte: erano intorpiditi dal freddo e dalla posizione scomoda e indolenziti per i sobbalzi. Qualcuno protestò ma Gedale non diede ascolto.
- Quanto carburante abbiamo? – chiese a Mendel.
- Difficile dirlo. Forse ancora per trenta o quaranta chilometri, non di più…
- Bisogna trovare nafta, - disse Gedale, altrimenti la gita finisce presto…
Si fermarono all’alba su una strada secondaria. Ai due lati era accatastata una mole di rottami incredibile. Appena scesi dal camion si sparpagliarono subito per sondare i serbatoi. Il più fortunato fu Isidor, trovò un’autoblinda in piedi, senza ruote ma col serbatoio quasi pieno.
- Sbrigatevi a fare il travaso! – gridò Gedale; ma la faccenda non era semplice, tubo di gomma non ce n’era, nessuno ne aveva. Qualcuno propose di ribaltare l’autoblinda, ma Isidor disse: -Faccio io- e prima che qualcuno lo potesse trattenere, trasse fuori la Luger e sparò al fondo del serbatoio. Scaturì uno zampillo di nafta giallognola.
- E se esplodeva? – chiese Pavel con paura retrospettiva.
- Non è  esploso, - disse Isidor.
Il cielo si schiariva, e si sentiva venire da sud un lontano tuono di artiglieria: la via verso ponente era libera, i tedeschi arretrato fino oltre Legnica; invece,  lungo tutto il confine cecoslovacco, i combattimenti non erano mai cessati.


Muratami Haruki
Kafka sulla spiaggia

Entro in una delle sale della biblioteca,  e giro tra gli scaffali cercando un libro che possa interessarmi. Alcune travi grosse e maestose sostengono il soffitto. Dalle finestre penetrano i raggi del sole d’inizio estate. I vetri sono aperti verso l’esterno, e dal giardino giungono le voci degli uccellini. Negli scaffali che ho di fronte, come mi aveva detto Oshima, ci sono molti testi che riguardano poeti di tanka o haiku. Antologie, saggi critici, biografie. Vi sono anche numerosi volumi di storia locale.
Gli scaffali in fondo contengono libri di carattere più generale. Raccolte antologiche di letteratura giapponese e mondiale, testi teatrali, arte, sociologia, storia, biografie, geografia… Quando prendo in mano qualche libro e lo apro, dalle pagine emana un odore antico. E’ un odore particolare, sprigionato dalla conoscenza profonda e dalle intense emozioni che hanno dormito a lungo, tranquille, al riparo della copertina. Aspiro quell’odore, scorro con gli occhi alcune pagine, e ripongo il libro negli scaffali.
Poi finalmente mi fermo sull’edizione delle Mille e una notte nella traduzione di Burton. Scelgo uno di quei volumi dalle belle copertine e lo porto nella sala di lettura. E’ il libro che volevo leggere da tempo.


Stefano Benni
BAOL Una tranquilla notte di regime

Mi voltai. Un uomo vestito tutto di nero, magro, con baffi sottili e l’aria di un ballerino di tango. I capelli erano fissati al capo da una colata di gel. Erano così lucidi che gli si specchiavano le nuvole.
- C’e una vera confusione Baol- Disse l’uomo.
- Come mi hai riconosciuto?- dissi un po’ sorpreso.
- Nel mio mestiere ho imparato a vagliare le persone.
Permette? Sono Amadeus Politropo, conversatore governativo di prima categoria. Vogliamo andare a bere qualcosa?
Ci sedemmo a un bar all’aperto. Ordinammo un fernod e un pernet. Mi sorrideva benevolo. Non sembrava proprio un agente segreto ribelle (ciò provava che lo era!).
- Sapevo che esistevano i conversatori governativi – dissi – ma non ne avevo mai conosciuto uno.
- Naturalmente – disse Politropo – il nostro mestiere è segretissimo. Il nostro compito è quello di andare in giro per la città a conversare. Attizzare con le nostre conversazioni l’argomento del giorno[…]. E oltre che attizzare, dobbiamo spegnere gli argomenti che interessano da troppo tempo o suscitano troppi interrogativi. Di tutto dobbiamo parlare. Siamo erbari di metafore e arguzie. E intenditori di stopper. E pettegoli di bassa lega. E teorici della complessità. Sappiamo essere irosi e dolci, competenti e arroganti, precisi e bugiardi. L’importante è che si chiacchieri. E soprattutto che non ci si allontani dallo Spirito dei Tempi. Per questo ci pagano.
      

Stefano Benni
BAOL Una tranquilla notte di regime

Coloro che al momento erano reditivi erano stati anche gli ultimi a morire: gli ultimi casi di morte si erano verificati prima del giugno 1986. Ma, secondo Alex Hobart, l’inversione temporale avrebbe raggiunto epoche più tarde, comprendendo un arco di tempo sempre più  ampio; morti sempre più antichi sarebbero tornati in vita… e, tra duemila anni, anche Paolo non avrebbe più ‘dormito’, come lui stesso aveva predetto.
Ma per quel tempo – molto, molto prima di allora – Sebastian Hermes e tutti gli altri viventi sarebbero tornati negli uteri in attesa, e ben presto sarebbe accaduto lo stesso anche alle madri che possedevano quegli uteri. Tutto questo, naturalmente, sempre che Hobart avesse ragione, e la fase non fosse temporanea, di breve durata, ma piuttosto uno di quei vasti processi siderali, che si verificano ogni qualche miliardo di anni.
           

George Orwell
1984

Se amavate qualcuno, lo amavate e basta, e se non avevate altro da offrirgli, continuavate a dargli amore. Quando era scomparso anche l’ultimo pezzetto di cioccolato, sua madre sua madre aveva stretto la bambina fra le braccia. Si trattava di un gesto inutile, che non cambiava nulla, non faceva sorgere altro cioccolato dal nulla, non allontanava la morte della bambina, né la propria, ma le era parso naturale compierlo. Anche la donna sfollata della barca aveva stretto il braccio attorno al suo bambino, con un gesto che contro i proiettili aveva la stessa efficacia di un foglio di carta. La cosa terribile che aveva fatto il Partito – mentre vi derubava di qualsiasi controllo della realtà – era stata quella di convincervi che gli impulsi e i sentimenti non avevano alcun valore. Una volta caduti in balia del Partito, quel che sentivate o non sentivate, quel che facevate o vi astenevate dal fare, non cambiava, letteralmente, niente. In ogni caso scomparivate, e di voi e delle vostre azioni non restava più traccia. Venivate sottratti completamente al flusso della storia.
[…]
A contare erano i rapporti individuali e un gesto inutile, un abbraccio, una lacrima, una parola detta a un morente avevano senso di per sé.


Massimo Carlotto
La terra della mia anima

Io non me n’ero ancora reso conto, ma il mio nome era molto rispettato nell’ ambiente del contrabbando. Avevo dato prova di essere affidabile e tenace. Così mi dissero due tizi dall’ aria distinta che mi avevano invitato a cena in un ristorante alla moda di Genova. Anche i loro nomi erano rispettati. Erano conosciuti come i due più grossi finanziatori di bande indipendenti a livello nazionale. 
“Abbiamo investito un sacco di soldi nella progettazione e nella costruzione del più moderno motoscafo da contrabbando” spiegò il primo.
“Lo abbiamo chiamato Tortuga e vogliamo affidarlo a te” concluse il secondo.
Non avevo mai visto una barca del genere. Era interamente costruita in alluminio saldato, lunga quattordici metri, affusolata come un siluro, inaffondabile, con una stiva progettata per contenere duecento casse di sigarette e con una cabina molto piccola a tenuta stagna, dove non c’ erano sedili. Si pilotava stando in piedi, con la schiena appoggiata alla parete imbottita. Era spinta da due motori turbodiesel General Motors da mille cavalli.
“E’ bellissima” bofonchiai stupito. “E’ il sogno di tutti i contrabbandieri”.

 

L'OLOCAUSTO E I BAMBINI

Millman Isaac
Il bambino nascosto

Passando davanti alla casa della sorella di Héna, la colonna si fermò di nuovo. Un soldato saltò giù da un carro armato. A noi non pareva vero di essere così vicini a un americano e lo seguimmo a un passo di distanza. Madame Laks era uscita in giardino. L’uomo indicò la pompa dell’acqua e cominciò a dire qualcosa. Lei capì che chiedeva da bere e, nell’eccitazione del momento, disse qualche parola in yiddish. Il soldato sorrise. “Mi chiamo Epstein! Anch’io sono ebreo. Parlo yiddish”. Madame Laks era fuori di sé dalla gioia. “Venite”, disse, “prendete tutta l’acqua che volete”.
Noi ragazzi facemmo a turno a riempire le gavette dei soldati e loro in cambio ci regalarono della gomma da masticare. Per noi era una gran novità, non l’avevamo mai vista prima. Poi i soldati risalirono sui carri e noi li accompagnammo ancora fino alla stazione ferroviaria. Tornando indietro, trovammo un gruppo di persone attorno a un’automobile tedesca crivellata di colpi che giaceva rovesciata su un fianco in mezzo alla strada. Qualcuno disse che erano ufficiali delle SS. Stavano fuggendo davanti all’avanzata degli alleati, ma avevano sbagliato strada ed erano incappati negli americani. Guardai affascinato un tedesco moribondo esalare l’ultimo respiro. Quando lasciai Pontault-Combault, nella primavera del 1945, gli amici vennero a salutarmi. Pierre mi dette gli astragali come dono d’addio. André mi regalò la sua fionda. Madame Devolder tirò fuori il fazzoletto e si asciugò gli occhi. “Mi mancherai, Jean”, disse abbracciandomi. Mentre me ne andavo con Héna, mi accorsi che una parte di me era triste.


Kacer Kathy
Un posto sicuro

La giornata era così bella e la città così piena di energia che Edith quasi si dimenticò di come, ogni giorno di più, la paura s’insinuava nella sua vita. Per quanto fosse giovane, vivendo a Vienna nel 1938 non poteva non accorgersi che l’Austria era diventata un luogo pericoloso. Due mesi prima l’Austria era stata annessa alla Germania, i soldati nazisti avevano marciato per le strade di Vienna. Gli austriaci li avevano salutati sventolando bandiere con la svastica, l’emblema dell’esercito nazista. Ma le famiglie ebree come quella di Edith non avevano festeggiato. Il nome di Adolf Hitler veniva sussurrato con terrore. Hitler era il capo del governo della Germania nazista e odiava gli ebrei. Diceva che erano sporchi, avidi e pericolosi. Diceva che gli ebrei erano nemici della Germania e dovevano essere fermati. Avevano promesso che gli austriaci avrebbero vissuto meglio, una volta sbarazzatisi degli ebrei. Ora i suoi sostenitori erano al potere in Austria e volevano colpire chiunque fosse ebreo. Impedivano agli ebrei di fare le cose che facevano normalmente, come andare ai giardini o al parco giochi, e in molti negozi non potevano più entrare. Furono obbligati a chiudere le proprie attività o a cederle a sostenitori del partito nazista.
Da quando erano cominciati i problemi, Papa andava a prendere Edith tutti i giorni a scuola, perché temeva per la sua incolumità. Edith scosse la testa. In quel momento non voleva pensarci. E poi aveva fame. La scuola le metteva sempre appettito. Le brontolava lo stomaco e stava già sognando il pranzo...


Lia Levi
Maddalena resta a casa

Marco tornò a casa all’improvviso mentre Maddalena (e poteva sembrare una scenetta allestita a bella posta) era compuntamente assorta nei suoi compiti, sotto il cono di luce della lampada ad arabeschi verdi e azzurri. Nino, seduto accanto a lei, guardava distrattamente un libro.
Fu Melchiorre a incominciare ad abbaiare e a ruotare vorticosamente attorno a se stesso, come una girandola in un giorno di vento. Il tempo, per Maddalena, di alzare gli occhi stupiti e suo padre era già là. Forse più pallido , con la barba un po’ lunga, ma era lui, proprio lui, in carne e ossa.
- Papà! – E per la prima volta da quel primo giorno di un mese fa, quando si era trovata sola, Maddalena scoppiò in singhiozzi.
- Su, su, non fare così… non lo vedi che tutto è a posto? Non hanno trovato niente che gli permettesse di tenermi dentro: Mi volevano con loro, ma non gli è riuscito, e hanno dovuto lasciarmi tornare da te… - e Marco, un po’ scherzando e un po’ abbracciandola forte si coccolava Maddalena.
- Nino!!! – disse poi riscuotendosi e guardando il ragazzo che era rimasto imbambolato accanto ai suoi libri. – Nino, la tua famiglia è stata proprio meravigliosa. Ora andiamo da loro… li voglio ringraziare di persona, gli voglio comunicare direttamente il mio ritorno.
- Suo fratello ha gli orecchioni – buttò lì Maddalena con voce incerta.
- Lo so, vuoi che non lo sappia? Se li è presi anche Jolanda… non ho capito bene come, ma è andata così. Per me comunque non c’è pericolo. Io li ho avuti al tempo giusto.
- Papà, possiamo andarci domani, intanto glielo dice Nino che tu sei tornato…
- Maddalena! E’ un mese che vivi a casa loro e vuoi sparire così, insalutata ospite? Ma dove la mettiamo l’educazione che ho tentato di insegnarti? – e Marco scuoteva la testa u po’ stupito.
Maddalena guardò Nino, ma Nino si voltò ostentatamente a guardare Melchiorre che si stava mordicchiando una zampa.
- Insomma, che c’è? -. Marco era troppo attento per non aver notato quel gioco di sguardi. – Maddalena? Ti sei comportata male? C’è qualcosa che mi vuoi dire? In questo caso è meglio che tu lo faccia subito…
- Intanto io vado a casa – infilò lì Nino veloce e… altro che gatto! Pareva che la finestra avesse allungato una lingua per inghiottirlo, tanto rapidamente era sparito.
- Senti papà… - cominciò esitante Maddalena. Si vedeva chiaramente che non sapeva proprio da che parte cominciare.
Poi raccontò tutto…


Fabrizio Roccheggiani
La bicicletta di mio padre

Le retate dei fascisti
I vicini di mia nonna, all’ultimo piano hanno un nascondiglio dove possono trovar posto anche sei persone.
E’ ricavato dietro un pannello nel muro accanto alla vasca da bagno.
Spesso per strada fascisti e nazisti fanno delle retate per mandare gli uomini ai campi di lavoro al Nord e in Germania.
Controllano ovunque documenti e permessi per scovare nemici ebrei e oppositori. Chi non vuole collaborare o combattere per gli occupanti è costretto far perdere le proprie tracce e a vivere in continua ansia per non essere scoperto.
In questi giorni anche nascondersi è un modo per resistere.

L’Amore
Per fortuna c’è l’amore.
L’amore ci protegge dalla paura salva il cuore e i pensieri come la mano di mia madre che scivola certe volte davanti ai mie occhi per evitarmi le brutte visioni della realtà, per impedire che ritornino nei sogni.
Ci sono le preghiere di sera e c’è mio padre che fischietta quando va in camera da letto dopo la buonanotte.
C’è il sorriso dei mie vicini di casa, degli amici di famiglia quando si chinano sopra di me.
Sono entrati nell’abitudine alla guerra come in una nuova casa.
Ma ne hanno poi sistemato i mobili e le suppellettili per viverci al meglio possibile, e come volevano loro.


Tomi Ungerer
Otto

Una sera di molti anni dopo, finalmente, un anziano turista rimase a bocca aperta davanti alla vetrina.
Con gli occhi spalancati per lo stupore, sussurrò emozionato: “Otto!”, ed entrò di corsa nel negozio. Era Oscar.
In un inglese stentato, raccontò al rigattiere come si erano conosciuti e mi comprò.
La nostra storia finì sulle prime pagine dei giornali.
Nella camera d’albergo di Oscar, una sera squillò il telefono.
Lo sentii dire: “Davide, non è possibile! Sì, sì, veniamo!”
E poco dopo eravamo tutti e tre insieme, a festeggiare il nostro incontro.
La storia che ascoltai era molto triste: Davide e Oscar erano gli unici sopravvissuti delle loro famiglie. Davide e i suoi genitori erano finiti in un campo di concentramento, e lì i suoi erano morti, la mamma durante un bombardamento aereo.
Ora niente doveva più dividerci!
Decidemmo di rimanere uniti e cercammo una casa per tutti e tre. Finalmente la vita è come deve essere: pacifica e normale.
E per non annoiarmi ho cominciato a scrivere la nostra storia…

   
Truya Lahav
Gli zoccoli di Andrè

Van Eyck mi tirò fuori e mi mise al suo fianco.
- Ti presento il signore e la signora Sleegers, sono venuti a prenderti.
- Siamo molto contenti di conoscerti, - dissero i due a una sola voce, attaccati come una coppia di gemelli. Entrambi mi strinsero la mano, l'agitarono con calore e non la lasciarono andare. Io caddi a terra. Non ne potevo piú: le fughe e le separazioni, i vagabondaggi da un posto all'altro, da casa nostra al palazzo e da là alla prigione che era un ospedale, alla soffitta e alla cantina, e poi il treno, la fattoria, i vecchi, la caffetteria e ora questi due, che continuavano a tenermi la mano e non la lasciavano andare. Ovunque mi avevano cacciato e nessuno mi aveva voluto. Non desideravo altro che poter restare da qualche parte. Ma cosa potevo fare, senza nessuno vicino e senza la possibilità di accettare o rifiutare? E così andai. Andai con il signore e la signora, debole come un malato, disposto a seguirli ovunque avessero voluto portarmi.
Fuori c’era una calda e incantevole notte d’estate. La luna piena splendeva in un cielo meraviglioso. In città le notti sono inondate dalla luce elettrica e le stelle sono fioche perché nessuno le cerca, ma qui, nell’oscurità completa, la cupola notturna mi si rivelò, risplendente di innumerevoli diamanti di stelle… stelle stelle stelle stelle  stelle stelle stelle. Mi misi a sedere sul seggiolino posteriore della bicicletta, girai la testa verso l’alto e osservai stupito la vastità di quella bellezza, di quella serenità. La donna, la signora Sleegers, mi chiese se stavo bene, e io, perso tra le stelle stelle stelle non le risposi. Pensai a Benne. Forse anche lui come me, ovunque si trovasse, stava guardando in alto, proprio in quel momento, e tutti e due stavamo quindi osservando lo stesso cielo e le stesse stelle. E se tutti e due guardavamo la stessa cosa nello stesso momento, voleva dire che, anche se ci avevano separati, eravamo insieme.
Superammo campi e boschi, costeggiammo la riva di un lago che rifletteva la luce della luna, udii grilli e rospi come nella palude, con Willi, tra le dune di sabbia bianca che confinavano con la nostra via. Mi sentivo a casa, così tanto a casa, che per un attimo fui leggero come allora, tanto tempo fa, tre settimane prima. Per un dolce momento volai in alto nella mia bolla di sapone, fino a quando non esplose la puzza che avevo già sentito. Di letame. Ancora letame. Ancora una fattoria. Quanto ci sarebbe voluto prima che mi cacciassero anche da qui?...


Judith Kerr
Quando Hitler rubò il coniglio rosa

La seduta di alta moda in casa Fernand ebbe un gran successo. Madame Fernand era proprio simpatica, come la ricordava Anna, e fu così brava a tagliare la stoffa della prozia Sarah, che dalla stoffa verde riuscì a tirar fuori anche un paio di calzoni corti per Max, oltre al cappotto, al vestito e alla sottana per Anna. Quando la mamma si offrì di aiutarla a cucire, madame Fernand la guardò e si mise a ridere.
«Vai pure a suonare il piano» disse. «Vado avanti io con questo.»
«Ma ho portato anche l'occorrente per cucire» insistette la mamma. Scavò nella borsa e ne trasse fuori trionfante un vecchio rocchetto di filo bianco e un ago.
«Mia cara» le disse molto gentilmente madame Fernand «non mi fiderei di te neppure per l'orlo di un fazzoletto.»
Così la mamma si mise a suonare il piano in un angolo del simpatico salotto dei Fernand, mentre madame Fernand cuciva dall'altra parte, e Anna e Max andarono fuori a giocare con Francine, la figlia dei Fernand.
Prima di andare a casa loro, Max aveva avuto seri dubbi su Francine.
«Non voglio giocare con una bambina! » aveva detto, e insisteva di non potere andare per via dei compiti.
«Non sei mai stato così attaccato ai tuoi compiti prima d'ora!» si era arrabbiata la mamma, ma era ingiusto, perché ultimamente, nel suo sforzo per imparare il francese rapidamente, Max era diventato molto più coscienzioso nello studio. Si era offeso alle parole della mamma e guardava tutti con rabbia, finché arrivarono dai Fernand e Francine aprì la porta. Allora di colpo la sua rabbia sparì. Era una bambina notevolmente carina, con lunghi capelli biondi e grandi occhi grigi.
«Tu sei Francine» disse Max e aggiunse, mentendo spudoratamente, ma con un perfetto accento francese: «Avevo tanta voglia di conoscerti!»
Francine aveva molti giocattoli e un grosso gatto bianco. Il gatto si impossessò immediatamente di Anna e si sedette sulle sue ginocchia, mentre Francine cercava qualcosa nell'armadio dei giocattoli. Finalmente lo trovò…


Uri Orvel
L’isola in via degli uccelli

Avevo deciso di alzarmi prestissimo, quando la luce è ancora grigia. Così, pensavo, gli sciacalli diurni erano ancora a letto e quelli notturni se ne sarebbero già tornati a casa. Ma nonostante il cinguettio degli uccelli al piano sopra al mio, non mi svegliai in tempo. Quando emersi dalla dispensa era già una bella giornata d'autunno. Mi stiracchiai e soffocai uno sbadiglio. Cercai di scorgere il portone d'ingresso ma non riuscii a vederlo. Il che voleva dire che chiunque fosse entrato nell'edificio non sarebbe riuscito a vedermi. Feci qualche passo avanti e il portone comparve. Ora vedevo anche le macerie sotto di me. Mi inginocchiai e con un gessetto rosso che avevo trovato nella stanza dei bambini della casa vicina tracciai per terra una linea che non dovevo superare stando in piedi. Poi tracciai una seconda linea in verde che non dovevo superare nemmeno carponi.
Mi sedetti sulla soglia della dispensa e feci colazione con Neve. Improvvisamente sentii un'automobile che risaliva la strada, dalla parte del ghetto. Buttai tutto dentro alla dispensa e chiusi la porta, malgrado sapessi che non era visibile da terra. Rimasi dov'ero, disteso sul pavimento.
-Vennero dritti al numero 78. Che mandassero una macchina solo per me? Forse mi ero mosso tanto negli ultimi giorni che mi avevano sentito e preso per un gruppo di persone. Eppure avevo cercato di fare meno rumore possibile. Che qualcuno mi avesse visto sistemare la scala e venisse solo adesso a cercarmi? Dovevo calare dalla finestra la corda d'emergenza e scappar via. Mi preparai. Solo che Neve era dentro alla dispensa. Non avrei dovuto lasciarlo là, perché tirandolo fuori avrei fatto rumore.
Un gran gruppo di uomini entrò tra le rovine. Capivo che erano in molti dal rumore dei passi e dalle grida, che erano parte in tedesco e parte in yiddish. Uno disse delle parole in buon polacco e gli fu risposto in cattivo polacco. Sentii che trascinavano qualcosa sui detriti, e poi un ordine dato in tedesco. Picconate su un muro, mattoni che cadevano. Intonaco che si sgretolava e crollava a terra. Capii quello che stavano facendo e mi rilassai. Ne avevano già parlato la prima volta che erano arrivati lì a cercare il rifugio: stavano allargando l'apertura per esplorare la cantina.
Cercai di immaginare me stesso laggiù. Come mi sarei sentito a star lì seduto, impotente, facendomi piccolo, mentre sentivo i colpi dei martelli e dei picconi?
Gli uccelli del piano di sopra presero il volo e si dileguarono…


Rut Vander Zee e Roberto Innocenti
La storia di Erika

Quand'è che presero la decisione?
Forse mia madre dovette faticare un po' per raggiungere la lunga parete di legno del vagone. "Permesso! Scusate! Scusate!"
Chissà se pronunciò il mio nome, mentre mi avvolgeva stretta nella coperta di lana.
Se mi baciò, dicendomi qua o mi voleva bene. Chissà se pianse. Se pregò.
II treno rallentò, prima di entrare in una stazioncina di periferia.
Mia madre, allora, deve essersi affacciata alla finestra in alto, una specie di fessura da cui passava l'unico spiraglio d'aria. Insieme a mio padre allargò le fitte maglie di filo spinato.
Forse qualcuno li aiutò. Poi mi sollevò sopra la sua testa, nella grigia del giorno . Ciò che accadde dopo, è la sola cosa di cui sono certa.
Mi lanciò fuori dal treno.
Mi lanciò su un piccolo tappeto d'erba, vicino ad un passaggio livello.
C'era della gente, ferma davanti ai binari. Aspettavano di poter passare e videro me volar fuori dal vagone. Nel suo viaggio verso la morte, mia madre mi scaraventò dentro la vita.
Qualcuno mi raccolse e mi affidò ad una donna che si prese cura di me e che per me rischiò la propria vita. Stimò ad occhio croce quanti mesi potessi avere e si inventò un giorno per il mio compleanno. Mi chiamò Erika. Mi dette una casa, mi nutri, mi vestì, mi mandò a scuola. E mi volle bene.
A ventun anni sposai un uomo meraviglioso. Un uomo capace di lenire il dolore che mi straziava e di comprendere il mio desiderio di famiglia. Insieme abbiamo avuto tre figli ed ora abbiamo anche dei nipotini. Nelle loro piccole facce, io ritrovo la mia.
Una volta qualcuno mi disse che al mondo d sono tanti ebrei, quante stelle in cielo. Sei milioni di quelle stelle caddero tra il 1933 ed il 1945. Ognuna di quelle stelle era una parte di me. Ognuna di quelle stelle era un essere umano la cui esistenza fu vilmente profanata, il cui albero genealogico venne abbattuto.
Oggi la mia genia ha messo nuove radici.
E la mia stella è ancora lassù, che splende.

 

 

ITALO CALVINO ED ELSA MORANTE 1985-2015

Elsa Morante
Menzogna e sortilegio

Alla nascita del bambino, ella seguì le esortazioni delle amiche, e, secondo la promessa fatta alla suocera, lo fece battezzare all'insaputa di Damiano. Come temendo, per il figlio, quell'empietà e ribellione che rendeva lei così superba. In quell'occasione, il parroco le rimproverò, non per la prima volta, l'assenza dalla Messa e dal confessionale; ed ella stette a sentire questi rimproveri senza rispondere nulla, con un sorriso impassibile di misterioso compiacimento.
Adesso che il figlio era nato, Alessandra provò per la prima volta, nel suo cuore rimasto virgineo, il fuoco e l'allegrezza d'una passione. In presenza d'altri, pure apparendo raggiante col suo bel bambino in braccio, rimaneva chiusa nel suo materno pudore, mostrandosi riservata e tranquilla com'essi la conoscevano. Ma trovandosi sola col bambino in camera o nei campi, a lui, prova, origine e testimone della propria gloria, Alessandra apriva le ricche sorgenti d'amore che aveva in sé, e che nessuno oltre a lui, minuscolo e ignaro, avrebbe mai più esplorato. Lei, che non aveva mai dato baci d'amore, copriva di baci folli e innocenti quelle piccole membra; e, da taciturna fattasi eloquente come un usignolo, cercava in tutte le infanzie a lei familiari e inconsciamente dilette, fra gli animali terrestri e celesti, fra le piante, fra le luci, dei paragoni nuovi per dar nuovi nomi al suo bambino.


Italo Calvino
da Fiabe italiane.
Il paese dove non si muore mai

Un giorno, un giovane disse: - A me questa storia che tutti devono morire mi piace poco: voglio andare a cercare il paese dove non si muore mai.
Saluta padre, madre, zii e cugini, e parte. Cammina giorni, cammina mesi, e a tutti quelli che incontrava domandava se sapevano insegnargli il posto dove non si muore mai: ma nessuno lo sapeva. Un giorno incontrò un vecchio, con una barba bianca fino al petto, che spingeva una carriola carica di pietre. Gli domandò - Sapete insegnarmi dov' è il posto in cui non si muore mai?
- Non vuoi morire? Stattene con me. Finchè non ho finito di trasportare con la mia carriola tutta quella montagna a pietra a pietra, non morirai.
- E quanto tempo ci mettere te a spianarla?
- Cent' anni, ci metterò
- E poi dovrò morire?
- E sì.
- No, non è questo il posto per me: voglio andare in un posto dove non si muoia mai.
Saluta il vecchio e tira dritto. Cammina cammina, e arriva a un bosco così grande che pareva senza fine. C'era un vecchio con la barba fino all'ombelico, che con una roncola tagliava rami. Il giovane gli domandò - Per piacere, un posto dove non si muoia mai, me lo sapete dire?
- Sta con me, - gli disse il vecchio. - Se prima non ho tagliato tutto il bosco con la mia roncola, non morirai.
- E quanto ci vorrà
- Mah! Duecento anni.
- E dopo dovrò morire lo stesso?


Elsa Morante
Aracoeli

Chi può dire dove e quando la macchina dei ricordi inizia il proprio lavoro? In genere si suppone che, al momento della nascita, la nostra memoria sia un foglio bianco; però non è escluso che, invece, ogni nuovo nato porti con sé la stampa di chi sa quali soggiorni anteriori, con altre nature e altre luci. Forse queste, agli esordi del suo soggiorno terrestre, interferiscono ancora, simili a una lente aberrante, nelle nuove apparenze quotidiane offerte alla sua rètina. E allora il suo campo s'inonda di forme e colori favolosi, per via via ridursi, impallidendo nel tempo, alla povertà di una sinopia dopo lo strappo dell'affresco. Finché la memoria adulta (comunemente, almeno) provvede a dissipare fino all'ultima ombra di quel primario spettro luminoso. Considerandolo, a distanza, nient'altro che un effetto equivoco, falso e strumentale: il quale forse, con le sue fantasmagorie precarie, voleva consolarci dalla nascita, così come le visioni leggendarie dell'al di là vorrebbero consolarci della morte.
Quando Aracoeli e io traslocammo per sempre dalla casa della mia nascita bastarda, la mia età era di circa quattro anni. E dopo di allora io non ho mai più rivisto quella casa.


Italo Calvino
Le città invisibili

Inutilmente, magnanimo Kublai, tenterò di descriverti la città di Zaira dagli alti bastioni. Potrei dirti di quanti gradini sono le vie fatte a scale, di che sesto gli archi dei porticati, di quali lamine di zinco sono ricoperti i tetti; ma so che già sarebbe come non dirti nulla.
Non di questo è fatta la città, ma di relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato: la distanza dal suolo d’un lampione e i piedi penzolanti d’un usurpatore impiccato; il filo teso dal lampione alla ringhiera di fronte e i festoni che impavesavano il percorso del corteo nuziale della regina; l’altezza di quella ringhiera e il salto dell’adultero che la scavalca all’alba; l’inclinazione d’una grondaia e l’incedervi d’un gatto che s’infila nella stessa finestra; la linea di tiro della cannoniera apparsa all’improvviso dietro il capo e la bomba che distrugge la grondaia; gli strappi delle reti da pesca e i tre vecchi che seduti sul molo a rammendare le reti si raccontano per la centesima volta la storia della cannoniera dell’usurpatore, che si dice fosse un figlio adulterino della regina, abbandonato in fasce lì sul molo.
Di quest’onda che rifluisce dai ricordi la città s’imbeve come una spugna e si dilata.
Una descrizione di Zaira quale è oggi dovrebbe contenere tutto il passato di Zaira.
Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole.


Elsa Morante
L’isola di Arturo

Il giorno seguente, io mi svegliai alle prime luci. Mio padre e la sposa dormivano ancora, il tempo era bellissimo. Io me ne andai in giro, e tornai a casa che era già mattino alto.
Girai dietro alla casa, dalla parte della cucina; e attraverso i vetri della porta-finestra, vidi che in cucina c'era lei, sola, e intenta a preparare la pasta sul piano sgombro della tavola. Aveva versato dei tuorli in mezzo a un mucchietto di farina, e li sbatteva energicamente con le dita. Essa non mi aveva scorto, e io mi arrestai dietro i vetri, stupito al notare quanto era mutato il suo aspetto, dalla sera avanti.
Come aveva potuto avvenire, in un intervallo così breve, una trasformazione tanto strana! Essa aveva la stessa maglia rossa del giorno prima, la stessa gonna, le stesse ciabattelle; ma era diventata irriconoscibile per me. Tutto ciò che, ieri, faceva la sua grazia ai miei occhi, era svanito dalla sua persona.
Anche oggi, seguendo il capriccio di mio padre, essa portava i capelli sciolti: ma i suoi ricci in disordine, che ieri parevano una ghirlanda favolosa, oggi le davano invece un'apparenza scomposta e plebea; e la loro nerezza, a contrasto col pallore del suo viso, le aggiungeva un che di fosco. Un pallore pesante, pieno di mollezza, aveva scacciato dalle sue guance il colore candido di ieri; e sotto gli occhi le sue orbite, che ieri per la loro delicatezza intatta m'avevano fatto pensare ai petali d'un fiore, erano segnate da un alone scuro, guastate.


Italo Calvino
Lezioni americane

Con questo non voglio dire che la rapidità sia un valore in sé: il tempo narrativo può essere anche ritardante, o ciclico, o immobile. In ogni caso il racconto è un'operazione sulla durata, un incantesimo che agisce sullo scorrere del tempo, contraendolo o dilatandolo. In Sicilia chi racconta le fiabe usa una formula: “In cuntu nun metti tempu”, “il racconto non mette tempo” quando vuole saltare dei passaggi o indicare un intervallo di mesi o di anni. La tecnica della narrazione orale nella tradizione popolare risponde a criteri di funzionalità: trascura i dettagli che non servono ma insiste sulle ripetizioni, per esempio quando la fiaba consiste in una serie di ostacoli da superare. Il piacere infantile d'ascoltare storie sta anche nell'attesa di ciò che si ripete: situazioni, frasi, formule. Come nelle poesie e nelle canzoni le rime scandiscono il ritmo, così nelle narrazioni in prosa ci sono avvenimenti che rimano tra loro. La leggenda di Carlomagno ha un'efficacia narrativa perché è una successione d'avvenimenti che si rispondono come rime in una poesia.
Se in un'epoca della mia attività letteraria sono stato attratto dai folktales, dai fairytales, non è stato per fedeltà a una tradizione etnica (dato che le mie radici sono in un'Italia del tutto moderna e cosmopolita) né per nostalgia delle letture infantili (nella mia famiglia un bambino doveva leggere solo libri istruttivi e con qualche fondamento scientifico) ma per interesse stilistico e strutturale, per l'economia, il ritmo, la logica essenziale con cui sono raccontate.


Elsa Morante
La storia

Dopo l'assalto al carico della farina, Ida non si credeva più capace di tornare al quartiere San Lorenzo, diventato per lei il centro stesso della paura. Ma, trascorse due settimane dalla riapertura delle strade senza ancora notizie di Ninnarieddu, si avventurò fino all'osteria di Remo.
Qui, apprese la notizia sorprendente che Nino era già stato a Roma sui primi di giugno, poco dopo l'ingresso degli Alleati, passando per una rapida visita dall'oste, che gli aveva naturalmente fornito l'indirizzo di sua madre al Testaccio. Di salute stava benissimo, allegro, e aveva portato buone notizie anche di Carlo-Piorr, il quale era vivo e sano, e attualmente abitava presso dei parenti (si trattava in realtà della sua balia) in un paesino a mezza strada fra Napoli e Salerno. I due, dopo aver superato assieme, incolumi, il passaggio delle linee, avevano conservato, anzi rafforzato la loro amicizia di guerriglieri; e spesso avevano occasione d'incontrarsi a Napoli, dove Nino teneva degli affari importanti.
Queste erano, in tutto e per tutto, le notizie, poche e sbrigative, che l'oste aveva ottenuto da Nino: il quale stava a bordo di una Gip militare, in compagnia di due sottufficiali americani, e aveva molta fretta. Dopo quel giorno, l'oste non lo aveva più riveduto.
Dopo tale informazione rassicurante, Ida non seppe più niente di Nino fino all'agosto. In quel mese, arrivò una sua cartolina col timbro Capri e la foto a colori di un palazzo lussuoso intitolato Quisisana Grand Hotel. Equivocando, i destinatari favoleggiarono che Nino fosse alloggiato addirittura in quel palazzo. Sul lato della corrispondenza, fra numerose altre firme di sconosciuti, lui, sopra alla sua propria firma: Nino, ci aveva scritto soltanto: See you soon.


Italo Calvino
Se una notte d’inverno un viaggiatore
                 
Gli odori e i rumori abituali della casa mi si affollavano intorno quel mattino come per un addio: tutto quello che avevo conosciuto fino allora stavo per perderlo, per un periodo tanto lungo – così mi sembrava – che quando sarei tornato nulla sarebbe stato come prima né io sarei stato lo stesso io. Perciò era come un addio per sempre, il mio: dalla cucina, dalla casa, dai knödel della zia Ugurd; perciò questo senso di concretezza che tu hai colto dalle prime righe porta in sé anche il senso della perdita, la vertigine della dissoluzione; e anche questo ti rendi conto di averlo avvertito, da Lettore attento quale tu sei, fin dalla prima pagina, quando pur compiacendoti della precisione di questa scrittura avvertivi che a dir la verità tutto ti sfuggiva tra le dita, forse anche per colpa della traduzione, ti sei detto, che ha un bell'essere fedele ma certo non restituisce la sostanza corposa che quei termini devono avere nella lingua originale, qualsiasi essa sia. Ogni frase insomma intende trasmetterti la solidità del mio rapporto con la casa di Kudgiwa e il rimpianto della sua perdita, non solo: anche – forse non te ne sei ancora accorto ma se ci ripensi vedi che è proprio così – la spinta a staccarmene, a correre verso l'ignoto, a voltar pagina, lontano dall'odore acidulo della schoëblintsjia, per cominciare un nuovo capitolo con nuovi incontrinegli interminabili tramonti sull'Agad, nelle domeniche a Pëtkwo, nelle feste al Palazzo del Sidro.

 
Elsa Morante
Lo scialle andaluso

Fin da ragazzina, Giuditta, a causa del suo amore per il teatro e per la danza, s'era messa contro tutti i parenti: in quella buona famiglia di commercianti siciliani, la professione di danzatrice (sia pure di danze serie, classiche) era considerata un crimine, un disonore. Ma Giuditta, nella lotta, si condusse da eroina: studiò di nascosto e a dispetto di tutti. E appena cresciuta, lasciò Palermo, la famiglia e le amiche, e se ne andò a Roma, dove, pochi mesi dopo, già faceva parte del Corpo di Ballo dell'Opera. Così, il Teatro, che era sempre stato il suo Paradiso, l’aveva accolta! Giuditta, nel suo entusiasmo, si diceva che questo era solo il primo passo: aveva sempre pensato di essere una grande artista, destinata alla gloria, e un giovane corteggiatore, un musicista del Nord Italia, conosciuto all'Opera, la incoraggiò in questa convinzione. Giuditta lo sposò. Egli era bello, e veniva stimato da tutti una promessa per l'arte; ma, purtroppo, solo tre anni dopo le nozze, la lasciò vedova con due piccoli figli gemelli: Laura e Andrea.
Pure avversando la sua professione e il suo matrimonio, i parenti siciliani non le avevano rifiutato la dote. E con questo denaro, aggiunto agli scarsi guadagni di ballerina, la vedova poteva vivere alla meglio, insieme coi due gemelli. La sua carriera non aveva ancora fatto nessun progresso; ma nell'intimità, Giuditta Campese si comportava da primadonna. La casa risplendeva dei suoi orgogli, talenti, magnificenze: e nelle poche stanze del suo appartamento, regnava la certezza che lei fosse una stella.


IL BACIO

Kristoffer Nyrop
Storia del bacio

Le emozioni che seguono al primo bacio sono state descritte nell’antica storia d’amore naïve, ma straordinariamente delicata, di Dafne e Cloe.
Come premio Cloe ha dato un bacio a Dafne – un innocente bacio di ragazza, ma che ha su di lui l’effetto di una scossa elettrica:

    O dei, quali sono i miei sentimenti. Le sue labbra sono più morbide di un petalo di rosa,
    la sua bocca è dolce come il miele, e i suoi baci mi danno più dolore della puntura di un’ape.
    Ho baciato spesso i miei capretti, ho baciato spesso i miei agnelli, ma non ho mai provato nulla di  simile.
    Ho il polso impazzito, il cuore in tumulto, mi sento soffocare, nondimeno però voglio avere un altro bacio.
    Strano dolore, di cui non sospettavo l’esistenza! Ha Cloe bevuto qualche pozione velenosa, mi chiedo,
    prima di baciarmi? Come mai allora non ne è morta lei stessa?

Come spinto da una forza irresistibile, Dafne torna da Cloe; la trova addormentata, ma non osa svegliarla: “Guarda come riposano i suoi occhi e la sua bocca respira. Il profumo di fiori di melo non è delizioso quanto il suo respiro. Ma io non oso baciarla. Il suo bacio mi trafigge fino al cuore, e mi fa impazzire come se avessi mangiato del miele fresco”.
La paura di Dafne per i baci sparisce, tuttavia, più tardi, appena la sua semplicità ha lasciato spazio a una maggiore consapevolezza di sé.
Che il bacio sia come la puntura di un’ape, o che bruci come una ferita, sono metafore di cui hanno fatto uso molti poeti.


Sheril Kirshenbaum
La scienza del bacio

Nella riserva Lola ya Bonobo (il paradiso dei bonobo), ubicata nella Repubblica Democratica del Congo, viveva un maschio giovane ed esuberante di nome Bandaka. Come a molti maschietti, anche a lui piaceva importunare le ragazze, e la povera Lodja era spesso sua vittima.
Bandaka le tirava i peli, le portava via i giocattoli… nell’asilo nido della riserva si comportava come un bruto. La matriarca del gruppo non lo puniva per la sua maleducazione, e le cose andarono avanti così per parecchio tempo.
Poi, nel 2006, Bandaka e Lodja furono trasferiti nel reparto adolescenti, e qui il leader cominciò a rimettere il primo al suo posto con le cattive ogni volta che si comportava male. Dopo una punizione particolarmente dura, Bandaka fuggì nel bosco piangendo, mentre gli altri bonobo lo tenevano a distanza, ma proprio allora si avvicinò la più improbabile delle amiche, e Vanessa Woods vide la piccola Lodja abbracciare il suo vecchio nemico e confortarlo con un bacio affettuoso. I due passarono il resto della giornata insieme, con Bandaka che spulciava Lodja: finalmente erano amici.
La tenera storia di Bandaka e Lodja rappresenta un caso classico di uso del bacio, che esemplifica il modo in cui altri animali esprimono affetto per ragioni simili alle nostre (cosa non sorprendente, se si considera che umani e bonobo hanno in comune circa il 98,7% del DNA).    


Alberto Pellai
Il primo bacio

Quando qualcosa succede per la prima volta può accadere per tanti motivi.
Se poi quel qualcosa è il tuo primo bacio, allora le ragioni possono essere le più disparate.
Il tuo primo bacio potrebbe esserci perché… quando meno te lo aspetti, accade.
Oppure perché… proprio perché è il primo, e lo rimarrà per sempre, lo curi in modo particolare e cerchi di renderlo speciale.
Oppure perché… tutti ne parlano, l’hanno già avuto e già dato e tu ti senti come l’ultimo arrivato, anzi, dici a te stesso:
“Almeno fossi arrivato ultimo. Qui il rischio è che non veda mai il traguardo!”.
Se il tuo primo bacio potesse parlarti ti direbbe:

Cercami senza ostentazione,
desiderami senza consumarmi,
curami senza trasformarmi in un’ossessione.

Cosa vuol dire cercare il primo bacio senza ostentarlo? Desiderarlo senza che il desiderio si trasformi in consunzione? Curarlo, come si fa con un fiore, con un orto, con una cosa preziosa, senza però rimanere ossessionati, ovvero senza farlo diventare un pensiero fisso? […]
Per il primo bacio non c’è nulla di predefinito. Nulla di già pensato e scritto. Non c’è un come n’è un perché, non c’è un dove né un quando.
Perché i come, i perché, i dove, i quando sono tantissimi e ognuno li miscela in un evento straordinario che diventa il suo primo bacio.
Unico e irripetibile.


Adriano Bassi
Storia del bacio

Non potevano mancare i proverbi nati dalle credenze popolari. Chi non ricorda “chi due bocche bacia, l’una convien che gli puta” (non si possono amare contemporaneamente due persone)? Oppure: “bacio di bocca spesso cuor non tocca”? E ancora: “un bacio dato non è mai perduto”;
“cancellare un’offesa con un bacio”; “il perdon di ser Umido: molti baci e pochi quattrini” (si dice quando si promette molto e si mantiene poco); “baciar la mano che percuote”.
E i modi di dire? “Baciar la terra”; “baciar la polvere (cadere in terra); “baciar basso” (umiliarsi); “baciare il chiavistello” (andarsene per non tornare più); “baciare il catenaccio” (rendere omaggio); “baciar l’acqua” (termine legato alla caccia, quando il cervo che scappa cerca scampo nell’acqua).


William Cane
L’arte di baciare

Non è difficile riconoscere due persone che si amano. Magari cercano di nasconderlo agli occhi del mondo, ma non possono nascondere del tutto la loro trepidazione. Gli uomini riveleranno i loro sentimenti col tremolio eccitato del muscolo mascellare alla vista dell’amata. Le donne impallidiranno vedendo il loro amore e arrossiranno leggermente non appena lui si sarà fatto più vicino. Quando due persone legate sentimentalmente si trovano a meno di un metro l’una dall’altra emanano una vera e propria aura, una sorta di bagliore, e si comportano come fossero in una bolla, più o meno separati dal resto del mondo.
Ma il bacio romantico prevede ben più della semplice vicinanza. In aggiunta richiede un certo grado di intimità e di privacy. Questo permette agli amanti di essere davvero se stessi e di baciarsi, così come tutti coloro che amano vogliono baciarsi. Per un bacio in pubblico, dunque, è necessario defilarsi un po’, il che spiega perché si vedono gli innamorati mettersi a lato di una strada o dirigersi verso un particolare punto del marciapiede dove possono ripararsi all’ombra di un albero.


Adrianne Blue
Di bacio in bacio

Simbolicamente, il bacio di un vampiro significa la morte morale. Ruba l’anima e la pace del riposo celeste. O si muore sul colpo o ci si unisce alla folta schiera dei non morti facendo preda dei vivi, oltrepassando ogni limite di decenza. Il potere dell’immagine del vampiro sta in gran parte nel capovolgimento dei più comuni significati del bacio. Come una messa nera, il bacio del vampiro è un capovolgimento del bene. Nel clima in cui fu scritto Dracula, l’omofobia era parte integrante di questa immagine. Un tempo gli omosessuali erano chiamati “invertiti”; Radcliffe Hall utilizza questo termine nel suo romanzo degli anni venti, Il pozzo della solitudine. Come il bacio di Giuda, il
bacio di morte del vampiro è un tradimento. Stoker stesso pone sullo stesso piano Dracula e Giuda: “In silenzio siamo tornati in biblioteca, e pochi istanti dopo mi sono chiuso in camera mia. L’ultima immagine del conte è stata di lui che mi inviava un bacio sulla mano: con un rosso barbaglio di trionfo negli occhi, e con un sorriso da far invidia a Giuda giù all’inferno”.
[…] Invece di incarnare il reciproco nutrimento, l’intimità e l’amore, il bacio del vampiro è egoista e funesto. Ha qualcosa di un’alchimia inversa, che tramuta il bacio affettuoso (il quale se fosse un metallo prezioso sarebbe oro) in piombo moralmente velenoso.


Pinuccia Ferrari, Francesca Albini
Bacioterapia

BACIOTEST
1.Come descriveresti                          2.Il miglior luogo per baciarsi è:
 il bacio perfetto?
a) Romantico, a lume di candela          a) In un posto buio e appartato
b) Quello che piace a                           b) Dovunque ci piaccia baciarci
c) Appassionato                                   c) In pubblico

3.Come baci?                                       4.Primo bacio
a) A occhi chiusi                                   a) Cerchi di essere tenero/delicato
b) A occhi socchiusi                              b) Cerchi di seguire il partner
c) A occhi aperti, per vedere la            c) Ti lasci andare alla passione
    sua espressione

5. Per te il bacio è                               6. Dove metti le mani quando
a) Come il miele                                  baci?
b) Come una gazzosa con due           a) Lo/a abbraccio teneramente
    cannucce                                         b) Gli accarezzo i capelli
c) Come una torta con la panna          c) Dappertutto
  
Maggioranza di a)
Sei una persona romantica e dolce, ma forse un po’ troppo tradizionalista. Cerca di mettere un po’ più di pepe nella tua vita sentimentale o il tuo partner potrebbe stufarsi. Sperimenta con qualcuno dei baci proposti in questo libro!

Maggioranza di b)
Per te il bacio è un momento spontaneo, da vivere insieme, con naturalezza. Sei attento alle necessità del tuo partner e aperto alle novità.
Ti manca però forse un po’ di spirito di iniziativa: suggerisci qualcosa di piccante o sorprendilo con un bacio inatteso.

Maggioranza di c)
Sei un tipo decisamente passionale e anche un po’ esibizionista. Cedi all’amore e ti concedi completamente al tuo partner. Attento però che se lui è un po’ più timido di te, potrebbe tirarsi indietro. Mostra il tuo aspetto romantico: ogni tanto un po’ di atmosfera non guasta.


Cristina Obber
Primi baci

Rosa, nata nel 1927

Il primo bacio non lo posso scordare. Me l’ha dato in un modo così speciale che nessuno potrebbe dimenticarlo. Avevamo sedici anni tutti e due. I nostri campi confinavano. A quei tempi non avevamo l’acqua in casa, e tutti i giorni io andavo al pozzo a prenderla, per casa e per la bestia che avevamo nella stalla. Il pozzetto era sul suo terreno ma per legge tutti potevano andarci. C’erano tre scalini prima del pozzetto. Io ero sul secondo scalino, con due secchi sulle spalle, uno per parte, appesi al bigol. Alla mia destra c’era un reticolato e al di là c’era un albero, un cornolaro. All’improvviso me lo trovo davanti, appeso ad un ramo, mi dà un bacio e scappa. Sono rimasta ferma, a pensare a non cadere. Nei giorni successivi, quando mi avvicinavo al pozzo, facevo tintinnare i secchi, era il nostro segnale.
Siamo andati avanti col tira e molla un po’ di anni, entrambi abbiamo avuto altri fidanzati. Poi un giorno lui mi ha detto “se tu lo lasci io la lascio”, e così è stato e dopo due anni ci siamo sposati.
[…] Non mi sono goduta il fidanzamento, perché era tutto peccato. A me pareva di non fare peccato a baciarlo, ma il prete diceva di stare attenti, che anche un bacio influisce. Influisce. Io non capivo su che cosa. Non l’ho mai capito.


Julie Enfield
Baciami, stupido

A dispetto della pluralità del mondo, malgrado le barriere linguistiche e le differenze religiose, nella maggior parte delle culture ci si bacia, in una forma o nell’altra. In alcune culture ci si bacia, in una forma o nell’altra. In alcune culture ci si bacia cn modestia, in altre con passione, in alcune con violenza, succhiando o mordendo le labbra del partner. In alcune non si usano affatto le labbra. I polinesiani, Maori e Inuit, per esmpio, preferiscono strofinare i nasi. I riservatissimi indiani Cayapa dell’Ecuador occidentale semplicemente annusano le mani dei loro amici quando si salutano. Per i membri di una tribù della Nuova Guinea il “bacio” di saluto consiste in questo: una persona
mette la mano nell’ascella dell’altra e poi si sfrega addosso il sudore.
Anche se il bacio è un gesto umano pressoché universale, i motivi per cui ci si bacia cambiano da cultura a cultura. Per molte culture quella di baciare è un’attività piacevole e giusta, sia socialmente sia a un livello più intimo. Ci si bacia per esprimere apprezzamento e stima nei riguardi di alcuni membri del nostro gruppo sociale. Il bacio non soltanto rafforza il nostro legame con gli altri, ma è anche un canale
che conduce a sentimenti più profondi.
Ma non a tutti piacciono i baci. Alcune tribù considerano l’atto fisico del baciare come impuro. Per esempio i Thonga del Sudafrica non si baciano affatto o almeno non sulla bocca. La sola vista di due persone che si baciano è sufficiente per suscitare in loro disgusto. La tribù dei Chewa, nel Sudafrica, all’inizio, vedendo gli europei che si baciavano, trovavano ripugnante il pensiero di “inghiottire reciprocamente la saliva sporca”.

 

IL PIANETA TERRA

Eraldo Baldini
Melma

Verso l’imbrunire tornai al settore Giallo. Sul portellone del mio container c’era un cartoncino fissato alla lamiera con un pezzo di nastro adesivo : Domattina alle 10 al Verde. Niente firma. Mi rintanai all’interno della scatola di latta, la mente piena di pensieri confusi e contraddittori.
Come contraddittoria, per me, era la storia del Petrolchimico. Per la sua posizione strategica, la Laguna era stata scelta all’inizio del Novecento per ospitare il traffico marittimo di petrolio e carbone. Accanto al porto erano sorte industrie metallurgiche, impianti per la produzione di ammoniaca sintetica per concimi azotati, stabilimenti alimentari e una centrale termoelettrica.
Prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale nell’area erano presenti circa un centinaio di industrie e 15 mila lavoratori. Nel dopoguerra, oltre a ricostruire gli impianti distrutti, si provvide ad allargare la zona attorno al porto. Questa seconda zona, chiamata “ Penisola della Chimica” venne costruita su aree sottratte alla laguna mediante l’impiego di ingenti quantità di scarti e rifiuti della lavorazione industriale.


Herbert Frank
Dune

La parete era stata squarciata per quaranta metri, e le porte si aprivano sulla sabbia sconvolta dalla tempesta.
Da una distanza infinita una nuvola di polvere incombeva sul mondo. Campi di elettricità statica crepitavano tra le nubi e i lampi degli scudi cortocircuitati s’innalzavano da ogni parte. La pianura brulicava di figure che si battevano : Sardaukar e uomini avvolti nei mantelli che continuavano a balzar fuori dal cuore turbinante della tempesta.
Tutto questo faceva da cornice a quello che l’Imperatore indicava con la mano. Dalla nuvola di sabbia uscì una schiera compatta di forme risplendenti, curve gigantesche s’innalzarono su zanne di cristallo che divennero bocche spalancate dei vermi delle sabbie : una massiccia parete di vermi, ognuno con un plotone di Fremen che lo spronava all’attacco. Piombarono su di loro fischiando, stridendo, schiacciando la mischia furiosa sulla pianura, in uno sventolio di mantelli neri nella tempesta. Puntavano direttamente sulla tendopoli dell’Imperatore e i Sardaukar della Casa Reale, per la prima volta nella loro storia, fissarono pietrificati un massacro che le loro menti avevano difficoltà ad accettare.


Mauro Corona
Nel legno e nella pietra

La natura, le montagne sono state la medicina, l’appiglio per non cadere. Ma, si può dire, di tutta la famiglia perché anche mio padre e mio nonno andavano a guarirsi sulle cime. Dalle montagne ho avuto protezione e affetto.
La scalata estrema è venuta dopo, ma non c’entra nulla, o molto poco, con l’amore per la montagna, con ciò che mi ha dato e continua a darmi. Per me è la madre sulla quale giocano, si nascondono, cercano calore i suoi figli.
Ogni tanto la mamma si stiracchia, respira, sbadiglia, qualche bambino rotola giù. Qualche altro soffoca sotto la sua mole come un pulcino sotto la chioccia.
Ma non è colpa di nessuno. Mi escono battute sarcastiche quando sento definire la montagna assassina.
La montagna non è assassina, se ne sta lì e basta.
Noi siamo i killer di noi stessi, che non sappiamo vivere, che usiamo il profumo per l’uomo che non deve chiedere mai, che abbiamo dimenticato la carità, la riconoscenza, il rispetto, che distruggiamo la natura.


John Banville
La notte di Keplero

L’essenza della mia posizione è presto detta : che gli astri abbiano una qualche influenza sulla gente, lo si vede abbastanza con chiarezza, ma quale sia specificamente questa influenza rimane un mistero.
Io credo che gli aspetti, cioè le configurazioni che i pianeti assumono l’uno rispetto all’altro abbiano un significato speciale nella vita degli uomini. Comunque sono convinto che parlare di aspetti buoni o cattivi non abbia senso.
Fra gli astri non c’è buono o cattivo, qui solo le categorie del ritmo, del bello, del forte, del debole, del casuale sono valide. Le stelle non impongono alcunché, non annientano il libero arbitrio, non decidono del particolare destino di un individuo; esse però imprimono nell’anima un particolare carattere. La persona, al primo accendersi di vita, riceve un carattere e un modello di tutte le costellazioni del cielo, o della forma dei raggi che inondano la Terra, che conserverà fino alla tomba.
Di questo carattere rimane traccia nella forma.


Alessandro Banda
La città dove le donne dicono di no

Se esistesse la città di Meridiano, scriverei che sono nato, io, a Meridiano, e che vivo ininterrottamente, io, a Meridiano, da quando sono nato, e non me ne sono allontanato mai, mai, anche quando me ne sono allontanato. Se esistesse realmente, questa piccola città, questa città minuscola, questa città minima, le guide scriverebbero che è sita, Meridiano, in una conca fortunata che unisce la selvaggia bellezza dell’alta montagna con la mitezza del clima mediterraneo […]
Se esistesse realmente, Meridiano, sarebbe un luogo archetipico, un luogo mentale, o dell’anima – di ciò che chiamiamo anima. Qui a Meridiano, in riva alle magre e chiare acque del Martirio, all’ombra di un grande platano pare che Socrate e Fedro discorressero di un certo discorso di Lisia, un discorso sull’amore, discorrendo placidamente sotto il platano o acero.
Pare che i due poi, dopo aver fatto a pezzi, pacatamente il discorso, parlassero anche di altre cose…
Meridiano non esiste.


Wu Ming 2
Guerra agli umani

Rizzi non era il solo ad apprezzare i colori dell’alba che accendevano la valle. Dal Monte Ceraso, con prospettiva diversa, Cinghiale Bianco amava seguire lo stesso spettacolo. Quel primo sabato di ottobre, lui, Erimanto e Zanne d’oro, cercavano nella prima luce una specie di benedizione. Le cime dell’altro versante assorbivano raggi assonnati e l’ombra scivolava lenta sul bosco come la sottoveste di una spogliarellista. Quando il sole li colpì sulla nuca, i tre si voltarono per sentirlo sbattere sulle palpebre chiuse. Capirono allora di essere pronti.
Quel primo sabato di ottobre il cane di Rizzi sembrava confuso. Annusava il bosco, le orecchie che sfioravano terra e la coda dritta, senza risolversi a seguire una direzione. Andava, tornava, girava in tondo, faceva un breve scatto a destra, uno a sinistra, tutto con strana incertezza.


Sandrone Dazieri
Bestie

Max mi fissava con gli occhi spenti porgendomi il caffè sul bancone del bar. Era il primo giorno di primavera, faceva freddo e pioveva. L’albergo Capriolo sembrava ancora più vecchio e triste nella sua solitudine da Provinciale della Val Brembana. Il punto esatto sulla carta era tra Isola di Fonda e Trabuchello, a settecento metri di altitudine e a quarantacinque chilometri da Bergamo. I turisti di passaggio erano una miseria, nonostante la vista del Monte Torcola e, con il bel tempo, dalla cima di Pietra Quadra. Si riempiva solo a Natale, quando le stazioni sciistiche intorno a Foppolo erano al completo. Per il resto dell’anno dovevamo accontentarci delle coppiette clandestine e di qualche comitiva di tedeschi finita fuori strada. Oltre ai camionisti della San Pellegrino, che si fermavano a pranzo attratti dal menù casalingo a prezzo fisso.


Abasse Ndione
Ramata

Quella stessa notte, gli anziani si recarono nella foresta di Bahadiah per consultare Ndogal, il genio protettore del villaggio. Ndogal raccomandò di fare un sacrificio: prima dell’alba doveva essere immolata una ragazzina di dieci anni, e con il suo cadavere sarebbe stato confezionato un gri-gri. Il villaggio avrebbe riportato una vittoria schiacciante. Nessun abitante avrebbe perso la vita, non solo nella battaglia con il damel di Cayor ma ovunque e in qualsiasi altra battaglia a cui il villaggio avrebbe partecipato in futuro; fino alla notte dei tempi mai nessun re, per quanto potente potesse essere avrebbe avuto alcuna autorità su Bargny. Tra un villaggio distrutto, gli uomini massacrati, le donne e i bambini ridotti in schiavitù e il sacrificio di una ragazzina, la scelta fu semplice.
Tre degli anziani avevano figlie di dieci anni e tutti si offrirono volontari per sacrificare la propria.
Si procedette ad un’estrazione a sorte e l’orribile sacrificio venne compiuto.


Yasunari Kawabata
Il paese delle nevi

La Via Lattea. Bella, vero – Komako mormorò.
Ella guardava il cielo mentre correva davanti a lui.
La Via Lattea. Anche Shimamura guardò su ed ebbe la sensazione di galleggiare su di essa. Il suo fulgore era così vicino che pareva sollevarlo fino a sé. Era questa la vastità luminosa che il poeta Basho vide quando scrisse della Via Lattea che copriva come un arco il mare in tempesta?
La Via Lattea scendeva proprio fin laggiù e avvolgeva la buia terra col suo nudo abbraccio. C’era una terribile voluttà in tutto questo. Shimamura immaginò che la sua piccola ombra venisse proiettata lassù dalla terra.
Ogni stella si staccava nettamente dalle altre, e si distinguevano perfino le particelle di polvere d’argento delle nebulose, tanto chiara era la notte.
La profondità senza limiti della Via Lattea incatenava il suo sguardo.

 

IL ROMANZO NELL'OTTOCENTO

Charlotte Bronte
Il professore (1857)

C’è un colmo per ogni cosa, per ogni disposizione d’animo, così come per ogni condizione di vita.
Rimuginavo su questa verità mentre nell’alba gelida di un mattino di gennaio, mi affrettavo per la rapida strada ghiacciata che scendeva dalla casa della signora King al Close. Gli operai della fabbrica mi avevano preceduto di circa un’ora e lo stabilimento era tutto illuminato ed in piena attività quando lo raggiunsi. Mi rifugiai al mio posto nell’ufficio amministrativo, come al solito; il fuoco appena acceso, per ora faceva solo fumo, Steighton non era ancora arrivato.
Chiusi la porta e sedetti alla scrivania.
Le mie mani, lavate da poco in acqua quasi gelata, erano ancora intirizzite, non potevo scrivere finchè non avessero ripreso vitalità, così continuai a pensare e l’argomento dei miei pensieri era sempre lo stesso.


Lev Nicolaevic Tolstoj
Anna Karenina (1876)

Non si può proibire ad un uomo di farsi una bambola di cera e di carezzarla e baciarla; ma se lo facesse davanti ad un uomo innamorato che carezza e bacia la sua amante, costui ne proverebbe disgusto. Lo stesso accadeva a Mikhailov davanti alla pittura di Vronsky: ne rideva, ne provava dispetto, pietà e se ne sentiva offeso. La passione di Vronsky per la pittura e per il Medioevo non durò a lungo.
Aveva abbastanza gusto per capire che non riusciva a dipingere come avrebbe voluto e lasciò a metà il quadro. Sentiva confusamente che i difetti, poco percettibili al principio, sarebbero andati aumentando via via. Gli accadeva come a Galenicev, che sentiva il vuoto della sua mente ma tuttavia si nutriva di illusioni, credendo di accumulare materiale per un lavoro di là a venire. Ma Galenicev s’irritava e soffriva, mentre Vronsky rimaneva calmo.Solamente abbandonò la pittura.


Herman Melville
Bartleby scrivano(1853)

Non c’è nulla che tanto irriti una persona seria come la resistenza passiva. Se l’individuo cui si resiste non è di natura del tutto disumana, e chi gli resiste è un individuo assolutamente innocuo nella sua passività, allora il primo, nei suoi momenti migliori, cercherà caritatevolmente di giustificare e interpretare con la sua immaginazione ciò che la sua ragione, fino a quel momento, è stata assolutamente incapace di spiegare.
Ed è appunto così che, di solito, io consideravo Bartleby e i suoi strani modi.
“Povero diavolo!”- pensavo- non è che voglia far del male; è evidente che non ha la minima intenzione di mostrarsi insolente; l’aria che ha basta a mostrare, in modo sufficiente, che le sue eccentricità sono del tutto involontarie.
Poi mi è utile. Io riesco a sopportarlo.
Se lo licenzio le probabilità sono che capiti da un principale meno indulgente di me, che lo tratterà male e forse l’infelice finirà col morir di fame.


Charles Dickens
David Copperfield (1849)

Queste pagine vi diranno se sarò io l’eroe della mia vita o se un altro sarà elevato a questo rango. Per cominciare dal principio ricorderò che nacqui di venerdì, a mezzanotte ( così almeno mi dissero e così quindi credo). Si notò che l’orologio cominciò a suonare e io a vagire : simultaneamente.
In considerazione del giorno e dell’ora della mia nascita, sia la levatrice che alcune sagge donne del vicinato le quali cominciarono ad interessarsi a me parecchi mesi prima che ci fosse alcuna possibilità di una conoscenza personale, dichiararono: - primo- che ero destinato ad essere sfortunato nella vita, e -secondo- che avrei avuto il privilegio di vedere fantasmi e spiriti, essendo esse convinte che tutti i poveri fanciulli di ambo i sessi che nascevano verso le ore piccole di una notte di Venerdì, godessero del beneficio di questi doni.


Gustave Flaubert
L’educazione sentimentale (1845)

La contemplazione di quella donna lo snervava, come annusare un profumo troppo forte. E una condizione siffatta era calata persino nel profondo della sua natura, diventava, quasi, una sensibilità nuova e diversa, un nuovo modo d’esistere. Le prostitute nelle quali s’imbatteva sotto i lampioni, le cantanti che gonfiavano la gola nei gorgheggi, le cavallerizze che passavano al galoppo, le borghesi a passeggio, le sartine affacciate alla finestra, tutte gli ricordavano lei, per una somiglianza o per qualche contrasto violento. Sfiorando le vetrine dei negozi, contemplava gli scialli di cachemire, i merletti, i monili, immaginandoli drappeggiati intorno alle sue spalle, cuciti al suo corsetto, fonte di bagliori nel nero dei suoi capelli. Nelle ceste dei mercanti i fiori aprivano i loro petali perché lei li scegliesse al suo passaggio…


Edgar Allan Poe
Gordon Pym (1838)

Improvvisamente mi balenò in mente il pensiero che quel foglietto di carta poteva essere una comunicazione di Augustus, il quale, per qualche imprevedibile caso, non essendo in grado di farmi uscire dalla prigione, era ricorso a quel metodo per mettermi al corrente della situazione. Tremante di ansietà, mi misi nuovamente alla ricerca dei miei fiammiferi di fosforo e delle candele.
Ricordavo, molto vagamente, di averli messi da parte con molta cura, proprio prima di addormentarmi e infatti, all’atto di iniziare il mio ultimo viaggio verso la botola, ero perfettamente in grado di ricordare il punto esatto dove li avevo depositati. Ma adesso inutilmente sollecitavo la memoria e trascorsi, pertanto un’ora intera in un utile ed esasperante ricerca. Raramente credo di aver passato momenti così ansiosi ed esasperanti.


Zola Emile
Il ventre di Parigi (1838)

La fame si era risvegliata, intollerabile, atroce.
Le membra s’erano addormentate : sentiva ormai solo lo stomaco torto, come attanagliato da un ferro rovente. Il fresco odore degli ortaggi, il penetrante profumo delle carote, lo turbava fino a farlo svenire. Premeva con forza il petto contro quel letto di verdura per comprimersi lo stomaco, per impedirgli di farsi sentire. Alle sue spalle, gli altri nove birocci, con le loro montagne di cavoli e di piselli, i mucchi di carciofi, d’insalata, di sedani e di porri, sembrava che rotolassero lentamente su di lui per seppellirlo nell’agonia della fame sotto una frana di cibi.
Vi fu una fermata, un rumore di voci robuste.
Erano al dazio, i doganieri sondavano i carri.
Poi Florent entrò finalmente a Parigi, privo di sensi, i denti serrati, steso sulle carote.


Fedor Dostoevskij
Il giocatore (1866)

Cosa strana: avevo di che meditare e invece mi sprofondai nell’analisi dei miei sentimenti per Polina. In verità, in quelle due settimane di assenza mi ero sentito meglio di adesso, giorno del mio ritorno, sebbene durante il viaggio avessi sofferto di una tremenda nostalgia di lei, mi fossi agitato come un ossesso e persino in sogno l’avessi continuamente davanti a me. Una volta( accadde in Svizzera) addormentandomi in treno, mi ero messo a parlare ad alta voce con Polina, facendo ridere tutti i miei compagni di viaggio. E ancora una volta, adesso, mi chiesi se l’amavo. E ancora una volta non seppi rispondere ossia, per meglio dire, per la centesima volta risposi a me stesso che l’odiavo. Sì, ella mi era odiosa. C’erano dei momenti ( e precisamente ogni qualvolta concludevamo i nostri colloqui) che avrei dato metà della mia vita per strozzarla. Giuro che se fosse stato possibile affondar lentamente nel suo petto un acuminato coltello, credo che l’avrei afferrato con gioia.


Edwin Abbott Abbott
Flatlandia (1881)

Chiamo il nostro mondo Flatlandia, non perché sia così che lo chiamiamo noi, ma per renderne più chiara la natura a Voi, o Lettori beati, che avete la fortuna di abitare nello Spazio.
Immaginate un vasto foglio di carta su cui delle Linee Rette, dei Triangoli, dei Quadrati, dei Pentagoni, degli Esagoni e altre Figure geometriche, invece di restar ferme al lor posto, si muovano qua e là, liberamente, sulla superficie
o dentro di essa, ma senza potersi sollevare e senza potervisi immergere, come delle ombre, insomma - consistenti, però, e dai contorni luminosi. Così facendo avrete un'idea abbastanza corretta del mio paese e dei miei compatrioti. Ahimè, ancora qualche anno fa avrei detto: "del mio universo", ma ora la mia mente si è aperta a una più alta visione delle cose.

 

 

INCIPIT

Raymond Queneau
Zazie nel metrò

Macchiffastapuzza, si chiese Gabriel, arcistufo. Impossibile, mai che puliscano. Sul giornale c'è scritto che a Parigi non c'è nemmeno l'undici per cento di appartamenti col bagno, non c'è da meravigliarsi, ma ci si può lavare anche senza. Tutti questi che mi stan d'attorno, però, devo dire che mica fanno di gran sforzi.
D'altra parte, perché dovrebb'essere una selezione fra i più lerci di Parigi? Non c'è motivo. È il caso. È assurdo supporre che la gente che sta aspettando alla Gare d'Austerlitz puzzi più di quella che aspetta alla Gare de Lyon. No, via, non ci sarebbe proprio motivo. Però, dico: ma che odore.

Doukipudonktan, se demanda Gabriel excédé. Pas possible, ils se nettoient jamais. Dans le journal, on dit qu'il y a pas onze pour cent des appartements à Paris qui ont des salles de bains, ça m'étonne pas, mais on peut se laver sans. Tous ceux-la qu m'entourent, ils doivent pas faire de grands efforts. D'une autre côté, s'est tout de même pas un choix parmi les plus crasseux de Paris. Y a pas de raison. C'est le hasard qui les a réunis. On peut pas supposer que les gens qu'attendent à la gare d'Austerliz sentent plus mauvais que ceux qu'attendent à la gare de Lyon. Non vraiment, y a pas de raison. Tout de même quelle odeur.


Edwin Abbott
Flatlandia

Chiamo il nostro mondo Flatlandia, non perché sia così che lo chiamiamo noi, ma per renderne più chiara la natura a Voi, o Lettori beati, che avete la fortuna di abitare nello Spazio.
Immaginate un vasto foglio di carta su cui delle Linee Rette, dei Triangoli, dei Quadrati, dei Pentagoni, degli Esagoni e altre Figure geometriche, invece di restar ferme al lor posto, si muovano qua e là, liberamente, sulla superficie o dentro di essa, ma senza potersi sollevare e senza potervisi immergere, come delle ombre, insomma - consistenti, però, e dai contorni luminosi. Così facendo avrete un'idea abbastanza corretta del mio paese e dei miei compatrioti. Ahimè, ancora qualche anno fa avrei detto: "del mio universo", ma ora la mia mente si è aperta a una più alta visione delle cose.

I call our world Flatland, not because we call it so, but to make its nature clearer to you, my happy readers, who are privileged to live in Space.
Imagine a vast sheet of paper on which straight Lines, Triangles, Squares, Pentagons, Hexagons, and other figures, instead of remaining fixed in their places, move freely about, on or in the surface, but without the power of rising above or sinking below it, very much like shadows - only hard and with luminous edges - and you will then have a pretty correct notion of my country and countrymen. Alas, a few years ago, I should have said "my universe": but now my mind has been opened to higher views of things.


Frank McCourt
Che Paese l’America

Adesso ti è uscito il sogno.
Così diceva mia madre a noi bambini quando abitavamo in Irlanda e un nostro sogno si realizzava.
Il sogno che facevo io in continuazione era quello in cui arrivavo con la nave nel porto di New York e guardavo ammirato i grattacieli. Quando lo raccontavo, i miei fratelli mi invidiavano la notte passata in America, finché un giorno non cominciarono a raccontare anche loro di aver fatto quel sogno, sapendo che era un sistema sicuro per mettersi in mostra anche se poi litigavamo e io dicevo che il più grande ero io, che il sogno era mio e guai a loro se ci entravano.

That's your dream out now. That's what my mother would say when we were children in Ireland and a dream we had came true. The one I had over and over was where I sailed into New York Harbor awed by the skyscrapers before me. I'd tell my brothers and they'd envy me for having spent a night in America till they began to claim they'd had that dream, too. They knew it was a sure way to get attention even though I'd argue with them, tell them I was the oldest, that it was my dream and they'd better stay out of it or there would be trouble.


Bohumil Hrabal
Una solitudine troppo rumorosa

Da trentacinque anni lavoro alla carta vecchia ed è la mia love story.
Da trentacinque anni presso carta vecchia e libri, da trentacinque anni mi imbratto con i caratteri, sicché assomiglio alle enciclopedie, delle quali in quegli anni avrò pressato sicuramente trenta quintali, sono una brocca piena di acqua viva e morta, basta inclinarsi un poco e da me scorrono pensieri tutti belli, contro la mia volontà sono istruito e così in realtà neppure so quali pensieri sono miei e provengono da me e quali li ho letti, e così in questi trentacinque anni mi sono connesso con me stesso e col mondo intorno a me, perché io quando leggo in realtà non leggo, io infilo una bella frase nel beccuccio e la succhio come una caramella, come se sorseggiarsi a lungo un bicchierino di liquore, finché quel pensiero in me si scioglie come alcool, si infiltra dentro di me così a lungo che mi sta non soltanto nel cuore e nel cervello, ma mi cola per le vene fino alle radicine dei capillari.


Erri De Luca
Tu, mio

Il pesce è pesce quando sta nella barca.
È sbagliato gridare che l'hai preso quando ha solo abboccato e senti il suo peso ballare nella mano che regge la lenza.
Il pesce è pesce solo quando è a bordo.
Devi tirarlo all'aria dal fondo con presa dolce e regolare, svelta e senza strappi. Altrimenti lo perdi.
Non ti agitare quando lo senti sfuriare là sotto, che sembra chissà quanto grosso dalla forza che mette a sviscerarsi l'amo e l'esca dal corpo.
Nicola mi ha insegnato a pescare. La barca non era sua, era di zio, il mio. Nicola l'usava durante l'anno, poi iniziava la buona stagione e allora faceva da marinaio a zio le domeniche, le ferie d'estate.
Di notte pescava totani, specie di calamari, con le lampare per farne esca al morso dell'amo.


Amos Oz
Fima

Cinque notti prima della disgrazia, Fima fece un sogno che, alle cinque e mezzo del mattino, registrò sul suo taccuino scuro che stava sempre riposto sotto la pila di giornali e logore riviste, per terra, ai piedi del letto. Fima aveva preso l'abitudine di mettere per iscritto quel che vedeva di notte, quando era ancora coricato, mentre il primo chiarore del mattino filtrava fra gli spiragli delle persiane.
Se poi non aveva visto nulla, o aveva dimenticato quel che aveva visto, anche in questo caso accendeva la luce, strizzava un po’ gli occhi, si metteva seduto e , usando una spessa rivista come piano d’appoggio sulle ginocchia alzate, scriveva, per esempio : “ Venti dicembre – notte vuota” oppure :“ Quattro gennaio – qualcosa con una volpe e una scala, ma i particolari se ne sono andati”


Nicoletta Vallorani
Eva

Nella lingua dei segni, cuore è un pugno chiuso.
Lo raccolgo dall’asfalto, questo cuore, pulito perché la pioggia ha lavato via il sangue. Senza sangue, il cuore è una cosa, un oggetto anatomico. Fuori dal corpo cui appartiene non è più un pezzo di vita, ma un mucchietto di carne scivolosa sul lattice dei guanti. Lo sollevo verso la luce della torcia e guardo meglio, cercando di provare qualcosa, di sentire una voce.
Ma non c’è niente. Le cose non parlano.
Oppure a guardarle bene, forse sì.
Come sempre il cuore è il centro del disegno.
Gli altri pezzi sono in ordine, sistemati con cura, a raggiera. Prima gli organi interni, poi il resto, nella fascia esterna del cerchio. Un sistema organizzato intorno al cuore, come dovremmo essere noi da vivi.
Il disegno è perfetto: distanze precise tra un pezzo e l’altro, simmetrie geometriche in ogni direzione.
Un’operazione chirurgica.


Marcela Serrano
Il tempo di Blanca

Mia nonna mi insegnò a leggere
Mia nonna mi mostrò i libri e mi trasmise il suo amore per loro. Non ebbi scelta, fu la sua eredità.
Mia nonna mi disse che con i libri non mi sarei mai sentita sola. Mi insegnò ad avere cura dei miei occhi fino a farmi sentire padrona del luogo più prezioso, più limpido. Mi spiegò che se mai mi fosse venuto meno l’udito, non sarebbe stata una grave perdita, tutto quello che valeva la pena ascoltare era già stato scritto e l’avrei potuto riscattare con gli occhi.
Mi disse che se mi fosse mancata la voce, non sarebbe stata la fine del mondo. Avrei registrato i suoni dall’esterno senza restituirli a nessuno, tranne me, ne avrebbe sentito la mancanza.
Le parole esistevano per essere plasmate : dalle mie orecchie quelle che erano già state concepite, dalle mie mani tutte quelle che potevo inventare.
Poi, tralasciando eventuali carenze all’olfatto o al gusto, mia nonna mi disse che se mai fossi stata colpita dalla sordità o dal mutismo non mi sarei dovuta preoccupare perché l’unica, totale mutilazione era la cecità.
Dovevo prendermi cura dei miei occhi.
Solo con quelli avrei potuto leggere.
Solo quelli mi avrebbero salvato dalla solitudine.

 

INNO ALLA NATURA

Pia Pera
L’orto di un perdigiorno

Resta poco ormai di gennaio. E’ una giornata di quelle sospese ma non immobili. Mi prende l’impazienza. Sento che tutto si muove: sottoterra, dietro la corteccia degli alberi, nei fusti delle piantine, nel chiuso delle gemme. L’inverno è solo un nome, il freddo una maschera. Il lavorio della stagione di luce è già cominciato da tempo: il primo giorno d’inverno, quando la crescita della notte si è scontrata contro il limite del solstizio, ne è rimbalzata scambiandosi in crescita del giorno.
Mi aggiro per i campi con fare di segugio, pronta a spiare indizi del risveglio. Ci sono i capolini delle giunchiglie: ai piedi del fico e del vecchio pero hanno formato zolle irte di foglie verde chiaro ancora rapprese, fra le foglie i petali del fiore stanno rappresi nel boccio come una crisalide nella guaina sottile simile a carta velina. Ho tagliato l’erba giusto in tempo per non perdermi quel primo spuntare. In un’aiuola pulita di fresco dalle erbacce, ai piedi della Choysia ternata,
sono già fioriti i narcisi tazzetta: mandano una fragranza ancora timida, come temessero di arrivare in anticipo. All’ombra del grande leccio fanno capolino, fra foglie cuoriformi ma pelose nella pagina inferiore, le infiorescenze dell’elitropio d’inverno (Petasites fragrans) all’aroma di vaniglia fonte di nettare per le prime api. Mi inginocchio sulla terra luccicante di foglie marce, l’annuso.


Emily Dickinson
Buongiorno notte

Pochissimo ha da fare l'erba
un mondo solo verde
covare le farfalle,
soltanto, e intrattenere le api

e tutto il giorno muoversi
al suono della brezza
tenere in braccio il sole,
prostrarsi ad ogni cosa

e perle di rugiada poi infilare,
la notte, e farsi tanto bella
che indegna di uno sguardo
sarebbe una duchessa

e pure morta avere
l'odore celestiale
di spezia addormentata
o di languente nardo

e infine riposare in bei fienili
e in sogno trasformare il tempo.
Appena questo deve fare l'erba.
Perché non sono fieno?


Edward O. Wilson
Anthill

Raphael Semmens Cody, come dissi ai suoi genitori un giorno d'estate, era un vero e proprio cittadino del lago Nokobee, ammesso che un membro della razza umana si potesse definire così. Arrivò a conoscerlo meglio del suo stesso quartiere e del suo territorio nel raggio di dieci chilometri, meglio delle aule e dei cortili della scuola. Amava quella regione come se gli appartenesse, e nei recessi più solitari della sua mente riflessiva c'era la consapevolezza di poter rimediare alle delusioni della vita quotidiana rifugiandosi nell'ambiente selvaggio del Nokobee.
Crescendo, per Raff fu inevitabile diventare un esploratore naturalista e uno scienziato. Imparò quando fiorivano le azalee, quali fossero i fiori preferiti delle cavolaie, delle fritillarie del Golfo e di altre farfalle, quali salamandre popolavano le pozze d'acqua stagnante, e quando. Conosceva le abitudini delle strane creature nascoste nelle tane profonde delle tartarughe.
Era al corrente dei segreti dei musi di porco, serpenti di aspetto molto simile alle vipere velenose, ma in realtà innocui come rami morti. Scoprì che anche gli scinchi coda rossa e le altre lucertole erano innocui. Non si riusciva mai a toccarli, però, perchè scappavano veloci come il vento a rintanarsi tra le foglie cadute. In alto, nella chioma sottile dei pini foglia lunga i picchi della coccarda banchettavano con le formiche che vi si annidavano a milioni. I branchi di pesciolini nelle secche del lago avevano un nome e un posto nella catena alimentare, due anelli al di sotto dei cinque alligatori che pattugliavano le sponde.


Per Petterson
Fuori a rubar cavalli

Abbandoniamo la strada per seguire in discesa il sentiero lungo il fiume che faccio di solito, ma non sento scorrere l'acqua, il vento fischia e stormisce fra gli alberi e i cespugli intorno a me, accendo la torcia per non inciampare e finire dritto nel fiume perché non riesco a sentire dov'è.
Arrivato al lago, seguo il margine del canneto fino alla panchina di legno che ho costruito e trascinato fin qui per avere un posto dove sedermi a guardare la vita alla foce del fiume, a vedere se ci sono pesci in superficie e osservare le anatre ed i cigni che fanno il nido qui nell'insenatura. Naturalmente non lo fanno in questo periodo dell'anno, ma la mattina sono ancora qui con i piccoli che hanno avuto in primavera, cuccioli grandi come i genitori ormai, ma ancora grigi, ed è strano a
vedersi, sono come due specie diverse che nuotano in fila, identici nei movimenti e convinti di essere uguali, mentre tutti gli altri vedono che non è così. Oppure mi siedo qui anche solo per lasciare che i pensieri vaghino in libertà, mentre Lyra sbriga le sue consuete incombenze secondo uno schema fisso.


Roger Deakin
Nel cuore della foresta

La maggior parte degli alberi di quercia, agrifoglio e nocciolo mostrava i segni della cimatura e della potatura che l'autunno, al tempo delle lavorazioni e della raccolta, avrebbero assicurato un abbondante approvvigionamento di legno ceduo, nocciole e forse agrifoglio da usare come foraggio. Mi sono inoltrato nel folto delle querce, contemplando gli spiazzi aperti pieni di erba roberta, garofanaia, del blu intenso della bugola e della polvere gialla del polline della mercorella canina. La foschia e la fitta rugiada avevano fatto uscire decine di lumache, che cavalcavano gli steli, aitanti nella loro armatura come piccoli cavalieri in missione. A mano a mano che il pietroso sentiero si arrampicava in cima alla collina, il bosco si arricchiva di agrifoglio, frassino e vecchi faggi muscosi. Un faggio gigante sembrava collassato sotto il peso dei propri rami in una radura in mezzo a una comunità di larici. Il tronco si era scorticato e diviso sotto la pressione di una massa di funghi mezzi marci e impregnati d'acqua che, troppo pesanti sul cappello, si erano piegati sui gambi. A mano a mano che il sole si alzava, i suoi raggi fendevano la nebbia inclinandosi attraverso le betulle fino al tappeto di campanelle. I caprioli scendevano saltellando da un sentiero, nei pressi del quale una quercia era cresciuta a forma di spirale, mentre un'altra, innestatasi a un nocciolo, aveva creato un buffo ibrido dando origine a un unico albero con due ceppi di radici diverse.


Mary Webb
Tornata alla terra

Piccole tenue nubi si affrettavano per il vasto cielo tranquillo – sbandate, futili, imponderabili -, si laceravano a brandelli contro i denti delle montagne terminando così le loro effimere avventure senza lasciare altro della loro fuggevole esistenza che poche lacrime.
Faceva freddo nel Callow – una boscaglia di betulle argentee e di larici che copriva il sommo d’una collina rotonda. Una nebbia porporina, che le cime degli alberi cospargevano di boccioli, e un color porporino più debole impedivano la vista fra i tronchi argentei e scuri.
Nel Callow non c’era ancora che la crudezza della gioventù, e non il suo trionfo: solo l’aguzza punta del calice, la pungente estremità del bocciolo, come lance, e non la patena della foglia, il calice del fiore.
Ancora la primavera non aveva voli, non canzoni, ma procedeva come un uccellino a metà coperto di piume, che prova a saltellare per la boscaglia. La chiara messaggera che tappezzava gli spazi aperti aveva appena disteso i suoi pallidi fiori, e le foglie della mdreselva erano ancora lingue di fuoco verde.


Giancarlo Ferron
I segreti del bosco

Il segreto sta nello sfondo, nell'ambiente naturale che generalmente è silenzioso; che appare disomogeneo ma senza disturbi visivi che non siano necessari. Gli stimoli che attivano i sensi sono tenui ma percepibili per effetto del loro contrasto con il resto che, seppur multiforme, è tranquillo. Invece il nostro mondo artificiale è un caos di forme bizzarre, multicolori e disarmoniche, con un perpetuo e infernale rumore di fondo: troppi stimoli equivalgono a nessun stimolo, come segni tracciati con una penna nera sopra un foglio nero.
Se ci pensiamo, quando facciamo le cose che amiamo di più, dal punto di vista culturale e spirituale, pretendiamo che tutto il resto sia silenzio. Non ci sono rumori nei musei quando la gente ammira le opere d'arte; e neppure ai concerti di musica classica, nelle biblioteche e nelle cattedrali. Il nostro spirito gode e contempla quello che l'attenzione riesce a far emergere da uno sfondo pluridimensionale ma sereno. Non è la stessa cosa ammirare un paesaggio disturbato da rumori artificiali, come macchine che sfrecciano sull'autostrada; oppure in compagnia di suoni naturali come il vento, il silenzio, la pioggia, il canto degli uccelli, le onde del mare, i tuoni d'un temporale.


Richard Dawkins
Il più grande spettacolo della terra

Lo stesso vale per la biologia. Non è un caso che vediamo distese di verde ovunque volgiamo lo sguardo. Non è un caso che vediamo distese di verde ovunque volgiamo lo sguardo. Non è un caso che ci ritroviamo appollaiati su un ramoscello sottile in mezzo al rigoglioso, fiorente albero della vita; non è un caso che siamo circondati da milioni di altre specie che mangiano, crescono, si decompongono, nuotano, camminano, volano, scavano  cunicoli, tendono agguati, fuggono, superano in velocità o in intelligenza le altre. Senza le piante verdi che ci superano in numero nella misura di almeno dieci a uno, non vi sarebbe energia ad alimentarci. Senza la sempre più accanita corsa agli armamenti tra predatori e prede e parassiti e ospiti, senza la “guerra della natura”, la “carestia e la morte” di Darwin, non vi sarebbero sistemi nervosi capaci di vedere, e tanto meno
di apprezzare e comprendere quello che vedono. Siamo circondati da “infinite forme, bellissime e meravigliose”, e che lo siamo non è un caso, bensì la diretta conseguenza dell’evoluzione per selezione naturale non casuale, l’ unico gioco in città, il più grande spettacolo del mondo.


Edward O. Wilson
La creazione

Il nostro rapporto con la natura è fondamentale.
Le emozioni che essa evoca in noi sono ancestrali, si sono formate nella notte dei tempi durante preistoria dell’umanità e sono perciò profonde e ricche di significati simbolici. Sono emozioni che assomigliano ai ricordi e alle esperienze di un bambino: possono essere percepite, ma di rado riusciamo a esprimerle. Ci provano i poeti, ai più alti livelli dell’espressione umana. I poeti riconoscono che qualcuno di fondamentale si muove nel nostro inconscio, qualcosa che merita di essere conservato.
La natura risveglia una parte di quella spiritualità che lei o io, Reverendo, condividiamo.
É così nato un nuovo genere letterario, e con esso l’impulso a favore della conservazione della natura. George Catlin, il principale ritrattista degli indiani d’America, esprime molto bene questo impeto creativo in una nota del 1841:

    Molte sono le cose rudi e selvagge della natura destinate a cadere
    dinnanzi alla scure implacabile e alle mani devastanti del coltivatore;
    e noi troviamo spesso tra i suoi ranghi di viventi , uomini e animali,
    tratti di nobiltà  o colori bellissimi, che suscitano la nostra ammirazione.
    E anche di fronte all’inarrestabile marcia del progresso  e della civilizzazione,
    amiamo serbare nel nostro cuore la loro esistenza, e profondiamo i nostri sforzi
    per preservarli nella loro primitiva rudezza.

ISOLE

William Shakespeare
La tempesta

Calibano: Avrò pure diritto di fare il mio pasto: ché è mia da parte materna quest’isola che tu mi hai estorto. Ma quando tu, dapprima, vi arrivasti, eri allora tutto moine con me e di me facevi gran caso. E mi spremevi bacche nell’acqua da bere; col loro nome mi insegnasti a distinguere e la lampada grande e la piccola che ardono il giorno e la notte. Allora ti amavo e ti mostrai le ricchezze dell’isola, tutte: le polle d’acqua dolce e le cisterne salmastre: l’aride plaghe e le fertili. Maledizione a me per questo che feci! Che tutti i malefici di Sicorace mia madre – e rospi e scarafaggi e pipistrelli – vi piombino addosso: perché io sono ora il suddito – l’unico che hai – io che ero re di me stesso un tempo; e tu m’hai confinato in questa durissima roccia e tutto il resto dell’isola te lo sei preso tu…


Italo Calvino
Il bastimento a tre piani (sta in  Fiabe italiane)

Navigarono tre mesi, e dopo tre mesi, nella notte, videro un faro ed entrarono in un porto. Non si vedeva nulla a riva: case basse, un muoversi come di nascosto, e finalmente una voce disse: - Che carico portate? – Croste di formaggio, - rispose il vecchio marinaio. – Buono, - dissero da terra, - è quel che fa per noi. Era l’Isola dei Topi, e tutti topi erano i suoi abitanti. Dissero – Compriamo tutti il carico, ma danari per pagare non ne abbiamo. Però ogni volta che avrete bisogno di noi, non avrete che da dire: “Topi, bei topi, aiutatemi voi!” e noi arriveremo subito ad aiutarvi.
Il giovane e il marinaio buttarono la passerella e i topi vennero a scaricare velocissimi le croste di formaggio. Partiti di là, arrivarono di notte a un’altra isola. Nel porto non si vedeva nulla, peggio che in quell’altra. Non c’era né casa né albero che s’alzasse da terra. – Che carico avete? – sentirono dire, dal buio. – Briciole di pane, - disse il marinaio. – Buono! – risposero. – E’ quel che fa per noi!
Era l’isola delle Formiche, e tutte formiche erano i suoi abitanti.


Luis De Camoes
I Lusiadi

Tre amene alture, adorne di verde smalto, si levan con dolce pendio nell’isola ridente e incantevole; dal loro sommo zampillano rivi chiari e limpidi, che mantengon rigogliosa la verzura e scendon rapidi e mormoranti tra bianchi sassi.
In una vaga valle, che separa i ponticelli, le trasparenti acque si raccolgono assieme, ivi formando un bacino, bello quanto mai si possa immaginare; sovra questo pende un grazioso boschetto, che, come fosse tutt’intento a farsi bello, si specchia nel cristallo scintillante, che lo riflette fedelmente.
Alberi gremiti di pomi fragranti e magnifici si drizzano verso il cielo a mille: aranci dagli splendidi frutti fulvi come i capelli di Dafne, cedri che si curvano al suolo sotto il loro giallo carico, limoni odorosi somiglianti a seni virginei.
Piante boscherecce veston d’ombra le colline con le loro fronzute chiome: vi sono i pioppi sacri ad Ercole, i lauri diletti dal biondo iddio, i mirti di Citerea, i pini in cui Cibele mutò lo sdegnoso Attis; l’aguzzo cipresso addita nell’azzurro la sede del Paradiso.


Guido Gozzano
La più bella

Ma bella più di tutte l'Isola Non-Trovata:
quella che il Re di Spagna s'ebbe da suo cugino
il Re di Portogallo con firma sugellata
e bulla del Pontefice in gotico latino.
L'Infante fece vela pel regno favoloso,
vide le fortunate: Iunonia, Gorgo, Hera
e il Mare di Sargasso e il Mare Tenebroso
quell'isola cercando... Ma l'isola non c'era.
Invano le galee panciute a vele tonde,
le caravelle invano armarono la prora:
con pace del Pontefice l'isola si nasconde,
e Portogallo e Spagna la cercano tuttora.
L'isola esiste. Appare talora di lontano
tra Teneriffe e Palma, soffusa di mistero:
"...l'Isola Non-Trovata!" Il buon Canarïano
dal Picco alto di Teyde l'addita al forestiero.
La segnano le carte antiche dei corsari.
...Hifola da - trovarfi? ...Hifola pellegrina?...
È l'isola fatata che scivola sui mari;
talora i naviganti la vedono vicina...
Radono con le prore quella beata riva:
tra fiori mai veduti svettano palme somme,
odora la divina foresta spessa e viva,
lacrima il cardamomo, trasudano le gomme...
S'annuncia col profumo, come una cortigiana,
l'Isola Non-Trovata... Ma, se il pilota avanza,
rapida si dilegua come parvenza vana,
si tinge dell'azzurro color di lontananza...


José Saramago
Il racconto dell’isola sconosciuta

E voi, a che scopo volete una barca, si può sapere, fu quello che il re effettivamente gli domandò quando finalmente riuscì a sistemarsi, con discreta comodità, sulla sedia della donna delle pulizie, Per andare alla ricerca dell’isola sconosciuta, rispose l’uomo, Che isola sconosciuta, domandò il re con un sorriso malcelato, quasi avesse davanti a sé un matto da legare, di quelli che hanno la mania delle navigazioni, e che non è bene contrariare fin da subito, L’isola sconosciuta, ripeté l’uomo, Sciocchezze, isole sconosciute non ce ne sono più, Chi ve l’ha detto, re, che isole sconosciute non ce ne sono più, Sono tutte sulle carte, Sulle carte geografiche ci sono soltanto le isole conosciute, E qual è quest’isola sconosciuta di cui volete andare in cerca, Se ve lo potessi dire allora non sarebbe sconosciuta, Da chi ne avete sentito parlare, domandò il re, ora più serio, Da nessuno, In tal caso, perché vi ostinare ad affermare che esiste, Semplicemente perché è impossibile che non esista un’isola sconosciuta…


Francois Rabelais
Gargantua e Pantagruele

Continuando la rotta navigammo tre giorni senza nulla scoprire; al quarto scorgemmo terra e ci fu detto dal pilota che era l’Isola sonante. Udimmo un rumore che veniva da lungi, frequente e tumultuoso e ci sembrava, a sentirlo, di campane grosse, piccole e mezzane che sonassero tutte insieme come fanno a Parigi, a Tours, Gergeau, Nantes, e altrove nei giorni di grandi feste. Più ci avvicinavamo e più sentivamo rinforzare quello scampanio. Noi dubitavamo che fosse Dodona coi suoi calderoni o il portico Eptafoma ad Olimpia, o il rumore sempiterno del colosso eretto sulla sepoltura di Mammone a Tebe in Egitto, o il fracasso che si udiva intorno a un sepolcro nell’isola di Pipari, una delle Eolie; ma la corografia non lo consentiva. – Io dubito, disse Pantagruele, che qualche sciame d’api abbiano cominciato a prendere il loro volo in aria e che i vicini per richiamarle facciano quel fracasso di padelle, calderoni, bacini, cembali coribantici di Cibale, la gran madre degli dei . Ascoltiamo.


Avventure di Sindbad il marinaio (sta in Mille e una notte)

Continuammo a viaggiare per mare fino a che giungemmo a un’isola che assomigliava a un giardino del paradiso. In quell’isola il comandante del bastimento ci face fare scalo, gettò le ancore, stese la passerella e tutte le persone che erano sul bastimento sbarcarono, costruirono dei fornelli e vi accesero il fuoco. Le occupazioni degli uni differivano da quelle degli altri: chi si mise a cucinare, chi a lavare, chi a passeggiare, e io fui tra quelli che andavano a diporto per l’isola. I passeggeri si erano riuniti per mangiare, bere, spassarsi e giocare. Mentre ci trovavamo in quelle condizioni, il capitano, in piedi su un fianco della nave, si mise a gridare con quanta voce aveva: - Passeggeri benedetti, affrettatevi a salire sul bastimento! Fate presto a salire! Lasciate la vostra roba e fuggite voi! Mettete in salvo la vostra vita dalla morte! Questa sui cui vi trovate non è un’isola ma un grosso pesce che si è adagiato in mezzo al mare: la sabbia vi si è ammonticchiata e il pesce è divenuto simile a un’isola su cui da lunghissimo tempo sono cresciuti gli alberi; quando voi avete acceso il fuoco, il pesce, al sentire il calore, si è messo in moto e in questo momento sta per inabissarsi con voi nel mare e voi tutti annegherete.


Carlo Collodi
Le avventure di Pinocchio

Sul far del mattino, gli riuscí di vedere poco distante una lunga striscia di terra. Era un’isola in mezzo al mare. Allora fece di tutto per arrivare a quella spiaggia: ma inutilmente. Le onde, rincorrendosi e accavallandosi, se lo abballottavano fra di loro, come se fosse stato un fuscello o un filo di paglia. Alla fine, e per sua buona fortuna, venne un’ondata tanto prepotente e impetuosa, che lo scaraventò di peso sulla rena del lido. Il colpo fu cosí forte che, battendo in terra, gli crocchiarono tutte le costole e tutte le congiunture: ma si consolò subito col dire: — Anche per questa volta l’ho scampata bella! — Intanto a poco a poco il cielo si rasserenò; il sole apparve fuori in tutto il suo splendore, e il mare diventò tranquillissimo e buono come un olio. Allora il burattino distese i suoi panni al sole per rasciugarli, e si pose a guardare di qua e di là se per caso avesse potuto scorgere su quella immensa spianata d’acqua una piccola barchetta con un omino dentro. Ma dopo aver guardato ben bene, non vide altro dinanzi a sé che cielo, mare e qualche vela di bastimento, ma cosí lontana lontana, che pareva una mosca. — Sapessi almeno come si chiama quest’isola! — andava dicendo.


Jules Verne
L’isola misteriosa

“Il mare! Il mare tutt’intorno!” esclamarono, come se le loro labbra non avessero potuto trattenere le parole che facevano di loro degli isolani. “Quanto sarà grande quest’isola?” domandò innanzitutto Spilett. “Amici cari” rispose l’ingegnere dopo qualche rapido calcolo mentale “secondo me lo sviluppo del litorale supera le cento miglia.” Se Cyrus Smith non si ingannava, l’isola aveva quindi all’incirca la superficie di Malta o di Zante nel Mediterraneo, ma era molto più irregolare e meno frastagliata; la sua strana forma faceva pensare a un animale fantastico che si fosse addormentato sulle onde del Pacifico. Era coperta da una folta vegetazione arborea nella sua parte meridionale, e piuttosto arida e sabbiosa nella settentrionale; ma tra il vulcano e la costa orientale Cyrus ed i suoi compagni furono piuttosto stupiti di scoprire un lago che si estendeva sull’altopiano e doveva essere, come quello, ad un’altezza di circa cento metri sul livello del mare. “Sarà un lago di acqua dolce?” domandò Pencroff. “Necessariamente, poiché è alimentato dalle acque che provengono dalla montagna!” “Guardate!” esclamò Herbert “non vedete un ruscello che vi si getta e proviene dai contrafforti occidentali?” “Hai ragione” rispose Cyrus “e se c’è un ruscello che entra, dovrà esserci un emissario verso il mare; e questo lo vedremo al nostro ritorno.” L’isola era abitata? 

 

LA BIBLIOTECA E'...

 Sofia Borga

In biblioteca posso sprigionare la mia fantasia con libri grandi o piccoli quel che sia
ma soprattutto bellissimi…sogni…


Maria Perardi

La biblioteca è…
una casa, silenziosa dove tutti pensano che non succede niente, ma invece è pieno di magia…
perché leggendo si entra in un nuovo mondo.


Alberta Albanello

La biblioteca è…
un mondo fantastico dove ogni bimbo
diventa un coraggioso principe e
ogni bimba una dolcissima principessa.


Marco Moretto

La biblioteca è…
le radici di un bambino possono crescere
all’infinito.


Guido Massignani

La biblioteca è…
un posto grande che arriva fino alle nuvole
dove si legge con gli amici.


Haarpreet Kaur

La biblioteca è…
leggere, giocare con tanti giochi, usare il computer, i giornali, prendere le cassette da guardare.
E’ più bello del supermercato.


Francesca Canelli

La biblioteca è…
un edificio dove si vedono bambini, giovani, genitori, persone anziane. Tutti stanno in silenzio,
ma c’è la possibilità di conoscersi e dialogare.


Jovana Jancovic

La biblioteca è…
un posto dove ci sono dei libri che si trasformano.
Hanno le mani, le gambe, con la bocca, gli occhi
e le ali per volare lontano.


Roberto Lo Magno

La biblioteca è…
un ristorante per la mente


Filippo Trettenero

La biblioteca è…
una grande pizza di libri da assaggiare.


Tommaso Verlato

La biblioteca è…
un laboratorio della fantasia


Filippo Pellizzari

La biblioteca è…
un grande edificio pieno di sogni.


Fabio Escalini

La biblioteca è…
un edificio dove regna il silenzio e che ti aspetta sempre.


Federico Scapin

La biblioteca è…
un posto in cui ci sono libri che sbucano dappertutto,
è un posto magico in cui un libro è una grande avventura
da scoprire e non sai mai cosa ti aspetta.


Anna Zarantonello

La biblioteca è…
una cosa bellissima per leggere e per fare altre cose.


Jennifer Oduro

La biblioteca è…
un paesaggio molto bello e si studia
e si possono prendere cassette quante ne vuoi,
casino però non lo puoi fare.


Hamza Elyousi

La biblioteca è…
grande, bella, allucinante, divertente.


Alberto Filippi Farmar

La biblioteca è…
un posto bellissimo per leggere.
           

Nicola Cavion

La biblioteca è…
una cosa super bellissima per leggere.
            

Lovato Martina

La biblioteca è…
un luogo in cui ci si diverte al massimo
ma in qualche momento bisogna stare calmi.


Silvia Silvetti

La biblioteca è…
un posto al silenzio dove puoi leggere, studiare
e anche toglierti i pensieri più brutti


Marco Faccio

La biblioteca io penso che sia la cosa più bella del mondo.


Andrea Centomo

La biblioteca è…
tipo una cosa che ti accoglie con affetto
o nella biblioteca si può leggere fantastici e
l’accoglienza è fantastica.


Anna Dani

La biblioteca per me è un luogo dove si incontrano
i bambini e i genitori per leggere in pace
ed imparare tante cose


Anna Marangon

B ambini
I n
B iblioteca
L ibri
I n
O gni
T avolo
E
C nto
A vventure


Giulia Grigolato

La biblioteca è…
riconoscere negli scaffali un libro della propria taglia
 

Alex Zordan

La biblioteca è…
un cuore caldo d’amore


Pierluca Faccin

La biblioteca è…
una specie di rifugio dove ci sono migliaia di libri tipo fantascienza. Io ci vado quando voglio,
basta che ciedo a mia mamma e ci vado.

 

LA LETTURA IN TUTTI I SENSI

Fiona Neill
Il profumo del tè e dell'amore

Quando guardò dentro, si trovò faccia a faccia con la testa scuoiata di un grosso animale, forse un cervo.
I suoi occhi vitrei la fissavano da un piatto in cui si era raccolta una piccola pozza di sangue.
Ai due lati della testa vide due monconi nel punto in cui le corna erano state segate via.
Nel ripiano sottostante, in una zuppiera, un ammasso violaceo di fegati e reni.
Accanto, un vassoio con un paio di zampetti di maiale, e quelli che parevano due testicoli appena tagliati.
Erano perfettamente rotondi, rosei e lisci.
Laura indietreggiò, non tanto per il raccapriccio quanto per l'odore di carne chiusa che le investì le narici.
La fece ripensare alle ferite aperte che aveva curato lavorando per sei mesi al pronto soccorso, prima di prendere la specializzazione in neurologia.

          
Laura Mancinelli
Il ragazzo dagli occhi neri

- Signore, - disse il giovane dopo aver baciato la mano al vecchio, - il conte Robert vi manda una bella scorta di mele per l'inverno. La contessa dice che se non potete mangiarle crude, vi farà molto bene il loro brodo e la polpa fatta cuocere a lungo. Vedrete che vi faranno ringiovanire di qualche anno.
- Bravo, Edgar, vedo che hai sempre voglia di scherzare. E questo brunetto è tuo figlio Kaled, vero?
- Sì, Signore, - rispondeva l'interpellato spingendo avanti il ragazzo che cercava di nascondersi intimidito dall'aria solenne del vecchio. - Su, vieni avanti e bacia la mano al signore.
Mentre il ragazzo obbedendo al padre si chinava a baciare la mano esangue, l'altra mano gli accarezzava i lisci capelli neri che scendevano fino al collo. Un pallido sorriso rispose allo sguardo rapito di due occhi neri.


Marc Levy
La chimica segreta degli incontri

Alice si alzò e portò i piatti nel lavandino. Daldry raccolse gli avanzi della cena e le si avvicinò. Si fermò di fronte all'elaborato tavolo da lavoro a osservare i vasetti di terracotta da cui spuntavano lunghe strisce di carta, i flaconi disposti sulle mensole in gruppi ordinati.
“Quelle che vede a destra sono le assolute: si ottengono a partire da concrete o da resinoidi. In mezzo ci sono gli  accordi ai quali sto lavorando.”
“Anche lei è un'esperta di chimica come suo padre?” chiese stupito Daldry.
“Le assolute sono essenze, le concrete si ricavano dall'estrazione dei principi odorosi di alcune materie prime di  natura vegetale, come la rosa, il gelsomino o il lillà. Quanto a questo tavolo che sembra incuriosirlo tanto, si chiama organo perché la disposizione delle fiale ricorda le canne dello strumento.
Profumieri e musicisti hanno molti termini in comune: anche noi parliamo di note e di accordi.
Mio padre era farmacista, io sono un “naso”. Si dice così nell'ambiente. Il mio lavoro è creare composizioni originali, ovvero nuove fraganze.”

 
Ezio Raimondi
Le voci dei libri

Ne veniva un'educazione istintiva al rispetto del libro e della sua funzione liberatrice, democratica.
Sentivo per istinto che il rapporto con il libro annullava le differenze di classe: non c'erano più i poveri e i signori, ma uomini liberi che esploravano il possibile e, attraverso il fantastico e la sua raffigurazione, cercavano un senso più profondo del reale; nei libri c'erano gli esseri umani, con le loro verità, le loro parole profonde, le parole che toccano, che lasciano nel lago del cuore una risonanza che si prolunga nel tempo e mobilita quel tanto che c'è nella nostra fantasia.

Se torno a quel passato, scopro che lì è l'origine della mia idea di libro come creatura vivente, quasi un amico, con una storia che nella vicenda concreta degli scambi e delle letture, diventa storia aggiunta a quella sua propria.
Il libro aveva come due dimensioni: quella del suo linguaggio alto, che mi portava per mano nel paesaggio delle idee, delle ragioni grandi, delle fantasie straordinarie; e quella di un rapporto diretto con la vita quotidiana che se ne arricchiva, in qualche modo, e che a sua volta accresceva il valore e il senso del libro stesso.


Jella Lepman
La strada di Jella

Questi bambini diedero alla cerimonia d'inaugurazione il suo senso più profondo: lessero ad alta voce alcuni brani in lingua originale tratti dai loro libri preferiti. Un ragazzino americano scelse Il toro Ferdinando; una bambina svedese Il viaggio meraviglioso di Nils Holgersson; un bambino italiano Pinocchio; una ragazzina svizzera Heidi; un bimbo tedesco Emilio e i detectives – cos'altro altrimenti?- e un ragazzino francese lesse un brano da Babar l'elefantino.
Cantarono e suonarono, risero e ballarono e mezzo mondo ascoltò tutto alla radio.
Finalmente, nel pomeriggio, la casa fu lasciata in mano ai bambini. Formarono una processione, resero omaggio ai loro libri preferiti e lessero con qualche difficoltà i titoli stranieri. Negli Stati Uniti un evento come questo viene chiamato “festa d'inaugurazione” ed è proprio quello che fu.
Le mura di pietra sembravano animarsi, i libri e i disegni fatti dai bambini irradiavano una vita nascosta.
Intervennero molti spiriti buoni e parecchi di loro si muovevano furtivamente tra i bambini, ma non ce ne accorgemmo...

                  
Ian McEwan
Espiazione

Non era tenuto a dar loro spiegazioni. Intendeva sopravvivere, aveva una buona ragione per farlo e non gli importava se quelli si aggregavano o no. Nessuno dei due aveva mollato il fucile, comunque. Era già qualcosa; e poi Mace era grande e grosso, forte di spalle e con delle mani da coprirci un'ottava e mezza sul pianoforte che diceva di saper suonare. Turner, del resto, non faceva caso alle battute. In quel momento, mentre lasciavano la strada per incamminarsi
sul sentiero, avrebbe solo voluto dimenticarsi della gamba. Il sentiero si congiungeva a un viottolo tra due muri di pietra e scendeva verso una piana non visibile dalla strada. A fondovalle scorreva un torrente marrone; lo guardarono camminando sui sassi affondati su un tappeto verdissimo di crescione.
Emergendo dal basso, il viottolo piegava a ovest, mantenendosi tra i muretti antichi. Davanti a loro, il cielo incominciava a schiarire un poco e a splendere come una promessa. Intorno era tutto grigio. Mentre si avvicinavano alla cima passando attraverso un bosco di castagni, il sole calante precipitò al di sotto della coltre di nubi e dominò lo scenario, abbagliando i tre soldati che intanto ne raggiungevano la luce. Come sarebbe stato bello concludere un'escursione nella campagna francese, camminando in direzione del tramonto. Un'occupazione piena di speranza.
Uscendo dal boschetto, udirono i bombardieri, perciò tornarono al riparo e fumarono, aspettando sotto gli alberi.


Sam Savage
da Firmino

Mi fece proprio sobbalzare. Dal canto suo, fu così sorpreso che per un istante rimase lì, immobile, con la chiave puntata verso di me come una pistola. Poiché ero stato, per così dire, preso con le mani nel sacco, pensai che a quel punto non potevo fare altro che tentare di cavarmi fuori da quella situazione bluffando. Così, mi limitai a voltare la pagina e continuai a leggere. Mi aspettavo che si arrabbiasse con me perché avevo trascinato il libro fuori dallo scaffale, facendolo cadere per terra, invece la scena lo divertì moltissimo. E in effetti, quando si riprese dallo stupore, si fece una gran risata, cosa che non faceva molto spesso, lanciando un bel po' di quei sassolini contro il palato.
Dopo quella reazione, quando mi annoiavo, non esitai più a tirar fuori un libro dagli scaffali e, dopo averlo aperto sul pavimento, a leggerlo da cima a fondo, lì, davanti a lui. Non penso che Jerry abbia mai capito che leggevo sul serio.
Ritengo piuttosto che sino alla fine abbia pensato che io stessi solo fingendo.


Sophie Divry
La custode di libri

La biblioteca è l'arena in cui ogni giorno si rinnova la lotta omerica fra i libri e i lettori. In questa lotta, il bibliotecario è l'arbitro. In questa arena, svolge un ruolo cruciale. O da vigliacco si schiera dalla parte della  muraglia di libri, o con coraggio sostiene il lettore smarrito. In questa lotta, ciascuno sceglie secondo coscienza. Ma i bibliotecari non stanno per forza dalla parte degli umani, non creda. Lei non si rende conto, voi siete un gregge affidato alle nostre mani, saltellate in libertà mentre tutt'intorno ci sono lupi pronti a divorarvi, ciclopi, sirene, donne nude, ah, Dio mio, che angoscia... La barricata ha solo due parti. Io ho scelto la mia, compagno.
Io sostengo il lettore isolato, depresso, miserevole di fronte al prestigio opprimente dell'Armata dei Libri.
Lei non se n'è accorto perché sono discreta, ma io sono con lei e tutti gli altri, lo sono sempre stata. 

                             

Pietro Grossi
Pugni

Finito l'incontro riprese tutto più o meno come prima: mi alzavo, andavo a scuola, studiavo, prendevo bei voti.
Tutto però era a suo modo diverso. Tutto da un momento all'altro era vero. Forse è questo che vuol dire crescere, rendersi conto di come stanno davvero le cose. Se ci pensi è tanto affascinante quanto triste, e per quanto sai che non potresti vivere altrimenti, lo dici ugualmente con una vena di malinconia.
Prese a piacermi pure il pianoforte. Da un momento all'altro mi resi conto che ero bravo a fare pure quello, mi piacesse o meno, e mi pareva che in qualche modo anche quel sordo di Beethoven mi riprendesse vita nelle mani.
E soprattutto mi resi conto che era gran musica.
Sì, continuai anche ad allenarmi, ma pure quello era diverso. Adesso ero davvero il più forte, non c'erano più dubbi, ma ero forte come tutti i pugili, tutti gli uomini. Non di quella forza patinata e surreale del mito, ma di quella puzzolente e sudata dell'uomo.

 

LA MUSICA NELLE PAROLE

Alessandro Baricco
L’ anima di Hegel e le mucche del Wisconsin

La musica ha questo di singolare e anomalo: tramandarla e interpretarla sono un gesto unico. Un libro o un quadro li si può conservare in una biblioteca o in un museo: poi li si può anche interpretare: ma è un altro gesto, autonomo, e che non c'entra con la loro semplice conservazione. La musica no. La musica è suono ed esiste nel momento in cui la si suona: e nel momento in cui la si suona non si può fare a meno di interpretarla. Il gesto che la conserva, che la tramanda, è fatalmente «corrotto» dalle infinite variabili legate al gesto di suonarla. Ciò ha condannato il mondo della musica a un eterno complesso di colpa che è estraneo ad altre regioni dell'arte: si teme costantemente di tradire l'originale perché si sente che è un modo di smarrirlo per sempre. Come bruciare un libro, o distruggere una cattedrale. Lo sdegno del musicofilo che di fronte a un'interpretazione un po' ardita sbotta nel classico «ma questo non è Beethoven» equivale allo sgomento con cui si apprende il furto di un quadro da un museo. Ci si sente derubati. Questo timore ha inchiodato e continua a inchiodare la pratica dell'interpretazione musicale. Il dovere di tramandare censura il piacere di interpretare. All'ombra di questo sortilegio vivono e vivacchiano le pratiche più nobili e quelle più vergognose: dal rigore autentico e sofferto di alcuni grandi esecutori alla sciatta convenzionalità con cui, ad esempio, si tramanda il teatro musicale. Il timore del tradimento legittima lo studio vero del grande interprete così come la mediocrità senza scampo di infiniti altri musicisti: per tacere delle esecuzioni filologiche, che portano al parossismo l'ansia di fedeltà condannando l'ascolto a una liturgia archeologica tanto ingenua quanto penitenziale. Per uscire da questa impasse ci sarebbe un modo drastico e definitivo: avvertire una volta per tutte il pubblico della musica che l'originale non esiste. Che il vero Beethoven -ammesso che si possa parlare di un vero Beethoven- è stato smarrito per sempre.


Rita Charbonnier
La sorella di Mozart

Mi è sempre piaciuta la notte. Anche adesso che le scrivo, Armand carissimo, è notte fonda (...). Nel silenzio spalancavo la finestra, mi beavo del fruscio delle acque del Salzach, respiravo l'odore di fresco, sgranavo gli occhi nel buio... infine accendevo una candela e sedevo al cembalo, con la lenta sacralità di chi compie un rito. Non potevo suonare (avrei svegliato l'intero palazzo!) ma per comporre mi bastava ascoltare l'orecchio interno e sfiorare la tastiera, senza affondare le dita.
Le mie cognizioni di contrappunto si limitavano a quanto riuscivo ad origliare delle lezioni che mio padre dava a Wolfgang, ma questo era per me, più che un limite, uno stimolo. Arie, Canoni, Lieder... la musica vocale era la mia passione, forse perché io stessa avevo un certo talento di cantante.
La mia voce è sempre stata intonata, fin dalla più giovane età, e particolarmente grave anche nel parlato; non l'ho educata con costanza, ma se l'avessi fatto oggi sarei un mezzosoprano o un contralto; eppure l'idea di calcare le scene non mi ha mai sfiorata. Ho sempre vagheggiato il ruolo di chi, nell'ombra, inventa, e poi, nell'ombra, ascolta il risultato. Riempivo i fogli di note, stilavo i titoli nei miei migliori caratteri eleganti, soffiavo sull'inchiostro, lo tamponavo e ripiegavo alla fine ogni pagina, per riporla nella mia tasca segreta. Avevo cucito una busta chiusa da lunghi lacci che portavo legata attorno alla vita, nascosta tra le sottogonne; così la mia musica non mi abbandonava mai. Di giorno sedeva a tavola, sfaccendava, giocava assieme a me; di notte, allorché tornavo a letto, dormiva con me, riscaldata dalle coltri e dalla mia pelle, invisibile a tutti ma a me sempre presente, come un arto, come un organo, come una chioma.


Roberto Cotroneo
Chiedimi chi erano i Beatles

Ti racconto questa storia, Andrea, per farti capire come la musica sia qualcosa di più di una passione. La musica può essere una passione che ti imprigiona in un mondo da cui è quasi impossibile uscire. E non è un caso che i musicisti rimangono sempre musicisti, suonano da giovani e suonano anche quando sono vecchissimi. Suonano fino al giorno della loro morte. Il tempo della musica non è il tempo della vita: è un tempo immobile, che ti permette di muoverti come se fossi sempre nel presente. Una musica sentita da bambino scaraventa quel tuo passato in un presente, su cui la musica ha aperto come uno spazio. La musica apre porte, mostra scenari, ti permette di viaggiare, ma soprattutto è come se liberasse parti del tuo presente, in modo che i piani temporali, i tuoi vissuti e quelli di tutti gli altri si possono intrecciare in un modo nuovo e imprevedibile. Il punto vero sai qual è, Andrea? Che la musica non ti chiede completezza. Tu puoi ammirare un bellissimo palazzo, ma lo puoi fare solo quando il palazzo è interamente costruito. Puoi appassionarti a un romanzo, ma per amarlo veramente devi leggerlo tutto dall'inizio alla fine. Puoi capire tutto di un affresco, proprio perché lo abbracci interamente con lo sguardo. Ma con la musica basta a volte un passaggio di poche note. Una dissonanza, una sequenza di pochi accordi, un ritmo soltanto accennato, (…). Non ti importa nulla di ascoltare tutto il brano. Da qualche parte nel tuo cervello c'è un recettore pronto a rispondere a quel passaggio con una reazione che ogni volta è di piacere o di emozione. E ogni volta è sempre uguale. Non è così per tutto, Andrea.


Giovanni Allevi
La musica in testa

Piove a dirotto, sono sfinito ma decido di tornare là, per parlare ancora con il direttore. Qualcosa mi dice che devo affrontarlo, devo capire cosa è successo e soprattutto perché. La sua segretaria mi spiega che devo prendere appuntamento e non se ne parla prima di una settimana. Svolge perfettamente il suo lavoro. E’ più importante mantenere l'ordine che dare retta a un ragazzo spaurito. Temo davvero che verrò cacciato (…).
Il direttore è lì, dentro il suo ufficio e prima o poi dovrà uscire da quella porta... Lo attendo seduto e guardo attonito il viavai di studenti nel corridoio. Finalmente esce. Gli sorrido, mi riconosce e si complimenta:
«Bravo!». Va a fare delle fotocopie, e lo seguo.
«Mi scusi, parlare con lei è un'impresa molto difficile...»
«Certo, ma venga con me nel mio ufficio.»
«Lo sa che oggi mi ha spaventato?» oso dirgli.
«Anche lei, anche lei.»
Che strana risposta. Cosa vorrà dire? Entriamo in direzione, lui chiude la porta e riprende: «Lei oggi ha suonato qualcosa di… di… geniale! Che si trova a metà strada tra la musica classica e il jazz... è interessante, voglio farla conoscere al presidente». Esce e poco dopo rientra proprio con il presidente del conservatorio, a cui spiega tutto ciò che ho fatto, con un entusiasmo che non avrei mai sospettato. Il presidente incuriosito esclama: «Voglio ascoltarlo! Qui c'è il pianoforte».
E infatti c'è un piccolo pianoforte a coda dal suono insolitamente dolce. Attacco Piano karate (…). Entrambi, il presidente e il direttore, hanno un'aria da professionisti, nei completi con giacca e cravatta, ma vedo nei loro occhi un entusiasmo da bambini. E’ meraviglioso come la musica abbia la possibilità di salvarci dall'irrigidimento, dalle convenzioni a cui tutti andiamo incontro e farci tornare uno stupore incantato nei confronti delle cose. Me ne vado al settimo cielo, convintissimo, a questo punto, di aver superato l'audizione.


Paolo Maurensig
Canone inverso

Da lungo tempo pensavo di scrivere una storia che avesse per protagonista la musica. E’ risaputo che la musica può dare grande enfasi a un testo poetico o teatrale, rendendo a volte sublimi dei versi altrimenti banali. Ma per quanto mi riguarda è difficile che possa evocare o suggerire qualcosa di drammatico. Al contrario, essa rappresenta sempre il più sicuro rifugio dai drammi della vita. Eppure in quel momento si stava insinuando nella mia mente un pensiero molesto. La musica eleva i sentimenti e la stessa natura dell'uomo, ma le vie per arrivarci devono passare attraverso lo stridore, il fragore, la dissonanza.
Dietro la musica, eseguita con levità e perfezione, come la possiamo ascoltare nell'esecuzione raffinata di un'orchestra, o di un quartetto d'archi, c'è l'attrito dei nervi che si contraggono, il fiotto del sangue, il tumulto dei cuori. Tutt'a un tratto mi sorpresi a considerare la mia amata arte sotto un'altra luce. Immaginai l'infinità di suoni che si levano notte e giorno in tutto il mondo, e mi sovvenne lo sforzo di quella moltitudine di individui sparsi in ogni dove, i quali continuano a lottare per tenere in vita la musica, come un esercito che, decimato dal fuoco nemico, proceda al passo e rimpiazzi le perdite con forze sempre nuove, lasciando sul campo una lunga semina di morti (...).
Spesso mi sono chiesto quanto impieghi l'ultima nota di un brano musicale a spegnersi del tutto. Non solo fisicamente, come vibrazione sonora, ma come vibrazione emotiva. Chi può dirlo?


Jim Morrison
Light my fire

L'unico momento in cui mi esprimo davvero è sul palco. La maschera della rappresentazione me lo consente, mi dà un posto dove nascondermi, così che possa rivelarmi. Per me è  qualcosa di più del solo fare spettacolo, del cantare dei brani e andarmene. Io vivo ogni cosa in modo davvero personale. Non sento di aver fatto un qualcosa di completo finché non ho condotto tutti gli spettatori presenti a un livello comune. A volte interrompo la canzone e resto a lungo in silenzio, lascio che vengano fuori tutte le ostilità latenti, il disagio e le tensioni, prima di ricominciare.
Un concerto funziona quando i musicisti e il pubblico raggiungono una sorta di esperienza unificante. E’ commovente e appagante sapere che i confini che separano una persona dall'altra si annullano nell'arco di un'ora.
Non ascolto spesso la musica rock. Mi piace cantare il blues, quelle lunghe tirate libere senza un inizio o una fine predefiniti: a un certo punto il pezzo prende una certa piega e io non faccio che improvvisarci sopra. Tutti in assolo. Mi piace questo tipo di canzone: attaccare con un ritmo blues e vedere dove ti porta.


Gino Castaldo
Il tempo di Woodstock

In quel periodo la musica stava dando una impressionante dimostrazione di forza. Era il costante sottotesto della rivoluzione, vera o presunta che fosse. Disegnava il profilo dei tempi, aveva accelerato le pulsazioni del mondo alternativo, generava una irripetibile eruzione creativa, sembrava davvero l'agognata scienza dell'uomo nuovo (...). Del resto è davvero una strana epoca, quella che trasforma in prodotto di massa un poeta come Bob Dylan. La musica era diventata a tutti gli effetti il nuovo vangelo, ovviamente apocrifo, del tumulto generazionale. Era in un certo senso musica d'avanguardia, spinta, da circostanze inedite nel paesaggio culturale, a diventare egemonica, di massa, anche se legata esclusivamente a una sola parte del mondo. La musica stessa è un codice di appartenenza, delimita e definisce l'identità giovanile. Nel 1969, inoltre, la cultura rock è arrivata a una rapida e magniloquente maturità (...). Nel grande oceano del rock poteva entrare di tutto, e nessuno avvertiva alcun contrasto nel seguire allo stesso tempo gruppi così diversi. E in più, con un relativo ritardo rispetto alle raffinatezze dell' evoluzione discografica, prende forma il mito del concerto (...). Si fa strada con forza sempre maggiore l'idea che il concerto sia la dimensione perfetta, il rito di massa per eccellenza, la possibilità di bruciare tutto e subito, estasi ed emozioni, visioni e brividi corporali, nel cerchio magico creato tra pubblico e performer. C' era l'illusione dell'empatia totale, c'era la discesa, o meglio il ritorno, delle star in mezzo al popolo di cui erano figli diretti, c'era la catarsi, offerta a buon mercato, di facile accesso, a ogni singolo concerto che le divinità del rock mandavano su questa terra (...). I concerti stessi sono piccoli romanzi di formazione, passi iniziatici, luoghi in cui poter sondare e vivere in termini rituali i confini della propria identità, individuale e collettiva. Per lungo tempo i concerti sono stati occasione di cambiamento. Si poteva arrivarci in un modo e uscire in qualche modo trasformati. E alcuni artisti avevano una precisa consapevolezza di questo potere.


T. E. Carter
La bottega del pianoforte

«Ecco, questi pianoforti sono decisamente vivi». Luc si sedette sullo sgabello di uno Steinway a coda con il coperchio aperto. Si fermò per un attimo, immobile e pensieroso, poi le sue mani scesero sulla tastiera e un'Invenzione a tre voci di Bach riempì lo spazio, con le sue delicate melodie e contrappunti che avviluppavano e in qualche modo espandevano il soleggiato spazio sotto il lucernario.
Si fermò bruscamente a metà di un trillo e le note risuonarono a lungo. L'eco penetrante della musica nel laboratorio silenzioso cambiò completamente l'atmosfera come se un carillon di campane fosse improvvisamente risuonato nella piazza di una cittadina sonnacchiosa. Quegli strumenti avevano una vita propria e il loro respiro era la musica che ancora risuonava nell'aria intorno a noi.


J. D. Landis
Struggimento

«Suonerò per voi i Papillons, dodici brevi pezzi composti dal mio amico Robert Schumann, che siede tra voi, a meno che il timore di sentire la sua opera rovinata da me non l'abbia fatto scappare». Mentre pronunciava questo singolare discorsetto, Clara lo fissava direttamente negli occhi, con un'espressione sfrontata e cordiale a un tempo (...).
Quello che era apparso pesante durante lo studio, ora suonava leggero come l'aria. Quello che era stato sciatto, ora era pieno di grazia. Quel che era parso ignorare le intenzioni del compositore, ora era straordinariamente divinatorio.
Suonava quella musica come lui avrebbe desiderato e non sarebbe mai stato in grado di fare, nemmeno se si fosse allungato il dito fino a coprire tutta la tastiera.
E suonava anche a memoria, come gli aveva detto di aver suonato un intero programma a Parigi. Ma un conto era fare una cosa del genere, per quanto nuova, in Francia e ben altro conto in Germania, dove ci si aspettava fedeltà al testo, non solo nel modo in cui un pezzo veniva eseguito, ma anche nel modo in cui il pianista sedeva durante l'esecuzione. Robert però si rendeva conto che l'assenza della partitura l'aveva liberata dalla necessità di tenerci gli occhi incollati sopra, per quanto bene potesse conoscerla, e di anticipare il voltare pagina, che lo facesse da sola o fosse un altro a farlo per lei, con l'ansia che spesso spinge i pianisti a sollevare le braccia e le spalle, come anatre che tentano di alzarsi in volo da acque limacciose.
Così chiudeva gli occhi e li apriva e piegava leggermente la testa da un lato e dall'altro, oppure la rovesciava all'indietro, esponendo la gola alla musica che si sollevava dalle sue dita.

 

LEGGERE DI...ANIMALI

 John Fante
Il mio cane Stupido

Il cane era sempre sul divano quando tornai in salotto.
Aveva un incubo e si lamentava, muoveva le zampe a scatti e piangeva.
Cacciava qualcosa oppure lo stavano rincorrendo, e le zampe si muovevano sempre più veloci.
Provai pena per lui, perché anch’io facevo spesso questi sogni di fuga, inseguito da mia moglie, dal mio agente o dai fratelli King, gli ultimi produttori che mi avessero ingaggiato.
Si svegliò improvvisamente, sollevò la testa, contento che fosse solo un sogno, e soddisfatto si mise a sedere ansimando.
Gli domandai “ Come ti chiami ragazzo?”
“ Crepa” mi disse il suo sguardo.
Mi avviai per il corridoio per fare pace con mia moglie.


Patrizia Carrano
Campo di prova

Da quel giorno Egle non mancò mai d’andare in scuderia e non saltò una riunione di trotto.
Le piaceva l’ansia sospesa con cui il cavallo veniva vestito, la rarefatta emozione che precedeva la gara, lo spossato sollievo che giungeva con il buon risultato.
Ma più ancora le piacevano i cavalli, le loro criniere flottanti, la pelle setosa dei loro musi, il senso di vitale libertà che le veniva dalla loro vicinanza, assieme magnetica e pacificante.
Accanto ai cavalli Egle sentiva di possedere il mondo.
Forse non tutto il mondo, ma quello che abbracciava il suo sguardo, quello che davvero le interessava e amava.
Accanto ai cavalli provava le emozioni che s’era aspettata dal teatro e che il palcoscenico non le aveva offerto.


Elena Gianini Belotti
Voli

Non è solo per via dell’assenza di denti che vado pazza per gli uccelli,ma per la gioia, il divertimento, l’eccitazione
che mi hanno regalato fin dall’infanzia.
A cominciare dai pulcini teneri, morbidi e inoffensivi che mio padre, come un mago, faceva nascere da un’incubatrice invece che da una chioccia, uno scatolone di legno dalle pareti di vetro, costipato da un battaglione di uova prodigiosamente colorate d’azzurro dalle fiammelle del petrolio.
“Fai silenzio e allunga le orecchie” mi diceva quando il periodo di incubazione stava per finire : io trattenevo il fiato
e ascoltavo il pigolio sommesso dei pulcini ancora chiusi nell’uovo e un fruscio come di un’unghia che gratta con delicatezza la superficie dura .
“ Stanno preparandosi ad uscire” diceva papà, calmo e soddisfatto, e io non stavo più nella pelle per l’impazienza.


Nicoletta Vallorani
Come una balena

La differenza, in effetti, è tutta lì.
I bipedi pensano in linea retta.
Una parola dietro l’altra, una frase dopo l’altra, si costruiscono le loro storie e le loro teorie.
Non conoscono i percorsi laterali, non amano muoversi di sbieco.
Sono logici, e pensano che questo sia una grande manifestazione di saggezza.
In fondo, tante creature ragionano nello stesso modo.
Contano i fatti nella loro vita sommandoli, uno dopo l’altro : uno più uno due, due più due quattro, e via così.
Le balene, invece, pensano in tutte le direzioni.


Nicholas Evans
Insieme con i lupi

L’olezzo di una carneficina, credono alcuni, può aleggiare su un luogo per anni.
Dicono che s’infiltri nel suolo e venga lentamente assorbito dall’intrico delle radici finchè, col passare del tempo, tutto ciò che vi cresce, dal più piccolo lichene all’albero più alto,ne viene impregnato.
Forse, mentre avanzava nella foresta in quel tardo pomeriggio, strisciando il suo levigato manto estivo contro i rami più bassi dei pini e degli abeti, il lupo percepiva tutto ciò.
E forse quel vago sentore nelle sue narici, la consapevolezza che cent’anni prima in quel luogo tanti suoi simili fossero stati massacrati, avrebbe dovuto spingerlo a tornare sui suoi passi.
Ma il lupo proseguì la discesa.


J.M. Coetzee
La vita degli animali

“Uno scoiattolo non ce l’ha una visione del mondo?”
“Sì che ce l’ha. Comprende ghiande, alberi, il clima, gatti, cani, automobili, scoiattoli dell’altro sesso. Comprende la spiegazione di come questi fenomeni interagiscono e di come interagire con essi per sopravvivere.
Tutto qua. Non c’è nient’altro. Il mondo secondo lo scoiattolo è questo.”
“Ne siamo certi?”
“Ne siamo certi nella misura in cui centinaia di anni passati ad osservare gli scoiattoli non ci hanno portato a conclusioni diverse.
Se nella mente dello scoiattolo c’è qualcos’altro, esso non risulta nel comportamento osservabile.
Ai fini pratici la mente dello scoiattolo è un meccanismo molto semplice.”
“Allora Cartesio aveva ragione, gli animali non sono che automi, macchine biologiche.”
“In senso lato sì, in astratto non si può distinguere tra una mente animale e una macchina che simula una mente animale.”
“E gli esseri umani sono diversi?”


Hannah Tinti
Animal crackers

Il serpente arriva in una federa.
Fred lo libera nella vasca da bagno.
Lei osserva la bestia manovrare il proprio corpo su e giù per la porcellana. Il dorso è attraversato da strisce marroni, che sulla coda virano al rosso.
Ogni disegno racchiude due ovali bianchi appollaiati ai lati della spina dorsale.
La padrona di casa di Fred non gli permette di tenere il boa nell’appartamento.
A lei dispiace? Non le dispiace.
Allestiscono il terrario nella libreria.
Lampade per riscaldare, termometri, un ramo d’albero per arrampicarsi e un secchiello capovolto come nascondiglio. Lui le raccomanda di chiudere sempre la gabbia a chiave.
Sul tavolo della cucina, in un piccolo contenitore usa e getta, c’è un topo che graffia il cartone con le unghie.
Più tardi lei guarda il roditore finire tra le fauci del serpente, ancora vivo ma svigorito, come se conoscesse la propria sorte e l’accettasse.


Richard Adams
La collina dei conigli

I conigli di questo straordinario romanzo parlano una loro lingua - il lapino - di cui il signor Adams è profondo conoscitore.
Benché esistano vari dialetti lapinici, non si ha tuttavia motivo di ritenere che l’idioma conigliesco venga – nelle varie parti del mondo - in qualche modo influenzato dal genius loci di questa o di quella lingua umana.
Nondimeno, è logico supporre che l’Autore – nel trascrivere alcuni termini lapinici - sia stato influenzato dalle caratteristiche della propria lingua; pertanto il traduttore s’è ingegnato di risalire, per via d’ipotesi alla voce originale: non certo allo scopo di italianare il lapinico, ma solo per disinglesarlo.
E ciò sia per quanto riguarda la grafia ( Owsla diventa Ausla) sia per quel che concerne certi suoni e fonemi ( e allora Thlayli diventa Sglaili, tharn è reso con tzarn, e simili).


George Orwell
La fattoria degli animali

I SETTE COMANDAMENTI
1- Tutto ciò che va su due gambe è nemico
2- Tutto ciò che va su quattro gambe o ha ali è amico
3- Nessun animale vestirà abiti
4- Nessun animale dormirà in un letto
5- Nessun animale berrà alcolici
6- Nessun animale ucciderà un altro animale
7- Tutti gli animali sono uguali

 

LIBRO E FILM

Patrick McGrath
Follia
da cui è stato tratto il film “ Follia”( 2005)

Le storie d’amore catastrofiche contraddistinte da ossessione sessuale sono un mio interesse professionale da molti anni. Si tratta di relazioni la cui durata e intensità differiscono sensibilmente, ma che tendono ad attraversare fasi molto simili:riconoscimento, identificazione, organizzazione, struttura, complicazione e così via.
La storia di Stella Raphael è una delle più tristi che io conosca. Stella era una donna profondamente frustrata, che subì le prevedibili conseguenze di una lunga negazione e crollò di fronte ad una tentazione improvvisa e soverchiante.
Come se non bastasse era una romantica.
Traspose la sua esperienza con Edgar Stark sul piano del melodramma, facendone la storia di due amanti maledetti che sfidano il disprezzo del mondo in nome di una grande passione. E’ stata una vicenda il cui corso ha distrutto quattro vite, eppure Stella, ammesso che abbia mai provato qualche rimorso, è rimasta fedele alle sue illusioni fino alla fine.


Suskind Patrick
Profumo
da cui è stato tratto il film “ Profumo” ( 2006)

Esistono profumi che durano decenni.
Un armadio strofinato con un muschio, un pezzo di cuoio imbevuto d’olio di cannella, uno gnocco d’ambra, una cassettina di legno di cedro mantengono l’odore quasi in eterno. Altri invece – olio di limoncello, bergamotto, estratti di narciso e di tuberosa -  si dileguano già dopo qualche ora, se sono esposti all’aria pura e liberi.
Il profumiere affronta questa fatale circostanza quando vincola i profumi troppo volatili con quelli duraturi, cioè impone ad essi delle catene che ne regolino l’impulso di libertà, e in tal caso l’arte consiste nell’allentare le catene quel tanto che basta perché il profumo non possa svanire. Una volta Grenouille era riuscito ad eseguire alla perfezione questo pezzo di bravura con l’olio di tuberosa…
Perché non doveva essere possibile qualcosa di simile anche con il profumo della fanciulla?


Cristina Comencini
La bestia nel cuore
da cui è stato tratto il film “ La bestia nel cuore” ( 2005)

Devi essere paziente con me, anche se sei impaziente di carattere. Nella lettera mi chiedi la ragione per cui sono cambiata, e perché ho scelto te.
Difficile spiegare queste cose.
Sei un attore pure tu, non ti piacciono le spiegazioni astratte.
La prima volta che siamo usciti insieme, parlando mi hai tolto le briciole di pane dalla maglietta; un altra volta, avevamo appena finito di fare l’amore, mi hai preso la spazzola dalle mani e mi hai legato i capelli meglio di come avrei fatto io.
Quando sistemi casa lo fai con grazia e senza intenzione. Quando ti muovi sembra che parli.
La maggior parte degli uomini che ho conosciuto cercano in ogni modo di nascondere il proprio fisico, oppure sono solo fisici e nient’altro.
Ai miei occhi avevi trovato un’armonia impossibile, mi sono innamorata di te subito.


Patrick McCabe
Colazione su Plutone
da cui è stato tratto il film “ Breakfast on Pluto” ( 2005)

Vedete, io credevo di essere perfettamente al sicuro, davvero, visto che dopo essere rimasto appiccicato alla porta della mia stanza per almeno cinque minuti le avevo finalmente sentite gracchiare:
“ Ciao, Patrick! Patrick…yuhuu! Sei di sopra a studiare? Io e Caroline andiamo alla Benedizione!”
E solo allora ero sceso giù per le scale e avevo chiuso la porta alle loro spalle.
“ Tutto solo, per almeno un’ora ! ” avevo urlato in uno stato di deliziosa esaltazione. E invece no!
Neanche venti minuti dopo, ecco che tornano entrambe e si mettono a gironzolare in cucina alla ricerca di un libro di preghiere o di qualcosa che hanno dimenticato. Ovviamente io non mi ero accorto di nulla, essendo troppo occupato a passarmi sulle labbra il rossetto della Baffa ( rosa corallo Cutex, che ci crediate o no) e a dire :
“ Ciao Patricia!” di fronte allo specchio, fingendo di ballare con Efrem Zimbalist Junior!


Niccolò Ammaniti
Io non ho paura
da cui è stato tratto il film “ Io non ho paura” ( 2003)

Mamma non sedeva mai a tavola con noi.
Ci serviva e mangiava in piedi. Con il piatto poggiato sopra il frigorifero. Parlava poco e stava in piedi.
Lei stava sempre in piedi.
A cucinare. A lavare. A stirare.
Se non stava in piedi, allora dormiva.
La televisione la stufava.
Quando era stanca si buttava sul letto e moriva.
Al tempo di questa storia mamma aveva trentatre anni. Era ancora bella. Aveva lunghi capelli neri che le arrivavano a metà schiena e li teneva sciolti.
Aveva due occhi scuri e grandi come mandorle, una bocca larga, denti forti e bianchi e il mento a punta. Sembrava araba. Era alta, formosa, aveva il petto grande, la vita stretta e un sedere che faceva venire voglia di toccarglielo e fianchi larghi.
Quando andavamo al mercato di Lucignano vedevo come gli uomini le appiccicavano gli occhi addosso.


Jonathan Safran Foer
Ogni cosa è illuminata
da cui è stato tratto il film “ Ogni cosa è illuminata” ( 2005)

Il mio nome per la legge è Alexander Perchov.
Ma tutti i miei amici mi chiamano Alex, perché è una versione del nome più flaccida da pronunciare.
Mia madre mi chiama Alexi-basta-di-ammorbarmi perché sempre la ammorbo. Se volete sapere perché sempre la ammorbo, è perché sempre sono in altri posti con amici, e seminando tanta moneta e eseguendo così tante cose che possono ammorbare mia madre. Mio padre mi chiamava Shapka per il cappello di pelliccia che calzavo in testa anche nei mesi d’estate. Poi ha smesso di dirmi così perché gli ho ordinato di smettere di dire così.
Mi sembrava un nome bambinoso, e io invece mi sono sempre pensato un uomo molto potente e inseminativo. Ho avuto una baldoria di ragazze, credetemi, e tutte per me hanno un nome differente.


Annie Proulx
Gente del Wyoming
da cui è stato tratto il film “ I segreti di Brokeback Mountain” ( 2005)

Poi Jack cominciò a comparire nei suoi sogni, Jack come l’aveva visto la prima volta, capelli ricci, sorriso e denti sporgenti, a dire che voleva darsi una mossa e prendere in mano le redini della sua vita, ma c’era anche il barattolo dei fagioli, poggiato sul ceppo, con il cucchiaio che ne spuntava, tutto in colori vividi e linee da cartone animato che davano ai sogni un che di osceno umorismo.
Il manico del cucchiaio aveva una forma simile a quella di un cacciacopertoni.
E lui si destava a volte con l’angoscia, a volte con l’antico senso di gioia e distensione; a volte era bagnato il guanciale, a volte il lenzuolo.
Restava uno spazio vuoto tra ciò che sapeva e ciò che voleva credere, ma non ci poteva fare niente,
e se non la puoi risolvere devi prenderla com’è.


Dai Sijie
Balzac e la piccola sarta cinese
da cui è stato tratto il film “ Balzac e la piccola sarta cinese” ( 2002)

Due parole sulla Rieducazione : alla fine del 1968, nella Cina rossa, il Grande Timoniere della Rivoluzione, il presidente Mao, avviò un piano destinato a cambiare profondamente il paese : le università furono chiuse e i “giovani intellettuali”, ossia gli studenti che avevano finito il liceo, furono mandati in campagna per essere “rieducati contadini poveri”
… Che cosa avesse spinto Mao Zedong a prendere una decisione simile, rimase un mistero : voleva farla finita con le Guardie rosse, che cominciavano a sfuggire al suo controllo? O forse da quel gran sognatore rivoluzionario che era, aspirava a forgiare una nuova generazione? Nessuno mai riuscì a trovare una risposta. A quell’epoca io e Luo ne discutemmo spesso di nascosto, come due congiurati. La nostra conclusione fu la seguente : Mao odiava gli intellettuali. Noi non eravamo né le prime né le ultime cavie ad essere sottoposte a un simile esperimento.


Arthur Schnitzler
Doppio sogno
da cui è stato tratto il film “ Eyes Wide shut” ( 1999)

Così marito e moglie, contenti in fondo di essere sfuggiti a un banale e deludente scherzo di carnevale, si erano trovati ben presto al buffet tra ostriche e champagne, come due amanti fra altre coppie innamorate : avevano conversato divertiti, come se si fossero conosciuti solo allora, gettandosi nella commedia della galanteria, del diniego, della seduzione e della condiscendenza; e dopo una veloce corsa in carrozza attraverso la bianca notte invernale, si erano abbandonati a casa nelle braccia l’uno dell’altro, amandosi ardentemente come non accadeva più da tempo. Un’alba grigia li aveva svegliati troppo presto. La professione imponeva di essere già di buon ora al capezzale dei suoi malati; i doveri di madre e di donna di casa non fecero riposare più a lungo nemmeno Albertine. Le ore successive erano così trascorse nella monotonia dei loro consueti impegni e occupazioni, mentre la notte passata, l’inizio come la conclusione, era impallidita nel ricordo.

 

MUSICA

Alessandro Baricco
Novecento: un monologo

Suonava non so che diavolo di musica, ma piccola e… bella. Non c’era trucco, era proprio lui, a suonare, le sue mani, su quei tasti, dio sa come. E bisognava sentire cosa gli veniva fuori. C’era una signora, in vestaglia, rosa, e certe pinzette nei capelli… una piena di soldi, per capirsi, la moglie americana di un assicuratore… be’, aveva dei lacrimoni così che le scendevano sulla crema da notte, guardava e piangeva, non la smetteva più. Quando si trovò il comandante di fianco, bollito dalla sorpresa, lui, letteralmente bollito, quando se lo trovò di fianco, tirò su col naso, la riccona dico, tirò su col naso e indicando il pianoforte gli chiese:
“Come si chiama?”.
“Novecento.”
“Non la canzone, il bambino.”
“Novecento.”
“Come la canzone?”
Era quel genere di conversazione che un comandante di marina non può sostenere più di quattro cinque battute. Soprattutto quando ha appena scoperto che un bambino che credeva morto non solo era vivo ma, nel frattempo, aveva anche imparato a suonare il pianoforte. Piantò la riccona lì dov’era, con le sue lacrime e tutto il resto, e attraversò a passi decisi il salone: pantaloni del pigiama e giacca della divisa non abbottonata. Si fermò solo quando arrivò al pianoforte. Avrebbe voluto dire molte cose, in quel momento, e tra le altre “Dove cazzo hai imparato?”, o anche “Dove diavolo ti eri nascosto?”. Però, come tanti uomini abituati a vivere in divisa, aveva finito per pensare, anche in divisa. Così quel che disse fu:
“Novecento, tutto questo è assolutamente contrario al regolamento”.
Novecento smise di suonare. Era un ragazzino di poche parole e di grande capacità di apprendimento. Guardò con dolcezza il comandante e disse:
“In culo il regolamento”.


Agata Christie
Il canto del cigno

Il primo atto della Tosca era appena arrivato alla sua conclusione, in teatro il pubblico si muoveva, scambiava qualche commento. I personaggi della Casa Reale, cortesi e garbati, sedevano su tre poltrone di velluto in prima fila. Ogni spettatore bisbigliava e scambiava qualche parola con i suoi vicini, ma l’impressione generale era che la Nazorkoff, in quel primo atto, non avesse cantato all’altezza della propria fama. Gran parte dell’uditorio non si rendeva conto che proprio in questo la grande cantante rivelava la sua grande arte. Nel primo atto risparmiava la propria voce e se stessa. Aveva fatto di Tosca un personaggio frivolo e superficiale, che giocherellava con l’amore, gelosa ma in modo civettuolo, piena di pretese. Bréon, anche se la potenza della sua voce non era quella dell’epoca migliore, costituiva ancora un magnifico personaggio, nell’interpretazione del cinico Scarpia. Niente pose da libertino decrepito, nella sua concezione di quella parte. Di Scarpia aveva fatto una figura bella e quasi benevola, con una sfumatura soltanto di quella sottile malvagità che veniva nascosta all’aspetto esteriore. Nell’ultimo brano, con l’organo e la processione, mentre Scarpia appare perduto nei suoi pensieri a pregustare il piano con cui si assicurerà le grazie della Tosca, Bréon aveva rivelato un’arte stupenda. E ora il sipario si alzava sul secondo atto. La scena rappresentava la casa di Scarpia.


Tiziano Scarpa
Stabat Mater

A noi ragazze non è permesso esprimere ciò che pullula nel nostro animo. Eppure anche noi siamo intrise di suoni. La Madre di Dio sente che cosa accade dentro di noi. Non ha bisogno che le suonino la nostra musica.
Oggi non penso più così, oggi penso che sto soltanto assecondando la legge dell’Ospitale. Il mondo ci vuole silenziose. E se noi pensiamo che le musica risuona comunque dentro il nostro animo, e la consideriamo più vera di quella che si ascolta con le orecchie, nell’aria, all’esterno dei corpi, allora non facciamo altro che obbedire a chi ci vuole zittire.
Perché non esistono musiciste? Perché le donne non compongono musica? Perché si accontentano di lasciarle risuonare dentro il loro animo, a tormentarle, a corrodere i loro pensieri? Perché non se ne liberano buttandola fuori? Che cosa succederebbe, se il mondo venisse invaso dai suoni che accadono dentro l’animo delle donne?
Così quella notte in chiesa ho accantonato il mio violino e sono rimasta in silenzio. O meglio, da fuori sembrava che io fossi in silenzio, mentre dentro di me stavo suonando cento strumenti. Mi sono messa a suonare la musica con la mente.


Michael Tournier
La leggenda della musica e della danza

Ora, c’erano numerosi alberi in Paradiso, e ciascuno, con i propri frutti, conferiva una conoscenza particolare. Uno rivelava la matematica, l’altro la chimica, un terzo le lingue orientali. Dio disse ad Adamo ed Eva:
- Potete mangiare i frutti di tutti gli alberi e acquisire ogni tipo di conoscenza. Guardatevi, tuttavia, dal mangiare il frutto dell’albero della musica, perché, conoscendo le note, smettereste subito di sentire la grande sinfonia delle sfere celesti, e, credetemi, niente è più triste del silenzio eterno degli spazi infiniti!
Adamo ed Eva erano perplessi. Il Serpente disse loro:
- Mangiate pure i frutti dell’albero della musica. Conoscendo le note, potrete fare da soli la vostra musica, ed essa eguaglierà quella delle sfere celesti.
Finirono col cedere alla tentazione. Ma, non appena ebbero dato il primo morso a uno dei frutti dell’albero della musica, le loro orecchie si turarono. Smisero di sentire la musica delle sfere, e un silenzio funereo piombò su di loro.
Così finì il paradiso terrestre. Cominciava la storia della musica. Adamo ed Eva, poi i loro discendenti si misero a tendere pelli su zucche e budelli su archetti. Fecero buchi nelle canne e torsero barrette di rame per fabbricare diapason. Fu così per millenni, e ci fu Orfeo, e ci furono Monteverdi, Bach, Mozart, Beethoven. Ci furono Ravel, Debussy, Benjamin Britten e Pierre Boulez.
Ma il cielo restò per sempre silente, e mai più si udì la musica delle sfere.


Ago Panini
L’erba cattiva

[Clash]
Per farla breve: lo scontro!
E uno scontro effettivamente avvenne, proprio davanti al negozio di musica qualche giorno dopo, contro una portiera aperta mentre ero in bici. Feci un volo di una decina di metri. Atterrai sulla schiena. Non mi ruppi niente. Non andò così per il flauto traverso, che stava nello zaino. E per la mia bicicletta rossa, che da quel giorno avrebbe avuto per sempre la forcella storta. Chi aveva aperto la portiera, preoccupatissimo, era il proprietario del negozio di musica. Ero lì, sdraiato a terra, con lo zaino aperto, il flauto fracassato e tutte le sue chiavi sparse sull’asfalto. Il padrone del negozio, Davide, temendo di avermi ammazzato, sorrise quando vide che mi rialzavo. Mi fece entrare nel negozio per riprendermi un attimo.
E lì la mia vita cambiò.
Davide si offrì di darmi un flauto nuovo. Io mi accorsi che lui non capiva nulla di flauti, e vendetti il mio come il lascito di uno zio flautista. Davide era ancora scosso dal mancato omicidio, per quanto preterintenzionale. Senza indugio proposi: una chitarra elettrica al posto del mio flauto fracassato. Io avrei voluto la Fender, ma lui mi diede un’imitazione Rickenbacker. La nascosi a casa, dietro il mio armadio. La maggior parte degli adolescenti della mia età nascondeva i giornaletti porno, io nascondevo una chitarra. E un’anima. Un’anima rock.
[…] Di nascosto in camera mia ascotavo a volume bassissimo la radio. Cercavo trasmissioni di rock. Non capivo nulla, ma avevo bisogno di rock. Ascoltavo qualsiasi cosa, senza criterio, gusto o logica. E provavo a strimpellare qualcosa sulla chitarra. Rubai (per sentirlo più “mio” e forse più sexi e proibito) un libro di accordi di canzoni che non conoscevo assolutamente ma che aveva un cannone in copertina. Era For Those About to Rock, degli AC/DC.


Haruki Murakami
A sud del confine, a ovest del sole

Il disco della raccolta del padre di Shimamoto che amavo di più era quello dei concerti per pianoforte e orchestra di Liszt. Su un lato c’era il concerto n. 1 e sull’altro il n. 2. Mi piaceva per due motivi. Perché aveva una copertina molto bella e perché non conoscevo nessuno – a parte Shimamoto – che avesse mai ascoltato i concerti per pianoforte e orchestra di Liszt. Era un’idea emozionante. Ero diventato parte di un mondo sconosciuto a tutti quelli che mi stavano intorno. Era come un giardino segreto a cui solo io potevo accedere. Ascoltare i concerti per pianoforte e orchestra di Liszt significava, per me, spingermi un gradino più in alto nella scala della vita.
Era una musica meravigliosa. All’inizio la trovai ampollosa e ricca di virtuosismi tecnici e non riuscii a cogliervi un disegno coerente. Ascoltandola più volte, però, quelle immagini fino ad allora completamente sfocate, cominciarono ad assumere una forma più definita e, a poco a poco, sembrarono acquisire una certa coesione dentro di me. Se chiudevo gli occhi e provavo a concentrarmi, riuscivo a scorgere in quella musica dei vortici che si formavano l’uno dentro l’altro e che poi andavano a ricongiungersi ad altri ancora. Adesso capisco che si trattava di creazioni astratte della mia mente, ma allora avrei voluto poterle trasmettere a Shimamoto. Le parole di uso quotidiano non bastavano per esprimere questo tipo di concetti e io non conoscevo ancora i vocaboli adatti a spiegarne il significato. E poi, non sapevo se valesse la pena di comunicare agli altri, a parole, queste mie sensazioni.



Christian Gailly
Una notte al club

L’ingegnere raccontava la sua [vita] per gratitudine. Nei confronti di Simon, che l’aveva salvato. Le devo la vita. La mia vita le appartiene. Lei merita di conoscerla.
Ascoltando, Simon diceva tra sé: Perché siamo sempre così diversi gli uni dagli altri? Perché va sempre a finire che mi annoio? Certo, è molto più giovane di me, eppure. E lei, chiese l’ingegnere, ce l’ha un passatempo?
No, rispose Simon, nessuno. Ma allora, incalzò l’altro, cosa fa nel tempo libero? Niente, replicò Simon, dormo, leggo, sento della musica. Che tipo di musica? Mah, dipende. Si chiese quanto sarebbe durata, quella cena. Avevano quasi finito.
Certo, ribatté l’ingegnere, ma di solito, che cosa preferisce? Questo ragazzo è simpatico, ma mi annoia, pensò Simon. Arrivano questi caffé? Arrivano. Un attimo di pazienza.
Incapace di restare in silenzio. Di ascoltare la musica. O semplicemente di osservare il colore del cielo, che in quel momento era di un blu profondo, quasi nero, l’ingegnere ripeté la sua domanda.
Che tipo di musica? Simon non aveva voglia di rispondere. Eppure è un ragazzo gentile. Non gli si può rimproverare niente. Simon esitò ancora, quindi, con una doverosa smorfia, da clown che deve comunque recitare la sua parte, rispose: Jazz.
Mentiva. Non lo sentiva più. Sentiva solo l’altra, la bella, la grande, la classica, la colta. Aveva cominciato dopo la diserzione. Lo swing gli mancava, ma in mancanza di swing si stordiva di bellezza. Avrebbe fatto meglio a dire la verità.
L’ingegnere guardò l’orologio. L’ingegnere non mollava mai. Non poteva contenere quel bisogno di ringraziarlo. La sua gratitudine, per essere soddisfatta, aveva bisogno di un altro gesto.
Conosco un club niente male qui in città, disse. Ah si? Fece Simon. Si, ribatté l’altro, con uno sguardo vagamente malizioso: Allora ecco quello che le propongo: andiamo a bere qualcosa in questo club e poi la riaccompagno alla stazione: che gliene pare?



Nick Hornby
Alta fedeltà

Non ho voglia di sentire ‘Walking on sunshine’!”
“È la mia nuova cassetta. La cassetta per il lunedì mattina. L’ho registrata ieri sera, apposta.”
“Sì, beh, è lunedì pomeriggio, cazzo. Dovevi scendere dal letto un po’ prima.”
“Perché, stamattina me l’avresti lasciata sentire?”
“No. Ma almeno così ho una scusa.”
“Non ti va qualcosa di allegro? Qualcosa che metta un po’ di calore nelle tue povere ossa di mezz’età?”
“No.”
“Cosa vuoi sentire, allora, quando sei incazzato?”
“Non lo so. Certo, non ‘Walking on sunshine’.”
“Ok, vado avanti veloce.”
“Poi cosa viene?”
“’Little lapin lupe lu’”
Emetto un gemito.
“Mitch Ryder e The Detroit Wheels?” domanda Dick.
“No. The Righteous Brothers” risponde Barry, ma sento dal suo tono di voce che è sulla difensiva. Evidentemente lui non la conosce la versione di Mitch Ryder.
“Oh, beh, pazienza.” Dick non oserebbe mai dirgli chiaro e tondo che allora non sa proprio niente della vita, ma è implicito.
“Pazienza, cosa?” dice Barry, mostrando i denti.
“Niente.”
“No, continua. Cos’hanno che non va i Righteous Brothers?”
Niente. È solo che io preferisco Mitch Ryder”, dice Dick, mitemente.
“Le palle.”
“Come possono essere le palle a decretare una preferenza?” domando io.
“Se la preferenza è sbagliata, le palle.”
Dick scrolla le spalle e sorride.


Jasmine Ghata
Concerto per mio padre

Ho suonato. Il târ di Mohsen mi affidava la sua intimità, ancora vergine, ancora mai svelata a un estraneo. Le mie dita erravano, note simili agli ululati, ai latrati. Le corde agili e vibranti si sottomettevano al mio volere e, prigioniere delle mie falangi svelte, ritrovavano la loro libertà al contatto con l’aria, scoccando frecce e amplificando i piaceri puri. Improvvisavo arrangiamenti e accenti ritmici nuovi, abbellivo la linea melodica. Ogni suono scacciava il demone che tentava di varcare le spesse mura del santuario, lo respingevo con vibrazioni ininterrotte e cancellavo il fango lasciato ai suoi piedi. Il mio bisogno ardente di Dio lo aveva scaraventato al di là della montagna, le sue smorfie e il suo fetore evaporati al vento. Ho conosciuto l’estasi, la trance di essere in Dio, lo strumento di Mohsen riecheggiava a chilometri di distanza sfidando i giorni, le stagioni, i venti. Strappi corti o allungati, note secche o acute, in crescendo, che scoppiavano di luce. Il mio corpo tutto aveva abbandonato il pavimento.
Ho smesso di suonare, ma il târ continuava al mio posto mentre io vorticavo come una trottola, i miei piedi follavano il vento. Quel giorno, cento volte sono nato e sono morto sotto gli occhi di tutti. Fu l’ombra della cupola, che annunciava la notte, a fermare la mia danza e a riportarmi con i piedi per terra. Il târ di Mohsen era rovente per quanto le corde avevano cantato: il suo legno ridotto al silenzio da vent’anni era ritornato alla vita, i miei occhi si erano seccati come pozzi, le mie tempie e le mie pupille avevano al tatto l’aspetto di una roccia pura senza la minima asperità.
[…] Vent’anni prima, Mohsen aveva compiuto miracoli, ed era quello che avrei realizzato anche io grazie a quella musica particolare, quella indecifrabile musica che mi ispirava l’Altissimo.


NATALE

Mario Rigoni Stern
Inverni lontani

La neve verrà leggera come piccole piume d’oca, soffermandosi prima sugli alberi, quindi filtrerà tra i rami posandosi infine sui cortinari gelati, sugli arbusti di mirtillo, sul muschio come velo di zucchero su una torta.
Le lepri, i caprioli, i cervi staranno immobili a guardare il nuovo paesaggio.
Le volpi dentro la tana spingeranno fuori il naso per fiutare il nuovo e antico odore che ritorna.
Ma quando sarà tutto bianco si ricorderanno gli scoiattoli dove hanno nascosto le provviste?


Erri de Luca
Solo andata

Lascio il sudore starsene seccato sulla pelle.
Non mi lavo, quest’ultimo dell’anno.
Va bene sulla fronte la mano che fa attrito sul sale, stropiccia rughe e cala sopra gli occhi. E’ odore mio.
Aspettavo qualcuno per stasera? Non ricordo, a lavarmi rinuncio, l’ultimo dell’anno l’acqua del pozzo è fredda più delle altre giornate.
Se veniva era un’occasione per lavarsi, andare alla stazione e ritornare in due.
Non andrò alla stazione, a vuoto, neanche per vedere chi arriva stanotte e per chi.
Fuori stanno bruciando le micce della festa.
Mi è rimasto il sudore e il pensiero di qualcuna che doveva arrivare per volermi.
Spengo il lume, concluso : mi basta che non sia la polizia.
E poi domani questo sarà ieri.


Anita Shreve
Una luce nella neve

Il viaggio di ritorno è lungo e teso.
A tratti mio padre ha difficoltà a tenere la strada.
Sento in continuazione le ruote posteriori che slittano fuori dal solco con un sobbalzo.
Incontriamo solo un paio di veicoli, nessuno ha voglia di avventurarsi nella tormenta.
Superiamo il cottage bianco dove vivono i ragazzi.
Pulisco il finestrino e cerco di catturare qualcosa dell’interno.
Alle finestre ci sono delle candele.
Nel soggiorno si intravede un albero illuminato.
La madre è in cucina vicino al bancone.
Ha raccolto i capelli in una coda di cavallo.
Schegge di ricordi natalizi mi affollano la mente.
Lei sistema un piccolo ornamento sull’albero.
Il nastro del pacchetto è rosso vivo, arricciato con la lama delle forbici.
Lui è in ginocchio, con la testa sotto i rami, cerca la presa elettrica.


Mauro Corona
Nel legno e nella pietra

Il 31 dicembre alla sera, in un calderone bollivano i fagioli e in un altro i resti del maiale.
Una volta lessati, cotiche, testa e scapole venivano messe assieme ai fagioli. E ce n’era per tutti.
E tutte le famiglie cucinavano qualcosa per gli altri, a Capodanno. Perché dopo la mezzanotte si andava a trovare la gente.
Entrare nelle case a bere e a mangiare era usanza antica. E una donna appena l’anno iniziava, la prima persona che guardava negli occhi doveva essere assolutamente un uomo.
Altrimenti portava male. E viceversa per l’uomo.
Si stava molto attenti a questa regola.
La sera che l’anno moriva, i fagioli diventavano oracoli. Mentre cuocevano nel calderone stavano sul fondo rassegnati.Ma molti, ribelli, come condannati a morte che si divincolano nell’attimo fatale venivano a galla e ballavano di continuo. Erano le anime delle persone morte durante l’anno, di coloro che non avrebbero più festeggiato.


Pearl Buck
Miniatura di Natale

Avevamo dei bambini in quella casa d’affitto, le nostre tre famiglie avevano dei bambini, e dove ci sono bambini deve esserci per forza il Natale.
Quell’anno eravamo disperatamente poveri; eravamo sempre poveri, ma quell’anno vi assicuro era disperato, perché la guerra ci aveva spogliato di tutto.
Ciò nonostante raggranellammo alcuni dollari cinesi, e a furia di mercanteggiare, riuscimmo a comperare una grossa gallina; trovammo anche gli ingredienti per fare una specie di budino natalizio, e comprammo alcuni dolci cinesi.
Poi, noi tre madri americane, mettemmo insieme le nostre misere risorse di ritagli e avanzi di stoffe e confezionammo bambole e animaletti; facemmo libri illustrati, con figure variopinte ritagliate da vecchie riviste e scrivemmo poesie e racconti a commento delle illustrazioni.
In una maniera o nell’altra, ci furono regalini per tutti gli altri.


Fermine Maxence
Neve

La neve è una poesia.
Una poesia di un candore smagliante.
In gennaio ricopre la metà settentrionale del Giappone. Lì dove viveva Yuko la neve era la poesia dell’inverno.
Contro il volere del padre, nei primi giorni del gennaio 1885 Yuko intraprese la carriera di poeta.
Decise di scrivere solo per celebrare la bellezza della neve.
Aveva trovato la propria strada.
Sapeva che quella vita sfolgorante non l’avrebbe mai stancato.
Nei giorni di neve prese l’abitudine di uscire assai presto di casa e incamminarsi verso la montagna.
Per comporre le poesie andava sempre nello stesso posto.


Dickens Charles
Canto di Natale

“ Non so che giorno è oggi, e non so nemmeno quanto tempo ho trascorso con gli spiriti. Non so più niente, sono come un
bambino, ma non m’importa… Almeno fossi un bambino! Evviva!”
Quella sfrenata manifestazione di gioia venne interrotta dalle campane della chiesa che intonarono la melodia più allegra che avesse mai udito.
Batti pure con forza, batacchio!
Din, don, din, don! Alleluia alleluia!
Scrooge si precipitò alla finestra, la spalancò e mise fuori la testa. Niente nebbia, nemmeno una nuvola, ma un freddo chiaro, intenso e vigoroso che faceva danzare il sangue nelle vene, unito alla luce dorata del sole, al cielo divino, all'aria limpida e frizzante, e all’allegro scampanio.
Alleluia, alleluia!
- Che giorno è oggi?- chiese Scrooge a un ragazzo vestito a festa, che forse era fermo in mezzo alla strada proprio per guardare lui.
- Cosa?- esclamò il giovane, sbalordito
- Che giorno è oggi, amico mio?
- Oggi? Ma è Natale!


Frank McCourt
Le ceneri di Angela

Mamma pensa che è già abbastanza difficile tenere acceso il fuoco per cucinare il pranzo di Natale, ma se questo pranzo devo andarlo a fare in ospedale bisognerà pure che mi lavi dalla testa ai piedi.
Non vuole dare a Suor Rita la soddisfazione di dire che in famiglia mi hanno trascurato o che sono maturo per un’altra malattia.
La mattina presto, prima della messa, fa bollire una pentola d’acqua e poco ci manca che mi ustioni il cranio. Poi mi strofina le orecchie e mi sfrega la pelle così vigorosamente che mi sento pizzicare tutto.
Due penny per prendere l’autobus fino all’ospedale può pure darmeli, ma dopo mi toccherà tornare a piedi il che in ogni caso mi farà bene perché avrò la pancia piena e a questo punto bisogna riaccendere il fuoco per la testa di maiale, il cavolo e le patate bianche farinose che ha rimediato ancora grazie alla San Vincenzo però giura che è l’ultima volta che festeggiamo la nascita di Nostro Signore con la testa di maiale, l’anno prossimo ci prendiamo un’oca o un bel prosciutto. E perché poi non dovremmo?
Che forse Limerick non va famosa in tutto il mondo per i suoi prosciutti?


Vladimir Nabokov
Il dono

Il Natale tedesco fu piovoso, i marciapiedi sembravano bucati per la gran quantità di pozzanghere,
dai vetri delle finestre trasparivano ottuse luci di alberelli, qua e là agli angoli delle strade, un Babbo Natale con il cappuccio rosso e gli occhi affamati distribuiva volantini pubblicitari.
Nelle vetrine di un grande magazzino qualche sciagurato aveva avuto l’idea di mettere su un tappeto di neve artificiale,
sotto la stella di Betlemme, due manichini vestiti da sciatore.

 

NEVE

Anne Bronte
Agnes Grey

Dirò soltanto che la neve aveva creato tanti ostacoli ai cavalli come alle macchine a vapore, che non giunsi alla fine del viaggio prima che fosse buio già da qualche ora, e che all’ultimo si scatenò una tempesta tanto accecante da rendere i pochi chilometri da O…e Horton Lodge un viaggio lungo e difficile.
Io sedevo rassegnata, con la neve fredda e pungente che mi entrava sotto la velata e cadeva in grembo, senza vedere nulla e chiedendomi come gli sventurati cavallo e cocchiere riuscissero, sia pure in qualche modo, a farsi strada; si trattava, è vero, di un avanzare faticoso, strisciante, a voler esser generosi.
Infine ci fermammo; e al richiamo del cocchiere, qualcuno aprì sui cardini cigolanti quelli che mi parvero i cancelli del parco. Allora avanzammo su una strada più agevole, e a tratti scorgevo una informe massa bianca, senza dubbio un albero coperto di neve, che penetrava nelle tenebre. Dopo parecchio tempo ci fermammo di nuovo, davanti al maestoso portico di una vasta dimora le cui finestre arrivavano fino a terra.
Mi alzai a fatica per la neve che mi copriva…


Andrea Vitali
Olive comprese

Uscendo dalla casa dei due Isnaghi il prete trovò ad accoglierlo un’aria immobile e fredda nella quale due precisi profumi sembravano incisi: quello del fumo di camini e stufe a legna e quello della neve.
Da un paio di giorni, in effetti, l’aria di neve teneva in scacco l’intero panorama. Il lago era immobile, di un grigio compatto, silenzioso, pesante e la montagna, nera, sembrava guardare in su, verso la massa densa delle nuvole che non si decidevano a sgravarsi.
Era un pò presto per una bella nevicata.
Fosse arrivata per davvero voleva dire avere neve tra i piedi fino a febbraio, forse marzo.


Pamuk Orhan
Instanbul

La neve era una parte essenziale dell’Istanbul della mia infanzia. Come alcuni bambini che non vedono l’ora che arrivi l'estate per poter viaggiare, anch’io non vedevo l’ora che nevicasse. Non per andare in strada a giocare con la neve, ma perchè la città mi pareva più “bella” ammantata di bianco; e non per la novità o la sorpresa che portava coprendo il fango, la sporcizia, le crepe e gli angoli dimenticati della città, ma per l’atmosfera di emergenza, anzi di calamità che creava.
Nonostante nevicasse tre o quattro giorni ogni anno e la città rimanesse imbiancata una settimana o poco più, la neve coglieva sempre di sorpresa gli abitanti di Istanbul, che si trovavano impreparati quasi fosse la prima volta; come avveniva in tempi di guerra o di catastrofi, si formavano subito code davanti al panettiere e, fatto ancor più importante, tutta la città si trovava riunita intorno allo stesso argomento, la neve, in uno sforzo di condivisione. E siccome la città e i suoi abitanti, staccandosi completamente dal resto del mondo, si chiudevano in se stessi, Istanbul, nei giorni invernali di neve, mi pareva più deserta, più vicina ai suoi vecchi giorni di favola.


Laura Mancinelli
La  lunga notte di Exilles

Aveva ragione. Nevicò per due notti e due giorni. Ininterrottamente e a larghi fiocchi asciutti, che si posavano pesantemente sugli strati precedenti ispessendoli e consolidandoli. In quei giorni e in quelle notti nessuno uscì di casa, chi aveva gli stivali per non rovinarli, chi non li aveva per non riempirsi gli zoccoli di neve. Gli unici percorsi che si vedevano segnati dalla neve per il frequente calpestio andavano dalla porta di casa alla stalla, ed erano i più brevi possibili.
I soli ad uscire erano i bambini. Anzi, stavano fuori tutto il giorno, incuranti del freddo che neppure sentivano, riscaldati come erano da frenetici giochi.
In quei due giorni il paese appartenne a loro, alle primitive slitte di legno che uno tirava con una fune mentre un altro stava seduto, alle palle e ai pupazzi di neve, in cui esprimevano la loro fantasia, ironica e talvolta perversa. Il paese risuonava dei richiami di madri irate, degli appelli disperati perchè rientrassero a spaccar legna o a fare qualche lavoretto: aiutare alla mungitura, rimuovere il bastone nella zagola per il burro, scavare un buco nell’orto per raccogliere un cavolo o una rapa per la cena.
Ma erano richiami senza risposta, e loro lo sapevano.


Cassola Carlo
Il taglio del bosco

Guglielmo fece tutto un sonno. Quando si svegliò rimase sorpreso del silenzio che regnava fuori.
Che fosse tornato il bel tempo? Accese un cerino e guardò l’orologio, che teneva appeso a un chiodo sopra il capo. Era ancora troppo presto per alzarsi.
Ma, dopo un quarto d’ora, non reggendo più, si alzò. Sebbene cercasse di fare piano, il ragazzo si svegliò.
“Che ore sono?” brontolò assonnato. “E’ ancora presto” rispose sottovoce Guglielmo. “Vado a dare un’occhiata fuori”. Ma la porta non cedeva alla pressione.
Guglielmo non si raccapezzava. “Che diamine succede?”. Finalmente, facendo appello a tutte le sue energie, riuscì a smuoverla. “Che diamine è successo?” brontolò ancora, e subito dopo si rese conto della natura dell’ostacolo.
Era neve. Albeggiava appena, ma Guglielmo fu in grado di constatare che durante la notte era caduta un’abbondante nevicata. C’era un palmo di neve alto sul suolo. Diresse a caso i suoi passi su quel morbido e cedevole tappeto. Non sapeva se essere contento o no, ma la novità finì per eccitarlo piacevolmente. Dimenticando gl’inconvenienti per la nevicata avrebbe finito col provocare, girò intorno al capanno, affondò le mani nella neve, scrollò un ramo di pino; rise quando sentì il gelo per il collo.


Peter Hoeg
Il senso di Smilla per la neve

C’è un freddo straordinario, 18 gradi Celsius sotto zero, e nevica, e nella lingua che non è più mia la neve è qanic, grossi cristalli quasi senza peso che cadono in grande quantità e coprono la terra con uno strato di bianco gelo polverizzato. L’oscurità di dicembre sale dalla fossa che sembra illimitata come il cielo che ci sovrasta.
In questa oscurità i nostri volti sono solo dischi di pallida luce, ma riesco ugualmente a percepire la disapprovazione del pastore e del becchino per le mie calze nere a rete e per i gemiti di Juliane, peggiorati dal fatto che stamattina ha preso l’Antabuse e ora affronta il dolore quasi sobria.
Pensano che io e lei non abbiamo rispettato il tempo né la tragica situazione.
La verità è che le calze e le pillole sono, ognuna a modo suo, un omaggio al freddo e a Esajas.


Erri De Luca
Sulla traccia di Nives

La neve è acqua bianca, come la carta, ci metti sopra quello che vuoi. Da scrittore non mi capita una carta completamente bianca. Prima di iniziarla, ho un avvio già pronto, da seguire, ho un sentiero, anche se non tracciato. Sento scrittori accusare un principio di vuoto  davanti al foglio bianco. Come lo volevano, già scritto? Tu puoi trovare la neve già scritta, seguire una traccia battuta, uno che scrive storie deve sempre stare in neve fresca. Diverse volte ho ringraziato che la neve fosse già scritta, segnata da un passaggio. Specialmente in discesa è bello sapere che stai mettendo i piedi sulla traccia che hai salito, che stai seguendo la linea giusta del ritorno.
Se invece il vento o una nevicata l’hanno cancellata, la carta bianca ti mette il dubbio che stai sbagliando strada. Sbagliarla significa che arrivi ad un punto morto, dove ci sono solo precipizi e devi risalire e ritrovare la giusta via di discesa. Risali e cerchi, con l’ansia di perdere le ore buone del giorno e rischiare di non trovare l’uscita.
Anche in discesa la montagna è un labirinto.


Yasunari Kawabata
Il paese delle nevi

Shimamura, ancora caldo di treno, non riuscì a rendersi conto di quanto realmente facesse freddo.
Questo tuttavia era il suo primo contatto con l’inverno del paese delle nevi e si sentiva un po’ intimidito.
- Fa sempre così freddo?
- Siamo pronti per l’inverno. Fa freddo specialmente la notte dopo una nevicata. Stanotte deve esserci una gelata.
- Così, vero?-
Shimamura guardò i delicati ghiaccioli lungo le grondaie mentre s’infilava in un taxi. Il bianco della neve faceva apparire le fonde grondaie ancora più profonde, come se ogni cosa fosse silenziosamente sprofondata nella terra.
- Qui fa freddo in modo diverso dagli altri posti, si vede subito. Notate la differenza quando toccate qualcosa.
- L’anno scorso si arrivò ai diciotto sotto zero.
- Cominciano ora le forti nevicate?
- Siamo appena all’inizio. Ne abbiamo avuto circa un trenta centimetri, ma si è già quasi tutta sciolta.
- Ah si è sciolta?
- Sì, ma ormai possiamo aspettarci una forte nevicata da un momento all’altro.
Si era al principio di dicembre.


Ekman Kerstin,
Sotto la neve

Uscirono dal capanno a passi pesanti.
Solo Jerf si muoveva silenzioso sulle sue suole di pelle di renna. Fuori, Torsson aspirò una boccata di neve e di aria ghiacciata. C’era forse un sorrisetto sulle labbra di Vuori, che lo stava guardando?
- Sì, siamo molto dispiaciuti per la disgrazia che è capitata al nostro maestro di scuola- disse Jerf quietamente.
- Ah dunque si è trattato di una disgrazia. A me era stato detto soltanto che era morto.
- Morto lo è di sicuro.
Le parole rimasero sospese nell’aria benché il vento ululasse come un demonio e cercasse di strappare a Jerf il berretto da sci.
- Mi domando se sia morto per il gelo oppure per il colpo- mormorò Vuori
- I colpi certe volte possono finire nel posto sbagliato, e ci sono punti del corpo umano che sono molto delicati- disse Jerf
- Certo è che quando l’abbiamo trovato sembrava congelato.

 

OROSCOPO LETTERARIO... ASPETTANDO IL FORUM DEL LIBRO 2012

ARIETE (21 marzo - 20 aprile)
Gli astrologi parlano di un 2012 in piena rincorsa, ma non a testa bassa come il vostro solito (sempre pronti a dare testate a chiunque e qualunque cosa), ma a testa alta, orgogliosamente, certi di una vittoria anche senza lotta. L’Ariete rischia di incontrare degli ostacoli, ma la sua ostinazione gli permetterà di venirne a capo perché sarà circondato da collaboratori che lo aiuteranno. L’Ariete ha in sé un indomabile desiderio di libertà ed indipendenza. Al primo segno dello Zodiaco è collegato il senso del “parlare”, ossia il passo che succede al pensiero ed è precedente all’azione.
Consiglio di lettura: Il diario perduto di Jane Austen di J. Syrie
“Quelli che leggono i miei romanzi potrebbero chiedersi come può una donna, che nella sua vita non è mai stata nemmeno corteggiata e che non ha mai provato la meravigliosa sintonia tra anima e corpo che unisce due persone, pretendere di scrivere sull’amore. La mia risposta è che una mente astuta e un occhio attento, uniti a una fervida immaginazione, possono creare qualsiasi tipo di illusione letteraria, perché le parole possono tutto. La verità è che ho conosciuto un uomo che mi ha fatto provare realmente le profonde emozioni che descrivevo nei miei libri, che ha risvegliato la mia anima, da lungo tempo ormai sopita. Di quest’uomo non ho mai potuto parlare, ho dovuto relegare il mio amore per lui in un angolo nascosto del mio cuore e bandirlo per sempre. Io, però, non l’ho dimenticato.” E se la vita di Jane Austen non fossa stata esattamente come l’hanno raccontata? Se dietro ai personaggi indimenticabili di Mr. Darcy, Willoughby ed Edward Ferrars si nascondesse un uomo reale? C’è un solo scritto che riporta questa storia mai dimenticata, per Jane fu il più intimo, il più vero: il suo diario, le sue parole.

TORO (21 aprile – 20 maggio)
Ciò che meglio caratterizza un Toro è il suo amore per la vita in generale. Tutto ciò che gli procura piacere va colto al volo. Come ogni epicureo che si rispetti il Toro è un grande buongustaio e non sa trattenersi. Nel 2012 avrà tutte le risposte che aspetta contemporaneamente e la mole di lavoro lo scoraggerà un po’. Continuando ad essere metodico, controllerà perfettamente la situazione. La situazione finanziaria andrà meglio e ne approfitterà pienamente. Al primo segno di Terra è collegato il “riflettere”. Il Toro, infatti, è un segno non facile agli impulsi, ponderato e assennato, che affronta le cose con la massima tranquillità. Sa valutare con attenzione le impressioni che riceve da una persona o da una situazione, ma incontra problemi a cogliere le suggestioni dell’infinito, le sottigliezze.
Consiglio di lettura: Chef per un giorno
Due antipasti, due primi piatti, due secondi e due dessert: questa è la sfida degli Chef per un giorno, personaggi del mondo dello spettacolo che affrontano i fornelli e sfidano il giudizio del pubblico e il “tavolo dei critici”. Ora il verdetto passa ai lettori: a cavallo tra ricettario di cucina e racconto culinario, attraverso la biografia gastronomica dei vari personaggi, il libro permette agli appassionati di cucina di costruire un menu sulla base della propria storia personale, o ispirato proprio dalle ricette dei vip che hanno raccolto la sfida: “Stinco di Santo con Patate Carogne” di Carlo Lucarelli, “Melunera” di Morgan! Inoltre le ricette di Lella Costa, Natasha Stefanenko, Nicole Grimaudo, Patrizio Roversi, Enrico Silvestrin, Amanda Sandrelli, Fiona May, Lucia Rizzi, Max Tortora e Marina Massinori.

GEMELLI (21 maggio – 21 giugno)
Sa farsi ascoltare e ha anche una grande capacità di ascolto (Senso dell’Udito). Il Gemelli saprà imporsi al momento di una scelta importante, la mole di lavoro che non spaventerà, motiverà e darà il coraggio di mettercela tutta. Parallelamente si alimenteranno nuovi interessi. L’accanimento e la perseveranza dimostrata nell’affrontare le diverse opportunità, saranno ricompensati. A questo segno d’Aria è collegato il senso dell’ “andare”, la capacità di evolvere e progredire, la costante ricerca di persone, ambienti e situazioni nuove. I gemelli per il 2012 sentono la necessità di rapporti stimolanti sul piano intellettuale.
Consiglio di lettura: Tourbook. Fabrizio De André 1975-98 a cura di E. Valdini
Le tournée di Fabrizio De André con immagini, schizzi originali per l’allestimento dei palchi, giornali dell’epoca, tourbook e documenti originali di ogni tour. Un racconto illustrato in cui spiccano le voci di coloro che palco dopo palco hanno collaborato con lui in oltre vent’anni di concerti, di musica da ascoltare. Pepi Morgia, regista degli spettacoli di De André dal 1975 al 1998, racconta il viaggio in ogni palco e la curatrice scopre i nomi, luoghi e aneddoti di ogni data: nasce il racconto di ogni tour che a sua volta si lega ai ricordi di personaggi di spicco della cultura italiana.

CANCRO (22 giugno – 22 luglio)
È spesso difficile far uscire un Cancro dalla sua tana,piuttosto casalingo, ma può sorprendere mostrando alcuni lati nascosti della sua personalità. Il Cancro privilegia la famiglia, è la sua fonte di energia ed è emotivo e ipersensibile. Comprende le persone a fondo. Immaginativo e sognatore, ama le novità: nel 2012 non rinuncerà all’occasione di impegnarsi in qualche campo che è totalmente sconosciuto! La vista è il senso collegato a questo segno d’Acqua che vive di sensazioni e di umori, lasciandosi guidare unicamente dal cuore e dall’istinto.
Consiglio di lettura: L’isola sotto il mare di I. Allende
Zarité Sedella, detta Tété, ultima incarnazione della donan come la vuole Isabel, è fatta di passione, di sensazioni e di umori, è guidata unicamente dal cuore e dall’istinto. 1770, Santo Domingo, ora Haiti. Tété ha nove anni quando il giovane francese Toulouse Valmorain la compra perché si occupi delle faccende di casa. Intorno, i campi di canna da zucchero, la calura sfibrante dell’isola, il lavoro degli schiavi. Tété impara presto come è fatto quel mondo, vede: la violenza dei padroni, l’ansia di libertà, i vincoli preziosi della solidarietà, ma presto comincia la battaglia per la dignità, il futuro, per l’affrancamento degli schiavi. È una battaglia lenta che si mescola al destarsi di amori e passioni, all’annodarsi di relazioni e alleanze, nelle quali, Tété, spicca bella, coraggiosa e consapevole, un’eroina modernissima che ci rammenta la fede nella libertà e la dignità delle passioni.

LEONE (23 luglio – 23 agosto)
A questo segno di Fuoco è riconducibile l’udito, un senso che i Leoni, pur generosissimi, devono sviluppare con cura, dato che in genere fanno fatica ad ascoltare gli altri. I Leone ritengono che la loro opinione sia quella giusta e non si rendono conto che è meglio riflettere a lungo e osservare il mondo con umiltà. Ma è pur vero che al Leone è delegatala funzione di educatore, dunque l’udito gli è necessario per poter ascoltare se quanto di ciò che ha insegnato è recepito dagli allievi, che anche nel 2012 non mancheranno. Per alcuni l’anno passato è stato faticoso; ora avranno modo di tirare il fiato. Se lavoreranno alle dipendenze, si sentiranno gratificati, e non sarà difficile trovare una nuova occupazione.
Consiglio di lettura: Moby Dick. Audiolibro di H. Melville
Storia di mare e d’avventura da ascoltare completamente coinvolti dalla voce di Ismaele (l’attore Piero Baldini) che racconta tutto quello che è capitato a lui, al capitano Achab e all’equipaggio del Pequod nell’ossessiva caccia alla Balena Bianca per i mari del mondo. L’ascolto del romanzo – ritradotto integralmente da Alberto Rossati con un’attenzione particolare alle esigenze della musicalità e dicibilità di un testo che per lo più presenta la densità della scrittura poetica – provoca un disorientamento analogo al sentirsi smarrito tra le profonde oscurità dell’oceano, che insegna a cogliere le incertezze del destino, con umiltà.

VERGINE ( 24 agosto – 23 settembre)
Il secondo segno di Terra dello Zodiaco è collegato al senso dell’agire, per la sua capacità di analizzare con precisione la realtà circostante, catalogandola al fine di organizzare un supporto proficuo su cui operare. Segno dell’analisi, dell’operosità e della precisione, spesso rischia di cadere nell’eccesso, perché l’analisi è trasferita anche su persone e su sentimenti: quest’anno particolarmente, attenzione ai sentimenti!
Consiglio di lettura: L’arte di camminare. Consigli per partire con il piede giusto di L. Gianotti
In fondo, non serve nessuna arte per camminare. L’abbiamo imparata da piccoli. Basta alzarsi, uscire di casa, e mettersi in marcia. Ma per farlo in modo cosciente, occorre qualche premessa, qualche attenzione. L’arte del camminare è rivolto sia a chi non ha mai camminato, sia a chi trascorre il tempo libero camminando e vuole aggiungere nuove conoscenze. Come preparare uno zaino? Usare o non usare i bastoncini? È possibile dormire serenamente sotto le stelle? Che cos’è la meditazione camminata? Domande cui l’autore risponde in modo chiaro ed esauriente. Prefazione di Wu Ming 2.

BILANCIA  (24 settembre – 23 ottobre)
A questo segno d’Aria governato da Venere appartiene il tatto. I suoi nativi sono molto bravi a creare un clima di armonia e di scambio comunicativo. Il tatto in questo 2012 sarà visto anche come desiderio di toccare qualcosa o qualcuno senza spaventarsi all’idea di vivere in maniera intima e profonda i rapporti personali, con la tendenza a costruire rapporti sentimentali molto romantici. Nel 2012 il senso di insofferenza per la quotidianità, cambierà il modo di lavorare e tenderà a scaricarsi di certe responsabilità.
Consiglio di lettura: Toccare i libri. Una passeggiata romantica e sensuale tra le pagine di J. Marchamalo
Libri. Da leggere, da sfogliare, da desiderare e da possedere, da perdere, prestare e regalare. Libri da contare, da sistemare, da classificare. Amici per una vita o incontri di un solo giorno, ricordati per sempre o subito dimenticati; libri illeggibili, letti e riletti…Nella passeggiata lungo queste pagine incontriamo tanti lettori illustri, curiosiamo nelle loro biblioteche e veniamo a sapere delle loro buone o cattive abitudini di lettura, talvolta così simili alle nostre.

SCORPIONE (24 ottobre – 22 novembre)
Lo Scorpione è collegato all’olfatto, ha un fiuto fuori dal comune, capace di captare l’emotività dentro e attorno il suo territorio, ma anche di schivare gli ostacoli, perché li avverte lontano un miglio. L’odorato identifica inoltre l’essenza delle cose, e si impone oltrepassando le passioni e gli impulsi. Il 2012 offre possibilità di perfezionare la conoscenza di una materia che interessa particolarmente o che può tornare utile e occasioni di fare viaggi anche lunghi.
Consiglio di lettura: Il profumo delle foglie di limone di C. Sánchez
Spagna, Costa Blanca. Il sole è ancora molto caldo nonostante sia già settembre inoltrato. Per le strade non c’è nessuno e l’aria è pervasa da un intenso profumo di limoni che arriva fino al mare. È qui che Sandra, trentenne in crisi, ha cercato rifugio: non ha un lavoro, è in rotta con i genitori, è incinta di un uomo che non è sicura di amare. È confusa e si sente sola ed è alla disperata ricerca di una bussola per la sua vita. Fino al giorno in cui incontra occhi comprensivi e gentili: si tratta di Fredrik e Karin Christensen, una coppia di amabili vecchietti. Sono come i nonni che non ha mai avuto. Momento dopo momento, le regalano una tenera amicizia, le presentano persone affascinanti, come Alberto, e la accolgono nella grande villa circondata da splendidi fiori. Un paradiso. Ma in realtà si tratta dell’inferno, che il suo fiuto andrà via via scoprendo.

SAGITTARIO (23 Novembre - 21 Dicembre)
Questo 2°segno di Fuoco è associato al senso del dormire. I suoi nativi sono sportivi nati, amanti della natura e della vita all'aria aperta,chiedono troppo a se stessi e hanno bisogno di rigenerare corpo e mente attraverso il riposo. Il dormire è qui anche inteso come un rapporto più intimo con il proprio inconscio. Nel 2012 usate molta diplomazia ed evitate le prese di posizione troppo rigide.
Consiglio di lettura: Allo specchio dei sogni. Immaginario e psicoanalisi di N. Fabre
Gli eroi con i quali ci identifichiamo, gli scrittori che hanno saputo suscitare in noi le emozioni che non sapevamo di poter provare, i film, le poesie, i romanzi d'infanzia che abbiamo amato e poi dimenticato… tutto ciò costituisce il terreno in cui affonda le sue radici l'immaginario: la via d'accesso privilegiata all'inconscio, la forza creatrice che genera modalità particolari di rapportarsi al mondo e a se stessi.

CAPRICORNO (22 Dicembre - 20 Gennaio)
Il senso della vista e del dolore sono collegati a questo 3°e ultimo segno di Terra, capace di difendere il rispetto dei diritti altrui, e tutto ciò che appare buono, onesto e vero. Segno delle ambizioni da realizzare in grandi opere, della maturità raggiunta. Gli piace conquistare nuove vette, e ha bisogno di edificare qualcosa di imponente che manifesti apertamente la riuscita, alla vista di tutti. Nel 2012 vivrete un'autentica rivoluzione personale. Cambierete ambiente e amicizie, coltiverete interessi nuovi.
Consiglio di lettura: Le donne che leggono sono pericolose di S. Bollmann S. e F. Heidenreich
Dipinti, i disegni e le fotografie per la storia della lettura femminile dal Medioevo al XXI secolo. Sono stati necessari secoli perché alle donne venisse permesso di leggere ciò che volevano. Le donne che leggono sono pericolose perché si sono appropriate (e forse lo fanno ancora oggi) di conoscenze ed esperienze originariamente non destinate a loro. Queste immagini di donne che leggono sono piene di bellezza, grazia ed espressività offerte alla nostra compiaciuta vista.

ACQUARIO (21 Gennaio - 18 Febbraio)
A questo segno d'aria è collegato il gusto, che permette di avvertire il sapore dei cibi. L'Acquario, deve imparare a essere selettivo e a coltivare l'arte della pazienza. Il suo possibilismo lo espone al rischio di non saper scegliere gli elementi più adatti a un determinato scopo. Nei prossimi mesi attenzione a non lasciarsi coinvolgere in progetti idealistici con poche basi pratiche e da esperienze e persone poco chiare.
Consiglio di lettura: Il sexy club del cioccolato di C. Matthews
Quando problemi sentimentali chiamano, il cioccolato risponde. Questo è il segreto di un quartetto di amiche londinesi che, come antidoto alle delusioni amorose, si riunisce nella migliore pasticceria della città per mangiare cioccolatini prelibati e trovare insieme le soluzioni alle più disparate questioni di cuore. "Il sexy club del cioccolato"è una società che si riunisce quando qualcuna delle sue aderenti invia alle altre un SMS con su scritto "emergenza cioccolato".

PESCI (22 Febbraio - 20 Marzo)
Segno d'Acqua legato al senso del gusto della vita. I Pesci sono molto mutevoli, paragonabili a spugne che assorbono le caratteristiche dell'ambiente e delle persone che li circondano. Sanno sdrammatizzare, ridimensionando la tendenza ad amplificare, spesso deformandoli, gli eventi della vita. Il 2012 è un periodo di leggerezza e spensieratezza. Possibilità di stringere ottime amicizie, o di allargare la cerchia delle proprie conoscenze con persone di valore.
Consiglio di lettura: Le dieci donne del cavaliere di A. Paasilinna
La vecchiaia, si sa, arriva infida per tutti, anche per Rauno Rämekorpi, un vero self-made man, da boscaiolo a capitano di industria, che tra montagne di fiori e foie gras festeggia, con una festa da vero buongustaio, il sessantesimo compleanno e la nomina a Cavaliere del Lavoro. Ahimè la consorte Annikki soffre di asma da polline, e al devoto marito, terminata la festa, non resta che portare tutto in discarica. Ma perché sprecare tanto bendidio? gli fa presente Seppo Sorjonen, il tassista tentatore ingaggiato per la missione. Non serve altro a risvegliare l'ardore del sempreverde dongiovanni in frac, che bouquet alla mano, champagne sottobraccio e in bocca promesse, promesse, promesse, parte alla mirabolante conquista di dolci alcove per tutta la città, con gustose leccornie.

PERSONAGGI LETTERARI

Alessandro Manzoni
I PROMESSI SPOSI

La Monaca di Monza
Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni, faceva a prima vista un'impressione di bellezza, ma d'una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta. Un velo nero, sospeso e stirato orizzontalmente sulla testa, cadeva dalle due parti, discosto alquanto dal viso; sotto il velo, una bianchissima benda di lino cingeva, fino al mezzo, una fronte di diversa, ma non d'inferiore bianchezza; un'altra benda a pieghe circondava il viso, e terminava sotto il mento in un soggolo, che si stendeva alquanto sul petto, a coprire lo scollo d'un nero saio. Ma quella fronte si raggrinzava spesso, come per una contrazione dolorosa; e allora due sopraccigli neri si ravvicinavano, con un rapido movimento. Due occhi, neri neri anch'essi, si fissavano talora in viso alle persone, con un'investigazione superba; talora si chinavano in fretta, come per cercare un nascondiglio; in certi momenti, un attento osservatore avrebbe argomentato che chiedessero affetto, corrispondenza, pietà; altre volte avrebbe creduto coglierci la rivelazione istantanea d'un odio inveterato e compresso, un non so che di minaccioso e di feroce: quando restavano immobili e fissi senza attenzione, chi ci avrebbe immaginata una svogliatezza orgogliosa, chi avrebbe potuto sospettarci il travaglio d'un pensiero nascosto, d'una preoccupazione familiare all'animo, e più forte su quello che gli oggetti circostanti. Le gote pallidissime scendevano con un contorno delicato e grazioso, ma alterato e reso mancante da una lenta estenuazione. Le labbra, quantunque appena tinte d'un roseo sbiadito, pure, spiccavano in quel pallore: i loro moti erano, come quelli degli occhi, subitanei, vivi, pieni d'espressione e di mistero. La grandezza ben formata della persona scompariva in un certo abbandono del portamento, o compariva sfigurata in certe mosse repentine, irregolari e troppo risolute per una donna, non che per una monaca. Nel vestire stesso c'era qua e là qualcosa di studiato o di negletto, che annunziava una monaca singolare: la vita era attillata con una certa cura secolaresca, e dalla benda usciva sur una tempia una ciocchettina di neri capelli; cosa che dimostrava o dimenticanza o disprezzo della regola che prescriveva di tenerli sempre corti, da quando erano stati tagliati, nella cerimonia solenne del vestimento.


Agatha Christie
AUTOBIOGRAFIA

Miss Marple
"Miss Marple si intrufolò così silenziosamente nella mia vita che quasi non mi accorsi del suo arrivo. Scrissi una serie di racconti per una rivista, immaginando che in un villaggio sei persone si riunissero una volta alla settimana per raccontare qualche caso rimasto insoluto. Iniziai con Miss Jane Marple, un tipo di anziana signora che avevo visto frequentemente in casa di zia-nonnina, a Ealing, e simile a tante altre incontrate nei vari villaggi dei miei soggiorni giovanili. Miss Marple era molto più zitellesca e ansiosa di zia-nonnina, ma aveva una cosa in comune con lei: nonostante la sua cordialità si aspettava sempre il peggio da tutto e da tutti e le sue previsioni si dimostravano quasi sempre esatte..." Così la Christie nella sua Autobiografia parla del suo personaggio forse meglio riuscito.


Omero
ODISSEA

Ulisse
Musa, quell'uom di multiforme ingegno
Dimmi, che molto errò, poich'ebbe a terra
Gittate d'Ilïòn le sacre torri;
Che città vide molte, e delle genti
L'indol conobbe; che sovr'esso il mare
Molti dentro del cor sofferse affanni,
Mentre a guardar la cara vita intende,
E i suoi compagni a ricondur: ma indarno
Ricondur desïava i suoi compagni,
Ché delle colpe lor tutti periro.
Stolti! che osaro vïolare i sacri
Al Sole Iperïon candidi buoi
Con empio dente, ed irritâro il nume,
Che del ritorno il dì lor non addusse.
Deh! parte almen di sì ammirande cose
Narra anco a noi, di Giove figlia e diva.

Già tutti i Greci, che la nera Parca
Rapiti non avea, ne' loro alberghi
Fuor dell'arme sedeano e fuor dell'onde;
Sol dal suo regno e dalla casta donna
Rimanea lungi Ulisse: il ritenea
Nel cavo sen di solitarie grotte
La bella venerabile Calipso,
Che unirsi a lui di maritali nodi
Bramava pur, ninfa quantunque e diva.
E poiché giunse al fin, volvendo gli anni,
La destinata dagli dèi stagione
Del suo ritorno, in Itaca, novelle
Tra i fidi amici ancor pene durava.
Tutti pietà ne risentìan gli eterni,
Salvo Nettuno, in cui l'antico sdegno
Prima non si stancò, che alla sua terra
Venuto fosse il pellegrino illustre.


Dante Alighieri
VITA NUOVA

Beatrice
Nove fiate già appresso lo mio nascimento era tornato lo cielo de la luce quasi a uno medesimo punto, quanto a la sua propria girazione, quando a li miei occhi apparve prima la gloriosa donna de la mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice li quali non sapeano che si chiamare.
 Ella era in questa vita già stata tanto, che ne lo suo tempo lo cielo stellato era mosso verso la parte d'oriente de le dodici parti l'una d'un grado, sì che quasi dal principio del suo anno nono apparve a me, ed io la vidi quasi da la fine del mio nono.
 Apparve vestita di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno, cinta e ornata a la guisa che a la sua giovanissima etade si convenia.
 In quello punto dico veracemente che lo spirito de la vita, lo quale dimora ne la secretissima camera de lo cuore, cominciò a tremare sì fortemente, che apparia ne li menimi polsi orribilmente; e tremando disse queste parole: "Ecce deus fortior me, qui veniens dominabitur michi".
 In quello punto lo spirito animale, lo quale dimora ne l'alta camera ne la quale tutti li spiriti sensitivi portano le loro percezioni, si cominciò a maravigliare molto, e parlando spezialmente a li spiriti del viso, sì disse queste parole: "Apparuit iam beatitudo vestra".
 In quello punto lo spirito naturale, lo quale dimora in quella parte ove si ministra lo nutrimento nostro, cominciò a piangere, e piangendo disse queste parole: "Heu miser, quia frequenter impeditus ero deinceps!".
 D'allora innanzi dico che Amore segnoreggiò la mia anima, la quale fu sì tosto a lui disponsata, e cominciò a prendere sopra me tanta sicurtade e tanta signoria per la vertù che li dava la mia imaginazione, che me convenia fare tutti li suoi piaceri compiutamente.


Shakespeare
ROMEO E GIULIETTA

Giulietta
ROMEO - Oh, ch’ella insegna perfino alle torce
come splendere di più viva luce!
Par che sul buio volto della notte
ella brilli come una gemma rara
pendente dall’orecchio d’una Etiope.
Bellezza troppo ricca per usarne,
troppo cara e preziosa per la terra!
Ella spicca fra queste sue compagne
come spicca una nivea colomba
in mezzo ad uno stormo di cornacchie.
Finito questo ballo,
osserverò dove s’andrà a posare
e, toccando la sua, farò beata
questa mia rozza mano…
Ha mai amato il mio cuore finora?…
Se dice sì, occhi miei, sbugiardatelo,
perch’io non ho mai visto
vera beltà prima di questa notte.


Goldoni
LA LOCANDIERA

Mirandolina
CAVALIERE :
Eh! So io quel che fo. Colle donne? Alla larga. Costei sarebbe una di quelle che potrebbero farmi cascare più delle altre. Quella verità, quella scioltezza di dire, è cosa poco comune. Ha un non so che di estraordinario; ma non per questo mi lascerei innamorare.
Per un poco di divertimento, mi fermerei più tosto con questa che con un'altra. Ma per fare all'amore? Per perdere la libertà? Non vi è pericolo. Pazzi, pazzi quelli che s'innamorano
delle donne.


Manzoni
ADELCHI

Ermengarda
CORO:
Sparsa le trecce morbide
Sull'affannoso petto,
Lenta le palme, e rorida
Di morte il bianco aspetto,
Giace la pia, col tremolo
Sguardo cercando il ciel.


Miguel Cervantes Saaveda
DON CHISCIOTTE
 
Don Chisciotte
Stabilito con tanta sua soddisfazione il nome al cavallo, s'applicò fervorosamente a determinare il proprio, nel che spese altri otto giorni, a capo dei quali si chiamò don Chisciotte. Da ciò, come fu detto già prima, trassero argomento gli autori di questa verissima storia, che debba essa chiamarsi indubitamente Chisciada e non Chesada, come ad altri piacque denominarla. Si risovvenne il nostro futuro eroe che il valoroso Amadigi non erasi limitato a chiamarsi Amadigi semplicemente, ma che affibbiato vi aveva il nome del regno e della patria, per sua più grande celebrità, chiamandosi Amadigi di Gaula. Dietro sì autorevole esempio, come buon cavaliere decise d'accoppiare al proprio nome quello pur della patria, e chiamarsi don Chisciotte della Mancia, con che, a parer suo, spiegava più a vivo il lignaggio e la patria, e davale onore col prendere da lei il soprannome.
Rese di già lucide l'arme sue, fatta del morione una celata, stabilito il nome al ronzino, e confermato il proprio, si persuase che altro a lui non mancasse se non se una dama di cui dichiararsi amoroso. Il cavaliere errante senza innamoramento è come arbore spoglio di fronde e privo di frutta; è come corpo senz'anima, andava dicendo egli a sé stesso.


Alessandro Manzoni
I PROMESSI SPOSI

Don Abbondio
Don Abbondio (il lettore se n'è già avveduto) non era nato con un cuor di leone. Ma, fin da' primi suoi anni, aveva dovuto comprendere che la peggior condizione, a que' tempi, era quella d'un animale senza artigli e senza zanne, e che pure non si sentisse inclinazione d'esser divorato. La forza legale non proteggeva in alcun conto l'uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse altri mezzi di far paura altrui.
[…]
Il nostro Abbondio non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s'era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d'essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. Aveva quindi, assai di buon grado, ubbidito ai parenti, che lo vollero prete. Per dir la verità, non aveva gran fatto pensato agli obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si dedicava: procacciarsi di che vivere con qualche agio, e mettersi in una classe riverita e forte, gli eran sembrate due ragioni più che sufficienti per una tale scelta. Ma una classe qualunque non protegge un individuo, non lo assicura, che fino a un certo segno: nessuna lo dispensa dal farsi un suo sistema particolare. Don Abbondio, assorbito continuamente ne' pensieri della propria quiete, non si curava di que' vantaggi, per ottenere i quali facesse bisogno d'adoperarsi molto, o d'arrischiarsi un poco. Il suo sistema consisteva principalmente nello scansar tutti i contrasti, e nel cedere, in quelli che non poteva scansare. Neutralità disarmata in tutte le guerre che scoppiavano intorno a lui, dalle contese, allora frequentissime, tra il clero e le podestà laiche, tra il militare e il civile, tra nobili e nobili, fino alle questioni tra due contadini, nate da una parola, e decise coi pugni, o con le coltellate. Se si trovava assolutamente costretto a prender parte tra due contendenti, stava col più forte, sempre però alla retroguardia, e procurando di far vedere all'altro ch'egli non gli era volontariamente nemico: pareva che gli dicesse: ma perché non avete saputo esser voi il più forte? ch'io mi sarei messo dalla vostra parte. Stando alla larga da' prepotenti, dissimulando le loro soverchierie passeggiere e capricciose, corrispondendo con sommissioni a quelle che venissero da un'intenzione più seria e più meditata, costringendo, a forza d'inchini e di rispetto gioviale, anche i più burberi e sdegnosi, a fargli un sorriso, quando gl'incontrava per la strada, il pover'uomo era riuscito a passare i sessant'anni, senza gran burrasche.


Stefano Benni
BAR SPORT

La Luisona
Al bar Sport non si mangia quasi mai. C’è una bacheca con delle paste, ma è puramente coreografica. Sono paste ornamentali, spesso veri e propri pezzi d’artigianato. Sono lì da anni, tanto che i clienti abituali, ormai, le conoscono una per una. Entrando dicono: “La meringa è un po’ sciupata, oggi. Sarà il caldo”. Oppure: “E’ ora di dar al polvere al krapfen”. Solo, qualche volta, il cliente occasionale osa avvicinarsi al sacrario. Una volta, ad esempio, entrò un rappresentante di Milano. Aprì la bacheca e si mise in bocca una pastona bianca e nera, con sopra una spruzzata di quella bellissima granella in duralluminio che sola contraddistingue la pasta veramente cattiva. Subito nel bar si sparse la voce: “Hanno mangiato la Luisona!”. La Luisona era la decana delle paste, e si trovava nella bacheca dal 1959. Guardando il colore della sua crema i vecchi riuscivano a trarre le previsioni del tempo. La sua scomparsa fu un colpo durissimo per tutti. Il rappresentante fu invitato a uscire nel generale disprezzo. Nessuno lo toccò, perché il suo gesto malvagio conteneva già in sé la più tremenda delle punizioni. Infatti fu trovato appena un’ora dopo, nella toilette di un autogrill di Modena, in preda ad atroci dolori. La Luisona si era vendicata. La particolarità di queste paste è infatti la non facile digeribilità. Quando la pasta viene ingerita, per prima cosa la granella buca l’esofago. Poi, quando la pasta arriva al fegato, questo la analizza e rinuncia, spostandosi di un colpo a sinistra e lasciandola passare. La pasta, ancora intera, percorre l’intestino e cade a terra intatta dopo pochi secondi. Se la barista non ha visto niente, potete anche rimetterla nella bacheca e andarvene.

 

POESIA

Antonio Porta (1985)

Per diventare albero
fa uscire le gemme dal muschio
occorre un terreno più morbido e cauto
e senza veleni. Per questo,
compagno che ascolti, conserva
queste parole, segnali del dove
del come dalla morte che incrosta
ci libera la pioggia che increspa.
E’ solo il senso che affermo :
ha forma di albero informe
un melo, un arancio più scuro.
Io sono una ragazza di lucida scorza
di foglie che annusano il seme
che bevo.
Non ho né principio né fine
ch’io possa vedere o palpare
mi puoi annusare, odorare,
svanire.


Patrizia Valduga (2004)

Chi è libero dimentica e va via,
congeda con un bacio ogni minuto.
Tu resti in mia balia
E di quanto è accaduto e deceduto.
Trasfondi, trasfigurami, poetizza,
trasponiti, esorcizza…
Sono il principio, tu fatti la fine :
sono un medico senza medicine.


Corrado Govoni

La pioggia è il tuo vestito.
Il fango è le tue scarpe.
La tua pezzuola è il vento.
Ma il sole è il tuo sorriso e la tua bocca
e la notte dei fieni i tuoi capelli.
Ma il tuo sorriso e la tua calda pelle
è il fuoco della terra e delle stelle.


Mario Luzi (2004)

Vola alta parola, cresci in profondità,
tocca nadir e zenit della tua significazione,
giacchè talvolta lo puoi
-sogno che la cosa esclami
nel buio della mente-
però non separarti
da me, non arrivare,
ti prego, a quel celestiale appuntamento
da sola, senza il caldo di me
o almeno il mio ricordo, sii
luce, non disabitata trasparenza…
la cosa e la sua anima?
o la mia e la sua sofferenza?


Umberto Fiori (2002)

Tu mi hai insegnato tutto.
Insegnami a morire, bella vista.
A scomparire.
Come tu sei scomparsa.
Fa' che non sappia che cos'è
chiamarsi:
essere Piera, Gustavo,
nave, mare, muretto.
Insegnami a mancare,
a tornare invisibile, com'era
l'occhio in cui ti ammiravi.


Fabrizio de Andrè( 1990)

Vanno,  vengono
ogni tanto si fermano
e quando si fermano
sono nere come il corvo
sembra che ti guardano con malocchio
Certe volte sono bianche, e corrono
e prendono la forma dell'airone
o della pecora
o di qualche altra bestia
ma questo lo vedono meglio i bambini
che giocano a corrergli dietro per tanti metri
Certe volte ti avvisano con rumore
prima di arrivare
e la terra si trema
e gli animali si stanno zitti
certe volte ti avvisano con rumore.
Vanno, vengono, ritornano
e magari si fermano tanti giorni
che non vedi più il sole e le stelle
e ti sembra di non conoscere più
il posto dove stai
Vanno, vengono
per una vera mille sono finte
e si mettono lì tra noi e il cielo
per lasciarci soltanto una voglia di pioggia.


Ungaretti Giuseppe (1947)

Cessate di uccidere i morti,
non gridate più, non gridate
se li volete ancora udire,
se sperate di non perire.
Hanno l’impercettibile sussurro,
non fanno più rumore
del crescere dell’erba,
lieta dove non passa l’uomo


Elisa Biagini (2004)

Tra noi la voce non
conduce e arriva, come
phon dentro l’acqua,
ma si ferma come
d’interruttore,
acceso o spento
a casaccio. Noi due
siamo un paese
sotto embargo,
che vive di parentesi e
silenzi, di blackouts.
sì che quando la luce poi,
ritorna, noi si è già
dimenticati cosa dire


Marcello Fois (2006)

L’ultima volta che sono rinato…
sono tornato dove ognuno vuol tornare:
al calore del buio primigenio dove
niente è stato,
ma tutto sta per essere…domani
forse…domani…

 

POESIA IN MUSICA

Fabrizio De Andrè
La canzone di Marinella

Questa di Marinella è la storia vera
che scivolò nel fiume a primavera
ma il vento che la vide così bella
dal fiume la portò sopra a una stella

sola senza il ricordo di un dolore
vivevi senza il sogno di un amore
ma un re senza corona e senza scorta
bussò tre volte un giorno alla sua porta

bianco come la luna il suo cappello
come l'amore rosso il suo mantello
tu lo seguisti senza una ragione
come un ragazzo segue un aquilone

e c'era il sole e avevi gli occhi belli
lui ti baciò le labbra ed i capelli
c'era la luna e avevi gli occhi stanchi
lui pose la mano sui tuoi fianchi

furono baci furono sorrisi
poi furono soltanto i fiordalisi
che videro con gli occhi delle stelle
fremere al vento e ai baci la tua pelle

dicono poi che mentre ritornavi
nel fiume chissà come scivolavi
e lui che non ti volle creder morta
bussò cent'anni ancora alla tua porta

questa è la tua canzone Marinella
che sei volata in cielo su una stella
e come tutte le più belle cose
vivesti solo un giorno , come le rose

e come tutte le più belle cose
vivesti solo un giorno come le rose.


Fabrizio De Andrè
Canzone dell’amore perduto

Ricordi sbocciavan le viole
con le nostre parole
"Non ci lasceremo mai, mai e poi mai",

vorrei dirti ora le stesse cose
ma come fan presto, amore, ad appassire le rose
così per noi

l'amore che strappa i capelli è perduto ormai,
non resta che qualche svogliata carezza
e un po' di tenerezza.

E quando ti troverai in mano
quei fiori appassiti al sole
di un aprile ormai lontano,
li rimpiangerai

ma sarà la prima che incontri per strada
che tu coprirai d'oro per un bacio mai dato,
per un amore nuovo.

E sarà la prima che incontri per strada
che tu coprirai d'oro per un bacio mai dato,
per un amore nuovo.


Fabrizio De Andrè
Smisurata preghiera

Alta sui naufragi
dai belvedere delle torri
china e distante sugli elementi del disastro
dalle cose che accadono al disopra delle parole
celebrative del nulla
lungo un facile vento
di sazietà di impunità

Sullo scandalo metallico
di armi in uso e in disuso
a guidare la colonna
di dolore e di fumo
che lascia le infinite battaglie al calar della sera
la maggioranza sta la maggioranza sta
recitando un rosario
di ambizioni meschine
di millenarie paure
di inesauribili astuzie

Coltivando tranquilla
l'orribile varietà
delle proprie superbie
la maggioranza sta
come una malattia
come una sfortuna
come un'anestesia
come un'abitudine
per chi viaggia in direzione ostinata e contraria

col suo marchio speciale di speciale disperazione
e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi
per consegnare alla morte una goccia di splendore
di umanità di verità

per chi ad Aqaba curò la lebbra con uno scettro posticcio
e seminò il suo passaggio di gelosie devastatrici e di figli
con improbabili nomi di cantanti di tango
in un vasto programma di eternità

ricorda Signore questi servi disobbedienti
alle leggi del branco
non dimenticare il loro volto
che dopo tanto sbandare
è appena giusto che la fortuna li aiuti
come una svista
come un'anomalia
come una distrazione
come un dovere


Fabrizio De Andrè
Il pescatore

All'ombra dell'ultimo sole
s'era assopito un pescatore
e aveva un solco lungo il viso
come una specie di sorriso.

Venne alla spiaggia un assassino
due occhi grandi da bambino
due occhi enormi di paura
eran gli specchi di un'avventura.

E chiese al vecchio dammi il pane
ho poco tempo e troppa fame
e chiese al vecchio dammi il vino
ho sete e sono un assassino.

Gli occhi dischiuse il vecchio al giorno
non si guardò neppure intorno
ma versò il vino e spezzò il pane
per chi diceva ho sete e ho fame.

E fu il calore di un momento
poi via di nuovo verso il vento
davanti agli occhi ancora il sole
dietro alle spalle un pescatore.

Dietro alle spalle un pescatore
e la memoria è già dolore
è già il rimpianto di un aprile
giocato all'ombra di un cortile.

Vennero in sella due gendarmi
vennero in sella con le armi
chiesero al vecchio se lì vicino
fosse passato un assassino.

Ma all'ombra dell'ultimo sole
s'era assopito il pescatore
e aveva un solco lungo il viso
come una specie di sorriso
e aveva un solco lungo il viso
come una specie di sorriso.

 
Fabrizio De Andrè
Un matto

(Dietro Ogni Scemo C'è Un Villaggio)

Tu prova ad avere un mondo nel cuore
e non riesci ad esprimerlo con le parole,
e la luce del giorno si divide la piazza
tra un villaggio che ride e te, lo scemo, che passa,
e neppure la notte ti lascia da solo:
gli altri sognan se stessi e tu sogni di loro

E sì, anche tu andresti a cercare
le parole sicure per farti ascoltare:
per stupire mezz'ora basta un libro di storia,
io cercai di imparare la Treccani a memoria,
e dopo maiale, Majakowsky, malfatto,
continuarono gli altri fino a leggermi matto.

E senza sapere a chi dovessi la vita
in un manicomio io l'ho restituita:
qui sulla collina dormo malvolentieri
eppure c'è luce ormai nei miei pensieri,
qui nella penombra ora invento parole
ma rimpiango una luce, la luce del sole.

Le mie ossa regalano ancora alla vita:
le regalano ancora erba fiorita.
Ma la vita è rimasta nelle voci in sordina
di chi ha perso lo scemo e lo piange in collina;
di chi ancora bisbiglia con la stessa ironia
"Una morte pietosa lo strappò alla pazzia".


Fabrizio De Andrè
Ave Maria

E te ne vai, Maria, fra l'altra gente
che si raccoglie intorno al tuo passare,
siepe di sguardi che non fanno male
nella stagione di essere madre.

Sai che fra un'ora forse piangerai
poi la tua mano nasconderà un sorriso:
gioia e dolore hanno il confine incerto
nella stagione che illumina il viso.

Ave Maria, adesso che sei donna,
ave alle donne come te, Maria,
femmine un giorno per un nuovo amore
povero o ricco, umile o Messia.

Femmine un giorno e poi madri per sempre
nella stagione che stagioni non sente.


Fabrizio De Andrè
Amore che vieni amore che vai

Quei giorni perduti a rincorrere il vento
a chiederci un bacio e volerne altri cento

un giorno qualunque li ricorderai
amore che fuggi da me tornerai
un giorno qualunque ti ricorderai
amore che fuggi da me tornerai

e tu che con gli occhi di un altro colore
mi dici le stesse parole d'amore

fra un mese fra un anno scordate le avrai
amore che vieni da me fuggirai
fra un mese fra un anno scordate le avrai
amore che vieni da me fuggirai

venuto dal sole o da spiagge gelate
venuto in novembre o col vento d'estate

io t'ho amato sempre, non t'ho amato mai
amore che vieni, amore che vai
io t'ho amato sempre, non t'ho amato mai
amore che vieni, amore che vai


Fabrizio De Andrè
Via del campo

Via del Campo c'è una graziosa
gli occhi grandi color di foglia
tutta notte sta sulla soglia
vende a tutti la stessa rosa.

Via del Campo c'è una bambina
con le labbra color rugiada
gli occhi grigi come la strada
nascon fiori dove cammina.

Via del Campo c'è una puttana
gli occhi grandi color di foglia
se di amarla ti vien la voglia
basta prenderla per la mano

e ti sembra di andar lontano
lei ti guarda con un sorriso
non credevi che il paradiso
fosse solo lì al primo piano.

Via del Campo ci va un illuso
a pregarla di maritare
a vederla salir le scale
fino a quando il balcone ha chiuso.

Ama e ridi se amor risponde
piangi forte se non ti sente
dai diamanti non nasce niente
dal letame nascono i fior
dai diamanti non nasce niente
dal letame nascono i fior.

   
Fabrizio De Andrè
La guerra di Piero
 
Dormi sepolto in un campo di grano
non è la rosa non è il tulipano
che ti fan veglia dall'ombra dei fossi
ma son mille papaveri rossi

lungo le sponde del mio torrente
voglio che scendano i lucci argentati
non più i cadaveri dei soldati
portati in braccio dalla corrente

così dicevi ed era inverno
e come gli altri verso l'inferno
te ne vai triste come chi deve
il vento ti sputa in faccia la neve

fermati Piero , fermati adesso
lascia che il vento ti passi un po' addosso
dei morti in battaglia ti porti la voce
chi diede la vita ebbe in cambio una croce

ma tu no lo udisti e il tempo passava
con le stagioni a passo di giava
ed arrivasti a varcar la frontiera
in un bel giorno di primavera

e mentre marciavi con l'anima in spalle
vedesti un uomo in fondo alla valle
che aveva il tuo stesso identico umore
ma la divisa di un altro colore

sparagli Piero , sparagli ora
e dopo un colpo sparagli ancora
fino a che tu non lo vedrai esangue
cadere in terra a coprire il suo sangue

e se gli sparo in fronte o nel cuore
soltanto il tempo avrà per morire
ma il tempo a me resterà per vedere
vedere gli occhi di un uomo che muore

e mentre gli usi questa premura
quello si volta , ti vede e ha paura
ed imbraccia l'artiglieria
non ti ricambia la cortesia

cadesti in terra senza un lamento
e ti accorgesti in un solo momento
che il tempo non ti sarebbe bastato
a chiedere perdono per ogni peccato

cadesti interra senza un lamento
e ti accorgesti in un solo momento
che la tua vita finiva quel giorno
e non ci sarebbe stato un ritorno

Ninetta mia crepare di maggio
ci vuole tanto troppo coraggio
Ninetta bella dritto all'inferno
avrei preferito andarci in inverno

e mentre il grano ti stava a sentire
dentro alle mani stringevi un fucile
dentro alla bocca stringevi parole
troppo gelate per sciogliersi al sole

dormi sepolto in un campo di grano
non è la rosa non è il tulipano
che ti fan veglia dall'ombra dei fossi
ma sono mille papaveri rossi.  

 

POETI E GRANDE GUERRA

Giuseppe Ungaretti
Sono una creatura

Come questa pietra
del S. Michele
così fredda
così dura
così prosciugata
così refrattaria
cos' totalmente
disanimata

Come questa pietra
è il mio pianto
che non si vede

La morte
si sconta
vivendo


Pietro Jahier
Prima marcia alpina

Uno per uno,
bastone alla mano,
e alla salita cantiamo.
Se chiedi le reni rotte alla mina,
se chiedi il polso della  gravina,
se chiedi il ginocchio piegato a salire,
se chiedi l'amore pronto a patire:
son io, l'alpino, rispondiamo,
e all'adunata corriamo.
Ma la montagna, alpino, è franata,
ma la tua tenda, alpino, è sparita:
alpino, tutta l'acqua è seccata,
alpino, il vetrato gela le dita;
ma la tua penna è folgorata.
ma la  gran notte di nebbia è sparita.
***
Uno per uno,
corda alla mano,
dove non si passa, passiamo.
E la balma di roccia si ricoprirà
e l'acqua di  neve ci  disseterà;
la penna  il fulmine domesticherà,
la nebbia il sole l'avvamperà
quando l'alpino passerà.
***
Uno per uno,
zaino alla mano,
e nei  riposi ci contiamo.
Alpino, tu sei passato,
ma il compagno che manca è ferito,
la mitraglia l'ha  arrivato.
dalla corda l'ha distaccato,
nella gola l'ha tranghiottito.
Dove sei,  compagno  caro,
al paese  dovevi tornare:
se qualcuno lo potrà rivedere,
gliene chiederà la tua mare.
Ma non sei stalo abbandonato,
ma ti  veniamo a ritrovare,
Sei il nostro ferito:
ti riprendiamo
e al paese ti riportiamo.
Tutti per uno.
mano alla mano :
dove si muore,  discendiamo.
 ***
Tutti per uno,
mano alla mano:
dove  si  muore,  discendiamo.
Ma il tuo compagno, alpino, è spirato,
al paese non può ritornare;
ma il suo lamento è dileguato,
non ti chiama più a ritrovare.
Sulla cóltrice del nevato
resterà solo a riposare.
Dove sei, compagno caro?
Tu al paese non puoi ritornare?...
Ma non sei stato abbandonato,
ma ti veniamo a ritrovare.
Il viso bianco gli rasciughiamo,
il corpo tronco ricomponiamo.
È il nostro morto:
ce lo ricomponiamo,
alla patria lo riportiamo.
Uno per uno,
fucile alla mano,
e lo vendichiamo.

Giuseppe Zucca
Addio, grigioverde

Quanto tempo! Mese per mese
si sospirava: tornare a casa!
Si diceva: vestir da borghese,
far respirare i polpacci
franchi, freschi, senza più impacci
di gambali e di fascioni!
Niente pia scrocchi di sproni!
Si sognava: rispondere « si »,
si e basta: non pia «signorsi ».
Addio, addio, grigioverde!
il tuo ricordo non si perde...
Vita nostra di tre anni
vestita di questi panni,
color dell'eroico stento,
colore dei cento e cento
morti salutati per via;
divisa da combattimento,
colore di nostalgia

Wilfred Owen
Dulce et decorum est

Bent double, like old beggars under sacks,
Knock-kneed, coughing like hags, we cursed through sludge,
Till on the haunting flares we turned our backs
And towards our distant rest began to trudge.
Men marched asleep. Many had lost their boots
But limped on, blood-shod. All went lame; all blind;
Drunk with fatigue; deaf even to the hoots 
Of tired, outstripped Five-Nines that dropped behind.
Gas! Gas! Quick, boys! – An ecstasy of fumbling,
Fitting the clumsy helmets just in time;
But someone still was yelling out and stumbling,
And flound'ring like a man in fire or lime . . .
Dim, through the misty panes and thick green light,
As under a green sea, I saw him drowning.
In all my dreams, before my helpless sight,
He plunges at me, guttering, choking, drowning.
If in some smothering dreams you too could pace
Behind the wagon that we flung him in,
And watch the white eyes writhing in his face,
His hanging face, like a devil's sick of sin;
If you could hear, at every jolt, the blood
Come gargling from the froth-corrupted lungs,
Obscene as cancer, bitter as the cud 
Of vile, incurable sores on innocent tongues,
My friend, you would not tell with such high zest 
To children ardent for some desperate glory,
The old Lie; Dulce et Decorum est
Pro patria mori.


Wifried Sassoon
Survivors

No doubt they’ll soon get well; the shock and strain
Have caused their stammering, disconnected talk.
Of course they’re ‘longing to go out again,’—
These boys with old, scared faces, learning to walk.
They’ll soon forget their haunted nights; their cowed
Subjection to the ghosts of friends who died,—
Their dreams that drip with murder; and they’ll be proud
Of glorious war that shatter’d all their pride...
Men who went out to battle, grim and glad;
Children, with eyes that hate you, broken and mad.


Diego Valeri
Poi che la sera

La testa sul cuscino, odo strisciare
nella tenebra grandi acque vicine,
più vicine, lontane.
È un suono dolce con lungo pedale,
è l'infinita musica del tempo
che mi rapisce fuor del tempo, poi
che la fuga dei giorni è già l'eterno
e la vita che muore è già la morte.
Ascolto il dolce suono;
né so se più m'attristi o più mi giovi
l'essere vivo ancora, nel mio chiuso
corpo di carne, nel fluire uguale
del mio sangue che fugge per la notte
con striscio d'acque vicine, lontane.


E. A. Mario
La leggenda del Piave
 
Il Piave mormorava,
calmo e placido, al passaggio
dei primi fanti, il ventiquattro maggio;
l'esercito marciava
per raggiunger la frontiera
per far contro il nemico una barriera...
Muti passaron quella notte i fanti:
tacere bisognava, e andare avanti!
S'udiva intanto dalle amate sponde,
sommesso e lieve il tripudiar dell'onde.
Era un presagio dolce e lusinghiero,
il Piave mormorò:
«Non passa lo straniero!»

Ma in una notte trista
si parlò di un fosco evento,
e il Piave udiva l'ira e lo sgomento...
Ahi, quanta gente ha vista
venir giù, lasciare il tetto,
poi che il nemico irruppe a Caporetto!
Profughi ovunque! Dai lontani monti
Venivan a gremir tutti i suoi ponti!
S'udiva allor, dalle violate sponde,
sommesso e triste il mormorio de l'onde:
come un singhiozzo, in quell'autunno nero,
il Piave mormorò:
«Ritorna lo straniero!»

E ritornò il nemico;
per l'orgoglio e per la fame
volea sfogare tutte le sue brame...
Vedeva il piano aprico,
di lassù: voleva ancora
sfamarsi e tripudiare come allora...
«No!», disse il Piave. «No!», dissero i fanti,
«Mai più il nemico faccia un passo avanti!»
Si vide il Piave rigonfiar le sponde,
e come i fanti combatteron l'onde...
Rosso di sangue del nemico altero,
il Piave comandò:
«Indietro va', straniero!»

Indietreggiò il nemico
fino a Trieste, fino a Trento...
E la vittoria sciolse le ali al vento!
Fu sacro il patto antico:
tra le schiere, furon visti
Risorgere Oberdan, Sauro, Battisti...
Infranse, alfin, l'italico valore
le forche e l'armi dell'Impiccatore!
Sicure l'Alpi... Libere le sponde...
E tacque il Piave: si placaron l'onde...
Sul patrio suolo, vinti i torvi Imperi,
la Pace non trovò
né oppressi, né stranieri!


Corrado Alvaro
A un compagno
 
Se dovrai scrivere alla mia casa,
Dio salvi mia madre e mio padre,
la tua lettera sarà creduta
mia e sarà benvenuta.
Così la morte entrerà
e il fratellino la festeggerà.
 
Non dire alla povera mamma
che io sia morto solo.
Dille che il suo figliolo
più grande, è morto con tanta
carne cristiana intorno.
 
Se dovrai scrivere alla mia casa,
Dio salvi mia madre e mio padre,
non vorranno sapere
se sono morto da forte.
Vorranno sapere se la morte
sia scesa improvvisamente.
  
Dì loro che la mia fronte
è stata bruciata là dove
mi baciavano, e che fu lieve
il colpo, che mi parve fosse
il bacio di tutte le sere.
Dì loro che avevo goduto
tanto prima di partire,
che non c'era segreto sconosciuto
che mi restasse a scoprire;
che avevo bevuto, bevuto
tanta acqua limpida, tanta,
e che avevo mangiato con letizia,
che andavo incontro al mio fato
quasi a cogliere una primizia
per addolcire il palato.
  
Dì loro che c'era gran sole
pel campo, e tanto grano
che mi pareva il mio piano;
che c'era tante cicale
che cantavano; e a mezzo giorno
pareva che noi stessimo a falciare,
con gioia, gli uomini intorno.
 
Dì loro che dopo la morte
è passato un gran carro
tutto quanto per me;
che un uomo, alzando il mio forte
petto, avea detto: Non c'è
uomo più bello preso dalla morte.
 
Che mi seppellirono con tanta
tanta carne di madri in compagnia
sotto un bosco d'ulivi
che non intristiscono mai;
che c'è vicina una via
ove passano i vivi
cantando con allegria.
 
Se dovrai scrivere alla mia casa,
Dio salvi mia madre e mio padre,
la tua lettera sarà creduta
mia e sarà benvenuta.
Così la morte entrerà
e il fratellino la festeggerà.


Luciano Folgore
La sentinella veglia
 
Sentinella notturna
lassù
taciturna
sopra la roccia scabra.
Vent'anni,
viso bianco,
 occhi di fanciullo febbrile,
e la mano che stringe
il fucile;
e il pensiero che si perde
nell'immensità della notte.
Stanchezza di piombo
per tutte le membra
dopo un giorno di lotte.
 Il sonno è d'intorno
morbidamente muto
come un tentatore velluto
che accarezza le palpebre.
 Passano lembi di visione
dinanzi alle pupille
pesanti,
figure oscillanti,
profili sonnolenti,
tormenti di visi
che non si definiscono
 mai.
Ecco i velari del sogno!
Troppo dolce dormire
anche su letti di pietra!
Gambe che s'abbandonano
sotto fardelli di torpore...
ma uno stormire d'abeti,
ma un fresco di vento
che palpita fra due'
capelli biondi,
snebbia un istante
la pesantezza accasciante
e un brivido di volontà
ridà
la rigidità
alla sagoma snella
di questa sentinella
della Patria.
Il nemico è là dietro.
Bisogna guardare,
bisogna ascoltare,
lucidamente.
Ma ancora il fumo del sonno
che monta.
Stelle filanti nei cieli,
veli di verde lontano,
pensieri e frammenti:
sua madre che veglia...
il pozzo
un singhiozzo...
quel compagno caduto...
con una palla in fronte...
due bimbi in un cortile
del paese...
un vaso di maggiorana...
e lei... lontana...
vestita di bianco...
fresca come una fontana...
Oh, finalmente!
Scalpiccii
rotolii di sassi
parole sconnesse;
bisbigli:
un altro prende il tuo posto
e tu che discendi a dormire
con un saluto all'Italia
laggiù.

I° MAGGIO FESTA DEL LAVORO

F. Guyon
Thi Them e la fabbrica dei giocattoli

Lavoro minorile
Un mattino dei signori in cravatta sono arrivati con progetti, camion e gru. Hanno osservato, misurato, scavato, ammucchiato e, in poche settimane, sulla riva della laguna è cresciuta una fabbrica, una montagna di cemento grigio con tre nasi che hanno cominciato a soffiare nel cielo azzurro. “Non è molto educato soffiarsi il naso così”, ha pensato Thi Them. “E come sono brutti tutti quei tubi che spuntano dalla laguna. Sicuramente non fa bene ai pesci…”. Ma la bambina è pronta a perdonare i camini maleducati e i tubi che sputacchiano, perché grazie a loro si potranno nuovamente riempire le ciotole e quindi le pance, tutti i giorni…
Da quando lavora in fabbrica, Thi Them non ha più tempo di andare a scuola né di osservare le giunche che scivolano sulla laguna. Costruisce bambole parlanti, palloni, macchinine, giocattoli variopinti che poi vengono spediti ai quattro angoli del mondo. Sul tappeto che scorre e rallenta appena davanti a lei, la bambina assembla braccia, gambe e teste, fissa ruote e volanti, controlla elefanti, tigri e zebre. Li mette insieme, li attacca a dei bastoncini e incolla un’etichetta: giostrina musicale per culla. Ogni mattina le sembra che il tappeto scorra un po’ più velocemente del giorno prima. Anche se ce la mette tutta, lavora sempre peggio. A volte dimentica un braccio, a volte una gamba, a volte un volante. Dall’altra parte del tappeto mobile, nascono bambole senza braccia o con una gamba sola oppure mute, trattori difettosi, giostrine senza musica. Il signore che comanda si arrabbia. Urla, gesticola, impugna al di sopra della schiena di Thi Them una frusta con cinghie di cuoio, che schioccano come vele in mezzo a un tifone. Thi Them assembla con rinnovata energia braccia, gambe, teste, volanti, zebre, ma il tappato si riempie troppo e eccola di nuovo mescolare tutto, incollare un elefante su un trattore, un volante sul corpo di una bambola… Thi Them è così stanca… Vacilla e finisce per cadere in uno scatolone di pesci rossi di plastica. Clic, clac, clic… Qualcuno chiude la scatola e il tappeto la porta via addormentata.


B. Brecht
Storie da calendario

Domande di un lettore operaio
Tebe dalle Sette Porte, chi la costruì?
Ci sono i nomi dei re, dentro i libri.
Son stati i re a strascicarli, quei blocchi di pietra?
Babilonia, distrutta tante volte,chi  altrettante la riedificò?
In quali case, di Lima lucente d’oro abitavano i costruttori?
Dove andarono, la sera che fu terminata la Grande Muraglia, i muratori?
Roma la grande è piena di archi di trionfo. Su chi trionfarono i Cesari?
La celebrata Bisanzio aveva solo palazzi per i suoi abitanti?
Anche nella favolosa Atlantide, la notte che il mare li inghiottì, affogavano urlando aiuto ai loro schiavi.
Il giovane Alessandro conquistò l’India. Da solo?
Cesare sconfisse i Galli. Non aveva con sé nemmeno un cuoco?
Filippo di Spagna pianse, quando la flotta gli fu affondata. Nessun altro pianse?
Federico II vinse la guerra dei sette Anni. Chi,oltre a lui, l’ha vinta?
Una vittoria ogni pagina.
Chi cucinò la cena della vittoria?
Ogni dieci anni un grand’uomo.
Chi ne pagò le spese?
Quante vicende, tante domande.


F. Kafka
La metamorfosi e altri racconti

La metamorfosi
Un mattino Gregor Samsa, risvegliandosi da sogni inquieti, si ritrovò nel suo letto tramutato in un gigantesco insetto. Stava disteso sulla schiena, dura quanto una corazza e vedeva, se alzava di poco il capo, il suo ventre bruno e convesso attraversato da nervature arcuate, sul quale a stento riusciva a reggersi la coperta, prossima ormai a scivolare definitivamente a terra. Molte zampette, pietosamente sottili in confronto alla sua corporatura usuale, si agitavano senza tregua dinanzi ai suoi occhi.
- Che mi è successo? – si chiese. Non era un sogno. La sua camera, una normale camera per esseri umani, solo un po’ troppo piccola, si estendeva quieta fra le quattro notorie pareti. Al di sopra del tavolo era in mostra un campionario di stoffe tratte dalla valigia - Samsa era commesso viaggiatore … - Oddio! – pensò – che mestiere faticoso che ho scelto! Sempre in viaggio! Il commercio mi dà più preoccupazioni di quando avevamo noi un  negozio e, per giunta, questo affanno del viaggiare e delle coincidenze. E poi non parliamo dei pasti, pessimi ed irregolari, e delle relazioni con gente sempre diversa, rapporti che non durano e mai divengono cordiali. Ma che vada all’inferno  tutto quanto!...


A. Pavignano
In bilico sul mare

Le morti bianche
Io stavo sopra,  sul ponteggio, davanti alla cella in alto, quella dove abbiamo trovato lo scheletro del bambino. Da sotto il geometra mi ha chiamato, mi ha detto: “Bravo! Sei già al lavoro! Vieni giù che ti devo parlare”. Chissà che mi doveva dire… Sono  venuto giù di un piano e a un certo punto, mentre scendevo, mi è venuto un dubbio: dove si mette il piede, per scendere? Non è come per camminare: non è un piede davanti all’altro, quando si scende dal ponteggio. E’ un piede sotto e l’altro sopra… Oppure cosa? E le mani? Le devo tirare su o giù? Una per volta? Insieme?... Mi è preso il panico. La paura di restare lì per sempre. Appeso all’impalcatura… I tubi erano tutti bagnati per l’umidità. All’angelo custode era tanto che non ci pensavo: eppure mi aveva aiutato un sacco di volte. Quando ero caduto dalla benna della scavatrice. Quando mi si stava per strappare il braccio. Ho guardato in giro. L’angelo non c’era. C’era il mare ricoperto di vapore freddo. C’era la nebbia. C’era il suono del traghetto che stava per entrare nel porto. C’erano i gabbiani fermi sul ponteggio. Una mano. O l’altra? Un piede. O tutti e due?
Sono scivolato. Prima il piede. Poi con la mano ho cercato di afferrare un tubo e invece ho preso l’aria.
Ho visto il vuoto sotto.
Ho sentito un urlo. Ho riconosciuto la voce di Tonino che stava arrivano in quel momento.
Invece io sono stato zitto, non un fiato.
 

L. Pirandello
Novelle per un anno

Ciàula scopre la Luna
Giungevano da lontano gli stridori e i tonfi cadenzati della pompa, che non posava mai, né giorno né notte… Alla fine il carico fu pronto e zi’ Scarda aiutò Ciàula a disporlo e rimontarlo sul sacco attorto dietro la nuca. A mano a mano che zì Scarda caricava, Ciàula sentiva piegarsi sotto le gambe. Una, a un certo punto, prese a tremargli convulsamente così forte che, temendo di non reggere più al peso, con quel tremito, Ciàula gridò:- Basta! Basta!
-Che basta, carogna! – gli rispose zì Scarda. E seguitò a caricare… Ciaula si mosse sotto il carico enorme. Per fortuna, quando la salita cominciò, Ciàula fu ripreso dalla paura del buio della notte, a cui  tra poco  si sarebbe affacciato ... Se ne accorse solo quando fu agli ultimi scalini. Dapprima, quantunque gli paresse strano, pensò che fossero gli estremi barlumi del giorno. Ma la chiaria cresceva, cresceva sempre più, come se il sole, che egli aveva pur visto tramontare, fosse rispuntato. Possibile?
Restò – appena sbucato all’aperto – sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d’argento.
Grande, placida, come in un fresco, luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna…Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, la Luna… C’era la Luna! C’era la Luna!
E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore.


A. Nove
Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese

Precariato - Un’intervista
Mi chiamo Roberta, ho quarant’anni, vivo a Roma, guadagno duecentocinquanta euro al mese…
- Duecentocinquanta euro al mese?
Lavoro in una scuola per studenti lavoratori, aperta dalle 18 alle 22,30. Duecentocinquanta euro è quanto ho guadagnato l’ultimo mese. E’ quasi nulla. Vado avanti in questo lavoro quasi per inerzia, per fare punteggio. Ho un contratto a ore, un ex co.co.co che però è rimasto tale, che dovrebbe cambiare e resta così, nel caos ministeriale. Su quaranta docenti che lavorano nella mia scuola venti sono in regola, gli altri lavorano in nero. E’ una scuola potente, e quindi ha protezioni e non ha subito ispezioni…
- E a parte questa esperienza?
Ho riversato le mie energie, assieme a una mia amica, mettendo in piedi un’agenzia di stampa di donne, per donne. Abbiamo una pagina web che aggiorniamo ogni notte. Questo è il mio impegno più gratificante.
- Quanto guadagni, dall’agenzia?
In termini economici, nulla! … Quando non ce la faccio proprio, mi aiuta mia madre. E’ difficile, vivere così. Cerchi di pensare che siamo in tanti, in queste condizioni, ma il pensiero non è sufficiente a combattere l’ansia che ti dà una precarietà cosi forte. E quando investi la maggior parte delle tue energie nell’organizzazione dell’esistenza quotidiana è difficile, è molto difficile immaginarsi una progettualità. Anche le passioni, anche l’amore per quello che fai sono duri da sostenere.


B. Pilla
I canti delle filande di Arcade

I mestieri di un tempo
La bella va in filanda a
Lavorar, lavorar, lavorar;
la bella va in filanda a
lavorar col suo bel morettin.

         Oh morettino mio
         morirai, morirai, morirai;
         oh morettino mio, morirai con la pena nel cuor.

La bella va in cantina a
Trar el vin, trar el vin, trar el vin;
la bella va in cantina a
trar el vin col suo bel morettin.
 
          Oh morettino mio
           morirai, morirai, morirai;
           oh morettino mio
           morirai con la pena nel cuor.             


Luigi Meneghello (16/2/1922-26/6/2007)
Lectio magistralis Palermo, 20/6/ 2007
Laurea honoris causa in Filologia moderna

Tornii e libri
... Il resto della mia attività di scrittore è stato un lungo apprendistato per portare ciò che scrivo a pareggiare la potenza di quell’antica esperienza, nei vari settori della vita che mi è capitato di attraversare. Ho il senso di non avere ancora finito l’apprendistato: sono quasi al punto però. Penso a mio padre quando terminò il suo apprendistato come tornitore e dovette fare come prova finale un pezzo conclusivo, che chiamavano “il capolavoro”.
Ne ho scritto tanti anni fa, dopo una visita quasi in pellegrinaggio alla vecchia officina di mio padre e dei miei zii. Mi aveva colpito il tornio, ancora al suo posto nell’angolo in cima all’officina. Lo avevano preso già in uso, tra il sei e l’otto del secolo scorso, ma pareva ancora una bella macchina, con le manovelle all’antica e l’albero a quattro principi. Ho chiesto a mio papà quanto bravo era lui come operaio: dice che negli anni venti c’erano già degli specialisti che gli erano passati davanti, ma è chiaro da tante altre cose che era assai bravo. Aveva imparato a tornire da ragazzo a Marano... Sui vent’ anni era andato a Verona a fare il suo Capolavoro. Dice che restò impressionato soprattutto dalla bellezza e modernità dei tornii; non ne aveva mai visti di così splendidi, ma si orientò subito.
Il capolavoro che gli diedero da fare era una vite senza fine; preparò il pezzo, misurò, ci fece i segnetti che bisogna farci per tornire una vite senza fine e a questo punto il capo che lo stava a guardare aveva già capito che era bravo e gli disse:”Basta così”.
Vorrei poter fare così anch’io, se ne avrò il tempo, scrivere qualcosa di veramente conclusivo, magari solo una paginetta, o un paio, ma da scrittore finalmente maturo. E che voi, come già a mio padre i suoi esaminatori, mi diceste: “Ok, basta così”.


Pap Khouma
Io venditore di elefanti

Vendere
Vengo dal Senegal. Ho fatto il venditore e vi racconterò che cosa mi è successo. E' un mestiere difficile, per gente che ha costanza e una gran forza d'animo, perché bisogna usare le gambe e insistere, insistere anche se tutte le porte ti vengono sbattute in faccia (…)
Un mestiere difficile quello del venditore. Faticoso, triste, pieno di umiliazioni (…) C'è voluto un po' di tempo e di avventure prima che io arrivassi a Milano, dove sono stato un inventore, perché i primi mercatini nelle stazioni della metropolitana li ho messi su io con tre compagni.
Vendendo abbiamo guadagnato i soldi per mangiare, e dormire al coperto. Non sempre, ma spesso. Vendendo ho anche imparato l'italiano. Qualcuno prova a cambiare mestiere, nella speranza di una vita tranquilla, di trovare una casa, di rimettere insieme una famiglia. E fa bene. Ma vendere è un gran bel mestiere. Non c'è da vergognarsene...
L'Africa è governata male. Troppi profittatori: Puoi anche studiare e lavorare, ma non cambia, perché chi comanda non è disposto a concederti un po' del suo spazio. Così la gente se ne deve andare: Ha speranze solo se fugge, se riesce a raggiungere l'Europa. A lavorare sono in pochi. Tutti dipendono da loro. Per questo non si può tornare: se torni vai solo ad aggiungerti ai tanti che vivono del lavoro di pochi. (…)
Questa è la vita di un senegalese, la vita che conosco da un tempo che mi pare lunghissimo, ma in fondo fortunato, perché, come si dice al mio paese, se una cosa la puoi raccontare, vuol dire che ti ha portato fortuna. Molti ragazzi stracciano i loro permessi di soggiorno e tornano in Senegal, perché non ne vogliono più sapere dell'Italia, della polizia, dei carabinieri, delle vendite, degli elefanti, delle aquile di avorio, delle collane, delle Lacoste, delle borse Vuitton, delle camere d'albergo, dei fogli di via, dei sequestri, del freddo…
Il freddo di qui al quale non riuscirò mai ad abituarmi.
Molti restano e conoscono delle ragazze italiane. Si innamorano. Ci sono matrimoni, e poi anche separazioni e divorzi. E poi ancora matrimoni. Nascono bambini.

 

PROVERBI PER TUTTO L'ANNO

da Civiltà popolare della Valle dell'Agno

Gennaio

L’Epifanìa/ vòl dire che le feste va via [ogni festa porta via] (Epifania: 6 gennaio).
De l’Epifanìa/ un passo de stria [Da Nadale a Epifanìa le (giornate) se slunga un passo de stria].
De l’Epifanìa un passo de stria,/ de Sant’Antonio un passo del demonio (S.Antonio abate: 17 gennaio).
Sant’Antonio da la barba bianca/se no piòve, la neve no manca.
De San Sebastiàn/ un’ora e un passo de can (S.Sebastiano: 20 gennaio).
San Bastiàn co la viola in man.
San Paolo Converso/ vento e neve da ogni verso (Conversione di S.Paolo: 25 gennaio).
Genaro suto/ gran da partuto.
Par aver un bòn aiaro/ pianta l’ajo de genaro.


Febbraio

El dì dela Candelòra/ se ni∫e (nevica) o se plòra (piove)/ de l’inverno sémo fora,/ ma se fa sole o tira vento/ de l’iverno semo rénto.
[Dela Candelòra/ da l’inverno semo fòra/ ma se piove e tira vento/ ne l’invérno sémo rento] (Candelòra, Purificazione della Vergine: 2 febbraio).
El giorno dela Serióla el sole entra in ogni vajóla (Serióla= Candelòra).
De San Valentìn/ el giasso no tien gnanca un gardelìn (S. Valentino: 14 febbraio).
San Valentìn, dal frédo fin.
Genaro e febraro, i gati va al gataro.
Febraro curto, ma el pèdo de tuto.
Febraro febraréto, curto e maledéto.
Se febraro el ghe la fa fréda/ marso el ghe tira na scoréda.
Febraro fa i punti e marso li rompe.


Marzo

De marso/ ogni mato va descalso.
[El primo de marso/  el poaréto va discalso].
Neve marsolina/ dura da sera a la matina.
Se a marso no códega a majo no se séga.
Marso suto e april bagnà/ fa tanto bèn al semenà.
Dal cao o da la cóa/ l’inverno fa la sóa.


Aprile

Quatro brilanti [i tri aprilanti]/ quaranta de somejanti.
(se i primi quattro, o tre, giorni di aprile sono luminosi lo saranno anche i quaranta giorni seguenti).

Se ride su le palme pian∫e sui uvi,/ se pian∫e su le Palme ride sui uvi.

No ghe xe Pasqua [vènare santo] al mondo/ che la luna no sia in tóndo [no gabia fato el tóndo].

Se piove el giorno de San Marco, el sórgo taca s’on sasso [la farina vién sul sasso](S. Marco. 25 aprile).

De San Marco se spo∫a chi che no póle con de manco.

Aprile se lava [bróa] le scudèle e dopo se va a dormire.

De fine aprile, vòja o no vòja, / i àlbari i ga la fòja.



Maggio-Giugno-Luglio

Se piove el dì de la Sènsa/ el boaro perde la seménsa (Sènsa: Ascensione, 40 giorni dopo Pasqua).

Giugno co la sè∫ola in pugno. Dàmene un pugno,/ma dàmelo de giugno.
San Piéro,/ el sòrgo cuèrde el puliéro (S.Pietro: 29 giugno).
De San Piéro/ piòve sul caliero.

De Sant’ Ana/ Le nò∫e fa la tana (S.Anna :26 luglio)


Agosto

San Lorènso de la [na] gran calura, / San Vincenso de la [na]gran fredura7 uno e l’altro poco dura (S.Lorenzo: 10 agosto; S.Vincenzo: 22 gennaio).

San Bartolomìo,/ ogni fruto xe compìo (S.Bartolomeo: 24 agosto).

Agosto, agostòn/ el prova el piantòn (se fa troppo caldo possono morire i piantòni, cioè i pali di pioppo messi a dimora a vegetare; oppure il peso dell’uva comincia a gravare sul piantòn che lo regge).

La prima piòva d’agosto/ la rinfresca el bosco [Agosto rinfresca el bosco/ ma el sèca anca el piantòn].

La piova d’istà/ la va par contrà.


Settembre

Se piove ed dì de Santa Crò∫e/ in guasta tutte le nò∫e (Esaltazione della croce: 14 settembre).


Se le tèmpora xe bagnà/ el setèmbre xe negà (Tempora di autunno: merc.,ven. e sab. dopo l’Esaltazione della croce)


Novembre

Par i Santi/ ch’el formènto sia in t’ei campi (i Santi: 1 novembre).
Coi Santi/ ga finìo anca i o∫elanti.
Novembre novembrìn/ e mese de San Martìn (S.Martino: 11 novembre).
A San Martìn ghe xe chi che ride e chi che pian∫e.
A San Martìn/ tulì el saco e vè al mulìn.
L’istà de San Martìn/ dura tre dì e un pochetìn.
A San Martìn/ xe passà el grosso e anca el picolìn (il passo degli uccelli è terminato).
De San Clemente/ l’inverno mète un dènte (S.Clemente, patrono di Valdagno: 23 novembre).
A Santa Caterina/ le vache va in bina (S.Caterina: 25 novembre).
Neve novembrina/ par sie mesi la confina (la neve di novembre dura sei mesi).


Dicembre

Santa Bibiana [Biana]/ quaranta dì e na settimana[Sia nuvolo, sia serèn, /par quaranta dì ghi nèm]. (S.Bibiana: 2 dicembre).
Santa Lùssia/ el frèdo crùssia (punge) (S.Lucia: 13 dicembre).
Natale al dugo e Pàscoa al fògo (se a Natale il tempo è stato bello, a Pasqua sarà brutto).
Da Nadale a Epifanìa/ xe el pi frèdo che ghe sia.


ROMANZO DI FORMAZIONE

HARPER LEE
Il buio oltre la siepe

Forse aveva ragione, ma gli avvenimenti dell’estate incombevano su di noi come una nuvola di fumo in una stanza chiusa. A Maycomb i grandi non ne parlavano mai con Jem e con me; a quanto pareva, però, ne parlavano con i loro figli, incoraggiandoli probabilmente a essere gentili con noi che, a sentir loro, non avevamo nessuna colpa di avere un padre come Atticus. A questo i nostri compagni di scuola non ci sarebbero infatti mai arrivati da soli: lasciati al loro istinto, avrebbero attaccato briga con noi due, risolvendo una volta per sempre la questione con quattro pugni. Così come stavano le cose, invece, eravamo tutti costretti a darci arie da ometti e signorine. In un certo senso, pareva d’esser tornati ai tempi della Signora Dubose, ma senza i suoi strilli. Una cosa però mi risultò strana e incomprensibile: nonostante i suoi difetti come padre, anche quell’anno Atticus venne eletto all’Assemblea legislativa, e come al solito senza rivali. Giunsi alla conclusione che la gente era molto bislacca e finii per allontanarmi da tutti, non pensando agli altri se non quando v’ero costretta. E questo mi capitò un giorno, a scuola.
Una volta la settimana avevamo un’ora dedicata ai fatti d’attualità. Ogni ragazzo doveva ritagliare un articolo di giornale, impararne il contenuto e riferirlo alla classe. Questo sistema, sostenevano, riusciva a prevenire una quantità di mali: dover stare in piedi davanti ai compagni portava il ragazzo ad assumere una posizione corretta e gli dava un atteggiamento; tenere un breve discorso gli sviluppava il senso del valore delle parole; dover imparare un argomento di attualità gli esercitava la memoria; sentirsi in mostra gli faceva ancor più desiderare di rientrare nel Gruppo.


PAULO COELHO
L’ Alchimista

“Quando si vuole una cosa, tutto l’universo cospira affinché si riesca a realizzare il sogno,” affermò l’Alchimista, ripetendo le parole del vecchio re. Il ragazzo comprese. Adesso c’era un altro uomo sulla sua strada, per condurlo fino alla sua Leggenda Personale.
“Allora sarai tu il mio maestro?”
“No, tu sai già tutto ciò di cui hai bisogno. Io mi limiterò a farti proseguire verso il tuo tesoro.”
“I clan sono in guerra”ripeté il ragazzo.
“Conosco il deserto.”
“Ho già trovato il mio tesoro. Posseggo un cammello, il denaro del negozio di cristalli e cinquanta monete d’oro. Potrei essere un uomo ricco nella mia terra.”
“ma niente di tutto ciò è vicino alle Piramidi,” disse l’Alchimista.
“Ho Fatima: è un tesoro più grande di tutto quello che sono riuscito a radunare fino a ora.”
“Ma neppure lei è vicina alle Piramidi.”
In silenzio mangiarono gli sparvieri. L’Alchimista aprì una bottiglia e versò un liquido rosso nel bicchiere del ragazzo. Era vino, uno dei migliori vini che lui avesse mai bevuto in vita sua. Ma il vino era proibito dalla legge.
“Il male non è ciò che entra nella bocca di un uomo,” disse l’Alchimista. “Il male è ciò che ne esce.”
Il ragazzo cominciò a sentirsi un po’ alterato per via del vino. Ma l’Alchimista gli incuteva paura. Si sedettero fuori dalla tenda, guardando la luna che, brillando, offuscava le stelle.
“Bevi e distraiti un po’,” disse l’Alchimista, notando che il ragazzo cominciava a essere sempre più allegro. “Riposa, come sempre riposa il guerriero prima del combattimento. Ma non dimenticare che il tuo cuore si trova là dove si trova il tuo tesoro. Ed è necessario che il tuo tesoro sia ritrovato affinché tutto ciò che hai scoperto durante il cammino possa avere un significato. Domani vendi il tuo cammello e compra un cavallo. I cammelli sono traditori: procedono per migliaia di passi, senza dare alcun segno di stanchezza. D’improvviso, però, si inginocchiano e muoiono. I cavalli, invece, si stancano a poco a poco. E tu sarai sempre in grado di sapere quanto puoi chiedere loro, oppure il momento in cui moriranno.”


ANDREA BAJANI
Se consideri le colpe

Sono arrivato che Viarengo era seduto sul muretto, davanti a lui c’era una coda lunga di operai. Passavano uno dopo l’altro, rapidamente, e poi se ne andavano via, salivano in bicicletta, in motorino, qualcuno partiva via in macchina, sollevava la polvere. Quando mi ha visto mi ha fatto segno di raggiungerlo, quasi fosse normale per lui vedermi lì. Eccoti, ha detto, e mi ha guardato per un attimo da sopra gli occhiali, inchinando la testa. Il giorno di paga ci sono sempre tutti, ha detto ridendo, guardali qui. Uno dopo l’altro ci arrivavano davanti, Viarengo prendeva un fascio di banconote, le contava e gliele dava. Loro prendevano i soldi, li infilavano in tasca, dicevano Grazie e poi uscivano dalla fila. Nonostante i mazzi fossero già tutti pronti e legati, Viarengo toglieva l’elastico e ricontava ogni volta, poi rimetteva l’elastico e consegnava. Ogni tanto fermava qualcuno e gli faceva una lavata di capo, quello abbassava la testa, aspettava la fine del sermone, si prendeva lo stipendio e se ne andava. Quando Viarengo rimproverava un operaio, gli altri da dietro ridevano, lo prendevano in giro, partiva anche qualche spintone e si muoveva tutta la fila. Io restavo lì, accanto a Viarengo, li vedevo passare uno dopo l’altro come alla consegna delle pagelle.


NORMAN OLLESTAD
Pazzo per la tempesta

Sei uno di quelli dell’incidente?
Che strano, già si sapeva, pensai. Risposi di sì.
Ci sono altri lassù?
Sì, mio padre e la sua ragazza Sandra. Il pilota è morto.
E tuo padre?
Le parole mi uscirono di bocca prima che potessi controllarle.
Morto, forse svenuto. Lo scuotevo e non si svegliava.
Il ragazzo mi fissò allibito. Avevo detto “morto”. Tutta la tristezza della mia condizione mi si rovesciò addosso. Papà non c’è più. Per sempre. Non mi sveglierà più all’alba per gli allenamenti di hockey, non mi persuaderà più a cavalcare un’onda, non mi farà mai più notare la bellezza nascosta in una tempesta. Sentivo dolore fino alle ossa, che mi sembravano improvvisamente fragili al punto da spezzarsi. Un peso insostenibile mi schiacciava e mi tremavano le gambe. Non riuscivo più a guardare il ragazzo e la sua faccia triste, perché era la prova vivente che non era stato un sogno, che papà era morto.
Abbassai lo sguardo a terra e barcollai. Stavo per crollare.
Vuoi che ti regga?
No, sto bene.
Mi prese comunque e io non opposi resistenza. Le sue braccia erano coltelli che mi causavano un dolore indicibile, in tutto il corpo e fino alla testa. Stavo così male che mi sentivo come annodato, un unico grumo di mente e carne.
Mentre mi trasportava a braccia lungo la strada, alzai lo sguardo alla montagna. Era avvolta da nuvole e avevo la piena consapevolezza di essere stato lassù, poco prima, nel mezzo di una tormenta. In quell’istante mi fu chiara come non mai la parabola della mia vita: papà che mi costringe a uscire dalla strada più comoda, giorno dopo giorno, per modellarmi come il suo piccolo capolavoro, le insinuazioni vigliacche di Nick sul mio valore, eccetera. Mi sentivo trasformato in modo radicale. Ogni disavventura, ogni problema, ogni fonte di arrabbiatura, ogni volta che avevo mandato papà a quel paese, tutto si presentava ai miei occhi, scena dopo scena, episodio dopo episodio, cadendo di fronte a me come pezzi di un domino.
Fissai ancora lo sguardo alla tormenta che si accaniva contro la montagna e contro mio padre, ancora intrappolato lassù. L’avevo sconfitta. E sapevo, sapevo con totale certezza che dovevo la vita a tutto ciò che lui mi aveva costretto a fare.


CELIA REES
Pirate

Mentre Minerva saliva lungo le scale di corda e camminava sui pennoni, io  mi dedicavo a compiti più terreni. Assistevo Broom con i suoi libri mastri e gli inventari, o aiutavo Graham nell’infermeria o in sala operatoria. Graham era molto esperto nella ricerca della radice dei mali. Quando aveva terminato con gli altri pazienti rivolgeva la sua attenzione a me.
“Come va con la vita piratesca?” domandò, alzando gli occhi da pestello e mortaio. “Minerva sembra felice, ma tu?”
“Io vivo alla giornata” risposi, ripetendo il consiglio di Minerva.
“Davvero?” grugnì Graham. “E quanto puoi andare avanti?”
Scrollai le spalle. “Che altra scelta ho?”
“Non ti piace questa vita?”
“Non è il rischio, a quello mi sto abituando. E nemmeno il lavoro”. Guardai le mie mani screpolate e callose. “Per quanto temo che queste non sarebbero mai all’altezza del salotto della mia matrigna”
“E allora cosa c’è? Che cos’è che ti rende infelice? A parte il fatto che se ci catturano ci impiccano tutti?” Graham dette in una cupa risata.
“In effetti ha a che fare con questo.”
Gli confidai i miei timori su William.
“Ah, William”. Graham sorrise. “Gli abbiamo mandato la tua lettera. L’ho data al nostromo della Sally-Anne. Lui è rimasto fedele al capitano, ma mi doveva un paio di favori. Ha promesso che l’avrebbe consegnata. Mi domando se William l’abbia ricevuta.”
“Sì, l’ha ricevuta” dissi. Anche se il pensiero non mi rallegrava. “Crede di avermi perduta” proseguii, “ma non è vero! Ho rischiato tutto per restare libera per lui, ma facendo questo sono diventata una pirata! Mi presi la testa fra le mani, non riuscivo a credere a che caos ingarbugliato era diventata la mia vita. “E se  mi trovasse qui? E se attaccasse la nave? Che dovrei fare?”


ABDELLAH TAIA
L’esercito della salvezza

Presi il treno fino alla stazione di Cornavin nel centro di Ginevra. Il tragitto durò appena un quarto d’ora. Avevo il buio nella testa. Non riuscivo a riflettere, non riuscivo a collegare le idee tra di loro, non sapevo che decisione prendere. Una sola cosa sapevo, dove mettere la valigia: al deposito bagagli della stazione, tutte le stazioni ne hanno uno di solito. Fortunatamente avevo qualche soldo con me, dei franchi svizzeri.
Ginevra, che avevo tanto amato con Jean, si rivelava sotto una nuova luce: una città fredda, più fredda del solito. Eppure era bella, più bella che mai, più colorata, le foglie degli alberi erano rosse, gialle, verdi, nere… Ginevra viveva un magnifico autunno. E io dovevo trovare un po’ di calore prima che facesse definitivamente notte.  Non dovevo andare in panico, avere paura, tremare, piangere, compatirmi. Non era il momento, no, no… Dovevo essere forte, forte. Pesavo cinquantacinque chili allora. Non so dove sia riuscito a trovarla, la forza, non so da dove sia riuscito ad attingerla. Era senza dubbio la forza della tristezza, la forza della disperazione, la forza di quando non  si ha niente, quando non si ha altra scelta. Mi sono lasciato guidare da quella forza. L’ho seguita, mi diceva che resistere era l’unica priorità quella sera.
Avevo ricevuto una borsa di studio dalla Confederazione Elvetica. Ero arrivato a Ginevra per un dottorato di un anno in letteratura francese del Diciottesimo secolo.


PAOLO GOGNETTI
Una cosa piccola piccola che sta per esplodere

All’inizio di giugno Atonia viene dimessa per mancanza di letti dal reparto di lunga degenza. Non è più in grado di muoversi, e non ha i soldi per pagare una clinica o un’infermiera a tempo pieno. Mina va a chiedere aiuto alle suore della sua scuola, bussando alla stessa porta che l’ha accolta tanti anni fa, ma scopre che una vecchia invalida vale molto meno di una bambina senza padre. E’ un cattivo investimento, in un certo senso. L’attività delle suore con gli infermi si limita a portare la comunione di domenica, ricordarli nella preghiera e assisterli durante l’agonia. Così Mina impara a parlare con i medici, a riconoscere le crisi ipoglicemiche, a fare le iniezioni di insulina, a perlustrare il corpo di Antonia a caccia di piaghe, e a lavarla, cambiarla e imboccarla quando lei è troppo debole per fare tutto questo da sola. In quei giorni di trasferisce di là portandosi i libri in salotto e facendosi il letto sul divano. Studia di notte per preparare gli esami, eppure la mancanza di sonno non le pesa: ci sono cose di cui loro due non  hanno mai parlato, e a questo punto è probabile che non  ne parleranno mai, ma le persone non si spiegano, non si scusano, non si ringraziano solo con le parole. E Mina si considera fortunata: sono pochi quelli che possono restituire qualcosa di quanto hanno ricevuto.  Quando esce per andare in farmacia chiede a sua madre di darle il cambio, anche solo sedendosi accanto al letto di Antonia, sfogliando una rivista o guardando la televisione. Scopre che loro due si confidano, quando lei non c’è. Un tempo sembravano donne molto diverse: adesso la malattia le ha rese simili, o almeno solidali.
“Stai vicina a tua madre”, le dice Antonia una volta. “Sa di non essere stata una brava mamma, ma non si vede quanto le dispiace”.


J.D. SALINGER
Il giovane Holden

Io la ragazza non ce l’avevo, così con quell'amico mio, Mal Brossard, che era uno della squadra di lotta, decidemmo di prendere un autobus fino ad Agerstown per andare a mangiarci un hamburger e magari a vederci un qualche schifo di film. Né lui né io ce la sentivamo di restarcene là tutta la sera come due cretini. Domandai a Mal se gli seccava che venisse anche Ackley. Glielo domandai perché il sabato sera Ackley non faceva mai niente e se ne restava nella sua stanza a schiacciarsi i brufoli o vattelappesca. Non che gli seccasse, disse Mal, però l'idea non lo entusiasmava. Ackley non gli era molto simpatico. Ad ogni modo, ce ne andammo tutt'e due in camera per prepararci eccetera eccetera, e mentre mi mettevo le galosce e tutto quanto, gridai al vecchio Ackley se voleva venire al cinema. Mi aveva sentito benissimo attraverso le tende della doccia, ma non rispose subito. Era il tipo di individuo che non risponde,subito neanche a scannarlo. Finalmente eccolo arrivare da quelle dannate tende; si fermò sul bordo della doccia e mi domandò chi altro veniva. Doveva sempre sapere chi veniva. Giuro che se quello naufraga da qualche parte e voi andate a salvarlo con una maledetta barca, prima di salirci vuoi sapere chi è il tizio che rema. Gli dissi che veniva anche Mal Brossard. Lui disse: — Quel bastardo là... Va bene. Aspetta un secondo —. Avresti detto che ti stava facendo una grande concessione.
Ci mise almeno cinque ore per prepararsi. Mentre lui si preparava, andai ad aprire la finestra e feci una palla di neve, così senza guanti com’ero. La neve era ottima da appallottolare. Però poi non la buttai. Stavo per buttarla. Contro una macchina ferma dall’altra parte della strada. Ma cambiai idea. La macchina era così bella e bianca. Poi stavo per buttarla contro un idrante, ma anche quello era troppo bello e bianco. Alla fine non la buttai per niente. Non feci altro che chiudere la finestra e mettermi a camminare per la stanza con la palla di neve in mano, facendola sempre più compatta. Un po’ più tardi ce l’avevo ancora in mano quando con Brossard e Ackley salimmo sull’autobus. Il conducente apri gli sportelli e me la fece buttare fuori. Io, che non l’avrei buttata a nessuno glielo dissi, ma lui non ci volle credere. La gente non ti crede mai.


MARIE-AUDE MURAIL
Oh Boy!

Al numero 12 di rue Mercoeur a Parigi da due anni abitava la famiglia Morlevent. Tre bambini e due adulti, il primo anno. Tre bambini e un adulto, il secondo anno. E, quel mattino, solo tre bambini: Siménon, Morgane e Venise, quattordici, otto e cinque anni.
“Facciamo un giuramento” propose Morgane. “Giuriamo che nessuno potrà mai separarci. Eh, Siménon?”
Venise alzò la mano, pronta a giurare. Ma Siménon, il maggiore dei Morlevent, restava immerso nei suoi pensieri, seduto sulla moquette, con la schiena appoggiata al muro. C’era appena... un’occhiata all’orologio... un quarto d’ora per salvare la situazione. L’assistente sociale stava per tornare. Aveva promesso a Siménon una “soluzione definitiva”. Fino a quel momento, gli aveva sfornato solo soluzioni provvisorie: la balia di Venise, la portinaia di fronte o la vicina di sopra. Ma quelle brave persone avevano troppa paura di vedersi rifilare tre orfani di quattordici, otto e cinque anni. Conclusione: erano lì nel loro appartamento ad aspettare l’”assistente sociale”, come la chiamava Venise.
“Ci metterà in un orfanotrofio” predisse Siménon.
Perché non avevamo parenti, non un nonno, uno zio o una zia, nemmeno un padrino. Niente. La famiglia Morleventm era costituita da tre bambini. Punto. Venise interrogò la sorella con lo sguardo.
“Un “orfanotrofio” spiegò Morgane “è una specie di albergo per i bambini che non hanno i genitori”.
“Ah, ho capito” disse semplicemente Venise.

 

ROMANZO STORICO

Silvia Alberti De Mazzeri
La Regina Veneziana

Venezia, marzo 1488
C’era qualcosa di strano nell’aria, pensò Marco Cornaro: stava arrivando la primavera, anche se tirava un vento gelido e piovigginava. Percorse a piedi il tragitto verso Palazzo Ducale, fermandosi a chiacchierare con le persone che lo fermavano. Gli chiedevano sempre le stesse cose: Cipro, la regina, e la piccola principessa Ciarla, ospite nel convento della badessa. Marco non si stancava mai di parlarne, ma quella mattina andava di fretta. C’era una riunione del Consiglio dei Dieci, di cui faceva parte. Mentre entrava nel Palazzo Ducale, incrociò il capitano Priuli.
Correva voce che sarebbe stato nominato capitano generale in levante, al posto di Antonio Loredan, e probabilmente era vero. Dopo la sconfitta dei turchi a Rodi, il Loredan aveva suscitato molte invidie, senza avere alle spalle il potere di una famiglia come i Mocenigo.
La sala del Consiglio era immersa nel grigiore della mattina piovosa. Le gocce battevano contro i vetri, producendo un rumore cupo. Si discuteva di questioni di poca importanza; il doge Barbarigo, che assisteva alla riunione, sbadigliava.
Finalmente qualcuno .si alzò e chiese la parola: Andrea Pisani, l’ultimo della famiglia Pisani che possedeva la banca più importante di Venezia. Ricco e detestabile, pensò il Cornaro, ma molto abile: faceva affari in tutti i porti del levante, perfino con i turchi.


Antonio Scurati
Una storia romantica

Come in una via crucis al contrario, infatti, a ogni nuova stazione la processione, invece di estenuarsi, si rinvigoriva. Al suo passaggio, le donne sventolavano dai balconi le bandiere cucite nottetempo, i bottegai sbarravano i negozi e schermavano con delle assi le vetrine, gli organizzatori distribuivano coccarde e i maschi alle finestre venivano trascinati nella corrente al grido di “Tutti gli uomini in strada!” Cosicché, alle due del pomeriggio del 18 marzo 1848, tutti gli uomini di Milano erano in strada, e molti di loro erano uomini armati.
Sulla base di un programma stampato quella mattina stessa da Cesare Correnti su dei manifesti subito affissi per le strade della città, i manifestanti stavano andando a chiedere al vicegovernatore O’Donnel l’immediata abolizione della vecchia polizia austriaca e delle leggi di sangue, la concessione della libertà di stampa e l’istituzione di una reggenza provvisoria del Regno e di una guardia civica agli ordini della municipalità.
Tutte richieste inammissibili da parte austriaca. Richieste che, per di più, culminavano in un appello scritto con parole forgiate nel ferro:
Popolo di Milano, l’Europa ha gli occhi su di noi per
decidere se il nostro lungo silenzio è di magnanimi prudenti
o di vigliacchi. Le province aspettano un nostro segno,
il destino d’Italia è nelle nostre mani, un giorno può
decidere la sorte di un secolo. Ordine, coraggio, concordia!


Helen Dunmore
L’assedio

Le statue scompaiono. Vengono protette con sacchetti di sabbia e impalcature di legno, trasportate in cantina o nascoste. Il cavallo di bronzo dello zar Pietro non s’impenna più al di sopra della città, sferrando calci in aria. I suoi zoccoli colpisco i sacchetti di sabbia e le assi di legno che lo circondano.
Tutta la città si mimetizza, e i Suoi abitanti collaborano a mascherarla portando in spalla picconi, pale e attrezzi per scavare trincee, sporcandosi il viso di sudore e terriccio, infangandosi gli stivali. Hanno preso tram e treni per uscire dalla città e andare a lavorare alle difese. Dormono sul fieno, fanno bollire l’acqua per il tè su un piccolo fuoco di ramoscelli e si fasciano con gli stracci le mani da cittadini, piene di vesciche. Studenti, scolari, donne e vecchi: sono tutti qui, a scavare per salvarsi la vita.
Questa è la linea della Luga. Nessuno riesce a spingersi oltre con l’immaginazione. Fiume, foresta, villaggi, colline basse. I boschi sprigiona una fragranza resinosa, come d’estate, quando gli abitanti di Leningrado vanno a fare gite in campagna. Ci sono le capanne ormai vuote.
Ci dovrebbero essere i figli dei contadini che guardano intimoriti i villeggianti, aggrappati alle gambe delle madri.


Rossana Ungano Bianco
Ammazzateli tutti, Dio saprà riconoscere i suoi

Aliénor aveva voluto, per quella sua ultima uscita, indossar e ancora una volta il suo abito di regina d'Inghilterra, anche se oramai non lo era più, se in quel momento era solo la madre del re , Giovanni senza Terra, un figlio che non aveva mai amato. Ma il vestito bianco ricamato con entre-lacs azzurri, il mantello azzurro, il velo bianco senato dal sottogola, non bastavano a cancellare la devastazione dei suoi ottant' anni.
I nobili baciarono un lembo del suo mantello, mentre Raymond VI e il re di Aragona le baciarono la mano.
Il vescovo si fece incontro sulla porta e il corteo , seguito dalla fila dei chierici e dei monaci , entrò e percorse la lunga navata in cui i mattoni rossi si alternavano alla pietra bianca, in un gioco di colori che alleggeriva l'austerità del luogo.
I cortei dei nobili si sistemò davanti all'abside, nelle cappelle illuminate dalla luce che entrava dalle bifore della torre nolare.
I maggiorenti della città e i loro ospiti entrarono subito dopo, dalla porta Miégeville.
Vista l'eccezionalità dell'avvenimento, era stata esposta la reliquia della Vera Croce, portata a Tolosa da Raymond, avo del
vedovo, che si era fatto onore alla prima crociata.
Matilda si sistemò lungo la navata, in modo da poter continuare a guardare Raymond Roger per tutto il tempo della funzione.
Anche Arnaud Amaury lo vedeva per la prima volta in quell'occasione e, nel guardarlo, aveva provato un moto di odio: quel giovane era di una bellezza indisponente.
Amaury veniva da una notte pessima, passata nell'Abbazia di Grandselve, e la rabbia non gli era ancora passata.
Come abate gli era riservato il privilegio di poter avere una cella per conto suo, mentre gli altri monaci dovevano dormire tutti insieme in uno stanzone.
Sfruttava quindi quella libertà per soddisfare i suoi desideri nascosti .


Karen Essex
I cigni di Leonardo

Ludovico però sorprese sia il marchese sia la marchesa, volgendo la sfortuna di Francesco presso i Veneziani a proprio vantaggio. Re Carlo era morto improvvisamente per aver battuto la testa contro l'architrave di una porta. Chi gli era succeduto, se non Luigi d'Orléans, nemico giurato di Ludovico? Appena diventato re, Luigi aveva annunciato che avrebbe tentato di riconquistare l'Italia per i suoi due figli, facendo dell'uno il re di Napoli e dell'altro il duca di Milano. Ludovico prese la minaccia sul serio e si riavvicinò all'imperatore Massimiliano. Ma chi avrebbe guidato il nuovo esercito tedesco-milanese?
Ludovico aveva offeso Francesco, dopo l'ultima guerra, rimproverandolo per aver lasciato fuggire i Francesi. E Francesco aveva minacciato Ludovico intraprendendo colloqui segreti coi Francesi stessi. Adesso che i Veneziani erano ostili a Francesco, Ludovico scorgeva un'occasione. Scrisse a Isabella, nformandola che avrebbe voluto ancora una volta Francesco al comando dell'esercito tedesco-milanese e che sarebbe andato a Mantova pe ridefinire i dettagli. Oh, sarebbe stato accompagnato da un seguito di mille persone. Ciò costituiva forse un problema per lei?


Elias Khuri
La porta del sole

Sono tornato al campo. Non tanto perché avessi paura di prender parte ai combattimenti a Maghdúshah, quanto perché avevo
perso la voglia di fare la guerra. La guerra è una voglia, come dicevi tu. Dicevi che la guerra era un fuoco che ti bruciava dentro, che non eri stato capace di aspettare che si decidesse militarmente ed eri entrato in al-Fatah, a combattere come piaceva a te.
Quel giorno, combattere non mi piaceva piú. Cosa avrei fatto, a est di Sidone? E poi perché continuare la guerra del Libano, che non era piú una guerra? Non dirò, come fai tu, che non è stata una guerra fin dall'inizio, che è stata una trappola che abbiamo costruito con le nostre mani e in cui siamo caduti. Non sono del tuo avviso. Abbiamo partecipato alla guerra civile del Libano perché ogni via ci era preclus . E perché dovevamo rovesciare il mondo in testa ai suoi padroni. La pensavo così, nel 1975.
Nel 1987, invece, dopo la caduta di Shatíla, quando siamo diventati degli sparuti gruppi di combattenti attorno a Sidone, non l'ho piú pensato. `Abd al-Mu'ti era diverso.


Patrick O’Brian
Clandestina a bordo

Noi facevamo vari giochi: il cugino Edward giocava con noi a scacchi, a tavola reale e a volano nel grande atrio d'ingresso;
e poi c'erano quelli che chiamava i giochi al buio, con le luci spente, le tende tirate: una specie di nascondino. E qualche volta acchiappava l'una e qualche volta l'altra, fingendo di volerci mangiare mentre noi strillavamo. Dopo un certo tempo, il gioco si andò trasformando. Il cugino Edward era sempre molto gentile, non mi faceva mai male e dava l'impressione di ritenere il nostro gioco, sebbene privato, una cosa senza importanza. Frances e io non ne parlavamo mai tra noi; ma quando andammo a scuola a Winchester. .. conoscete Winchester? La domanda suonò strana in quel monologo pronunciato con voce inespressiva.
«Solo di fama. Non conosco molto dell'Inghilterra.»
«Eravamo in un convento di suore domenicane francesi e molte ragazze erano figlie di émigrés. Quando fummo là, dicevo, e sentimmo tutti quei bisbigli e le risatine e le supposizioni più strampalate sul matrimonio e sui figli, e su ciò che succedeva prima di averli, Frances e io ci scambiammo uno sguardo di perfetta comprensione, sebbene nessuna delle due pronunciasse mai una sola parola al riguardo  Cominciai a capire allora che cosa fosse successo, anche se non riuscivo a comprendere perché si desse tanta importanza alla faccenda . La prima parte di foeda est in coitu et brevis voluptas la capivo molto bene, ma non la seconda. Non riuscivo ad associare la cosa al benché minimo piacere, per quanto breve; e quindi per me gran parte di ciò che leggevo e sentivo, amori appassionati, traversate a nuoto dell'Ellesponto e simili mi restavano incomprensibili in quanto il loro fine ultimo, il vero fine era quello. Nascondemmo perciò la nostra conoscenza di certe cose e ben presto imparammo anche a controllare la nostra scienza.


Don DeLillo
Mao II

Rashid solleva il bicchiere e beve. Brita vede che gli trema la mano destra. Rimette in posa la macchina fotografica e ricomincia a scattare.
Rashid posa il bicchiere e guarda la macchina fotografica.
Dice: - Mao credeva nel processo di riforma del pensiero. E’ possibile fare la storia cambiando la natura fondamentale di un popolo. Quando capì questo? Avvenne nel momento di maggior potere? O quando era un leader della guerriglia, all'inizio, con un piccolo esercito di vagabondi e reietti, nascosto sulle montagne? Deve dirmi se pensa che io sia totalmente pazzo.
Lei si sporge attraverso il tavolo e gli fa una fotografia.
Lui dice: - Mao considerava la lotta armata l'azione piú grande e definitiva della consapevolezza umana. E il dramma finale e la prova definitiva. E se nella lotta muoiono molte migliaia di persone? Mao ha detto che la morte può essere leggera come una piuma o pesante come una montagna. Se muori per un popolo e per una nazione la tua morte è massiccia e intensa. Se muori per gli oppressori, se muori lavorando per gli sfruttatori e i manipolatori, se muori egoista e vuoto voli via come una
piuma del piú piccolo degli uccelli.

 

SENTIMENTI IN VOLO

Anne Fine
Quell’arpia di mia sorella

Non è da me essere sospettoso. Ma in fondo non è da Estelle prepararsi per andare a dormire alle sei del pomeriggio.
«Come mai sei in vestaglia?» ho chiesto. E poi, vedendola sorridere: «Che cosa porti lì sotto?»
Sempre sorridendo, ha armeggiato con un bottone per volta, quindi ha spalancato le due metà della vestaglia e ci ha mostrato quello che nascondeva.
A Muffy è caduto il pollice di bocca. Estelle sembrava uscita da un film dell'orrore. Poteva essere la figlia di Dracula. Era tutta vestita di nero: camicetta nera, gonna nera, calze nere. Dicendo «vestita» sono stato generoso, perché la blusa le scivolava dalle spalle, la gonna era tutta sfrangiata e le maglie delle calze a rete erano enormi. Intorno al collo le pendevano vari giri di catene argentate. Quanto alla cintura, argentata anche quella, era ricoperta di centinaia di borchie che quando Estelle si muoveva o ci batteva sopra la luce facevano quasi male agli occhi.
Estelle ha infilato la mano nella tasca della vestaglia e ha tirato fuori un altro mucchietto di chincaglieria, che ha rovesciato sul tavolo. C'erano orecchini a forma di pugnale, braccialetti, anelli con scorpioni.
Muffy sembrava elettrizzata.
«Che succede?» ho chiesto. «Dove vai conciata così»
Estelle ha fatto uno dei suoi sorrisi irritanti e ha scrollato la testa. Ma non ha risposto.
«Lo so» ho detto. «È venerdì sera. E pensi ancora di andare alla festa di Alison!
«Non penso» ha detto Estelle con aria altezzosa. «Ci vado».
                          

Valérie Zenatti
Una bottiglia nel mare di Gaza

Ciao,
ti avverto subito, non ho i capelli lunghi, gli occhi nocciola – magari le sopracciglia depilate? – e tutta la compagnia bella con cui ha riempito metà della tua lettera. Ho invece i baffi neri e le gambe pelose. Che poi, a pensare ai baffi mi viene da ridere, perché ho dovuto raderli qualche anno fa per colpa di gente del tuo popolo…
Quanto ho riso leggendo la tua lettera! Da sbellicarmi. Datti al comico, sono sicuro che avresti un grande successo, soprattutto dalle parti di Gaza!
Signora “bottiglia piena di speranza in un mare di odio”, ti informo che sono un maschio, eh sì, quando si lancia una bottiglia in mare, bisogna star pronti a tutto, compreso il fatto che non la riceva il destinatario dei propri sogni. Del resto, se l’avesse trovata una ragazza, la bottiglia, ne avrebbe probabilmente fatto un candeliere senza poter leggere la tua bella prosa da cocca-di-papà tutta candida e sensibile. I palestinesi non parlano ebraico, vecchia mia, in tutti i casi non a Gaza. Non penserai mica che ci insegnino come lingua straniera la lingua del nemico, con tanto di compito alla fine di ogni trimestre e approfondimenti sui vostri scrittori? Non penserai mica che ci sia qualche bambino che rischia di prenderle dal padre perché porta a casa uno zero in ebraico? Se io riesco a leggerti, a scriverti, e anche a mandarti al diavolo, è perché sono stato obbligato a imparare l’ebraico, e ho perfino…


Dominic Barker
Blart

Nessuno era ,mai venuto per incontrare Blart prima di allora. Be', almeno, non una persona: a volte i maiali uscivano dal recinto e venivano a cercarlo. «Cosa vuoi?» chiese Blart, scortese. «Ragazzo» disse una voce asciutta sotto il cappuccio. «Sappi che per trovarti ho percorso molte miglia e ho affrontato innumerevoli pericoli in terre e mari sconosciuti. E che quello che ho da dire è di grande importanza.»
«Riguarda i maiali?» chiese Blart. «No» ammise la figura incappucciata dopo una breve pausa. «No. Non riguarda i maiali.» E con queste parole lo sconosciuto gettò indietro il cappuccio per rivelare una testa pelata e un viso sottile dai lineamenti marcati, con una barba bianca tutta arruffata. Ma erano soprattutto gli occhi a colpire l'attenzione. Per un uomo così anziano aveva occhi di un azzurro straordinariamente intenso. Occhi che per un breve istante ammutolirono perfino Blart.
«Mi chiamo Capablanca, e sono il più grande stregone vivente» annunciò il mago non senza una punta d'orgoglio nella voce.
«Allora fai una magia» chiese Blart, che non era il tipo da credere che un vecchio era un mago solo perché lo diceva lui. «Trasforma questo tavolo in un maiale.» «Cosa?» esclamò Capablanca.
«Sei sordo?» disse Blart. «No, non sono sordo» rispose Capablanca. «Ma trasformerò te in un maiale, ragazzo, se non mi ascolti.» «Wow, grande» disse Blart. «Lo faresti davvero?»
[…]Seguì una lunga pausa, e poi Capablanca cominciò in tono drammatico: «Sono venuto per portarti via con me, ragazzo. Perché il nostro destino è viaggiare in terre lontane, compiere imprese gloriose e fare tutto il possibile per salvare il mondo da un pericolo terribile.»


Beatrice Masini
Bambini nel bosco

«E il libro?» chiese Jonas. Nella concitazione se n'era completamente dimenticato.
«Qui» fece Cranach, picchiettandosi la spalla. «L'ho messo nello zaino che mi hai dato. C'è entrato appena appena. Sono io il Custode, no?»
«Bravo» disse Jonas. Dal faccino rivolto in su emanava una tale coraggiosa sicurezza che le bolle quasi non si vedevano più. Bisognava trovare una cura, da qualche parte. Ma non ora.
«Be', io sono il Custode, ma tanto nonni serviva più» disse Cranach.
«No, non è vero» osservò Jonas.
«Ma noi le storie ce le abbiamo tutte qui» Cranach indicò la testa «e qui» e puntò il pollice verso il cuore. «E non abbiamo più bambini a cui raccontarle. A parte noi, voglio dire.»
«Forse troveremo altri bambini» disse Jonas.
«Nel bosco?» chiese Lu, sporgendo col faccino sopra la spalla di Jonas, che se l'era appesa alla schiena come una bambina pellerossa che aveva visto in un film, un tempo molto lontano.
«Nel bosco, o chissà dove. I libri servono comunque. Per custodire le storie. Perché altri le possano conoscere» disse Jonas.
«Allora ci mettiamo anche la nostra, dentro?» Cranach s'illuminò tutto.
«Forse sì» fece Tom Due Volte. «Dopo, forse sì.»
E questa è la fine della storia? Ma no, questo è solo l'inizio.


Bianca Pitzorno
Re Mida ha le orecchie d’asino

Quella notte Làlage si svegliò all’improvviso nel cuore della notte. Era buio pesto, e per un attimo stentò a rendersi conto di dove si trovava. Le sembrava d’essere all’Adorazione, nella grande camerata con i trenta lettini circondati da tende bianche.
“Qualcuno sta chiacchierando sottovoce” pensò, sentendo un mormorio sommesso. “Finiranno per svegliare la suora.” Ma subito ricordò ch’era tornata a casa, riconobbe col corpo lo spazio del grande letto. Riconobbe la voce di Tilda.
“Sta sognando” pensò. Non si era mai accorta, prima d’allora, che la cugina parlasse nel sonno. -Sì- diceva Tilda. -Sì anch’io.- E poi: -Tanto. Ma dai! Lo sai benissimo quanto.- Sospirò, poi scoppiò in una breve risata. Chissà cosa stava sognando?
Làlage tratteneva il respiro per non disturbarla. E a un tratto si rese conto della posizione del materasso che pendeva dalla sua parte d’essere sola nel letto e che la voce della cugina non proveniva dal cuscino a fianco, ma da un punto della camera un po’ più lontano, in direzione della finestra, dove le persiane lasciavano trapelare dalla strada un pallidissimo filo di luce, interrotto su un lato da un’ombra più scura. Làlage ne fu così meravigliata che istintivamente cercò di sollevarsi sui gomiti per guardare e la rete del letto cigolò. -Vattene!- sussurrò Tilda in tono d’allarme. Fuori nella strada passi cauti e affrettati risuonarono sul marciapiede. -Chi era?- chiese Làlage sottovoce. La cugina non si mosse, non girò neppure la testa verso di lei. –Nessuno. Dormi. –Ti ho sentita. Parlavi con qualcuno.
[…]–Se ti racconto una cosa, mi giuri che non lo dici a nessuno?- esordì in tono da congiurata.


David Almond
Skellig

Qualcosa di piccolo e nero attraversò di corsa la stanza. La porta cigolò per un istante, prima di tornare immobile. Granelli di polvere sospesa brillavano nel fascio luminoso della torcia. In un angolo, qualcosa continuava a grattare sul pavimento. Feci qualche passo tra vecchi mobili, pensili di cucina, tappeti arrotolati, tubi, scatoloni, assi di legno, e sentii una ragnatela sul viso. Avanzai ancora, chinando la testa, e mi sentii sfiorare da altre ragnatele. Il pavimento era sconnesso e pieno di buchi. Aprii leggermente l'anta di un armadio e puntai la torcia all'interno, provocando un fuggi fuggi di cimici. In un grosso vaso di pietra trovai le ossa di un animale. Ovunque c'erano scarafaggi morti. Accanto a una parete c'era un mucchio di vecchi giornali, e quando mi avvicinai con la torcia vidi che risalivano a quasi cinquant'anni prima. Mi muovevo con estrema cautela, la bocca e il naso pieni di polvere, col timore che tetto e pareti cedessero da un momento all'altro. Sapevo che di lí a poco i miei genitori sarebbero venuti a chiamarmi. Dovevo sbrigarmi. Puntai la torcia dietro a un baule e lui era là.
L'ho già detto, pensai subito che fosse morto. Stava seduto con le gambe distese e la testa appoggiata al muro. Pallidissimo e smunto, era coperto di polvere, ragnatele e scarafaggi morti. Fissai il viso bianco come un lenzuolo e il lercio abito nero.
E poi lo sconosciuto aprì gli occhi e mi guardò.
— Cosa vuoi? — mi disse. Aveva la voce roca, come se non parlasse da anni e anni. Cosa vuoi? Avevo il cuore in gola.


Beatrice Masini
Ciao, Tu

Indovinami. Scoprimi. Sappimi. Sono quella con due centimetri di capelli o quella un po' bambina con la treccia dietro? Quella alta, misure d'armadio, o quella bionda, faccia buona, aria un po' da topo? E credi che faccia qualche differenza, il muso che ho, il colore degli occhi, la taglia, il girovita girotette? Ti amo alla stessa maniera da un metrocinquanta a un metrottanta, la concentrazione di ormoni adrenalina bacibacibaci è la stessa, credo. E non mi sai. Il bello di cominciare una scuola è solo questo: dietro non c'è niente, nessuno sa chi sei. Puoi buttarti alle spalle un passato di smorfiosa, un bollo di secchia: cambiare, una volta almeno. Nessuno ti conosce, puoi essere quello che vuoi. Hai questa possibilità. Bisogna spenderla bene.
Per questo, anche per questo mi diverto ad amarti. Perché non mi sai. Non puoi nemmeno riconoscermi dalla scrittura, basterebbe un mese, due, e già non funzionerebbe più. Non sai se sono bella, se sono un mostro, se ho le bolle sulle ali del naso, se mi lavo i capelli una volta al giorno o alla settimana. Non sai se scrivo le poesie, scalo le montagne o faccio tutt'e due le cose (insieme). Non sai se ti ho infilato questo messaggio nello- zaino all'intervallo, o quando sei andato a fare la pipì nell'ora di greco, o tra la terza e la quarta ora, che sei uscito in corridoio a salutare quel tipo nano della B. Non sai. Io invece so di te le seguenti cose: che hai il naso un po' storto (botta da piccolo? zuffa alle medie? volo dalla pertica?); che hai gli occhi color chicco d'uva; che sei troppo, troppo magro; che sei tanto, tanto carino. Mi basta, per adesso. Certo, ti amo è una parola grossa. Diciamo che ti, e basta.
E adesso indovinami.


Anne-Laure Bondoux
Le lacrime dell’assassino

Pablo li accoglieva a porta spalancata. Rideva davanti alla sorpresa che si dipingeva sulle loro facce quando scoprivano l’interno della casa. La biblioteca, i tappeti, le candele, le cartoline, le tende immacolate…Pablo offriva ai suoi ospiti un bicchiere di vino , proveniente dalla “riserva Seconda”, e gli piaceva farli chiacchierare. Gli portavano l’eco del mondo, dei suoi tormenti, delle sue convulsioni. Le parole terribili che pronunciavano salivano in modo strano nella stanza, come bolle che, toccato il soffitto, scoppiavano e sparivano. Le guerre, le carestie, i colpi di Stato, le epidemie, i flussi incessanti di denaro, gli scioperi, gli incidenti, i matrimoni dei principi e le cose automobilistiche andavano a cozzare contro il soffitto della piccola casa alla fine del mondo, e perdevano un po’ della loro importanza.
Poi, gli ospiti tacevano, per ascoltare l’ululato del vento dietro i vetri e bevevano il vino, mentre il loro sguardo vagava sugli strati di libri posati sugli scaffali.
Altri anni passarono.
Più tardi, Terusa mise al mondo un bambino, una femmina.
Pablo propose a Terusa di chiamare la loro figlia Angelina. Lei, in quel nome, non vide altro che un paio di ali e un’aureola. Accettò senza esitare.


Jerry Spinelli
Star girl

Quel giorno, quando Stargirl arrivò in studio alla fine delle lezioni, Kevin le fornì le spiegazioni abituali mentre Robineau e io controllavamo le attrezzature. I giurati arrivarono, ma non fecero i buffoni come al solito e nemmeno si misero a ballare il tip tap sul palco: andarono dritti ai loro posti e si sedettero: Fu stargirl a ballare il tip tap e fare smorfie alle telecamere mentre Cannella le leccava il naso. Kevin rideva a crepapelle, ma le facce dei giurati erano torve. Una apparteneva a Hillari Kimble. I miei timori aumentarono.
M’infilai in sala controllo e chiusi la porta. Verificai il contatto con le telecamere. Eravamo pronti. Kevin e Stargirl si sedettero. Lanciai un ultimo sguardo oltre la vetrata. Per la mezz’ora successiva avrei visto il modo attraverso gli schermi. – Bene, ragazzi- dissi. –Cominciamo.- Spensi il microfono che  i metteva in contatto con lo studio e guardai i miei compagni. – Pronti?- Annuirono.
[…] Era per quel momento che vivevo, per l’inizio dello spettacolo. Ero il regista, il capo. Guardavo il programma svolgersi sugli schermi secondo i miei ordini. Ma quel giorno l’eccitazione abituale mancava. Uno oscuro timore serpeggiava lungo i cavi.

 

SENZA DIMORA

Steve Lopez
Il solista

Cammino per le vie di Los Angeles, sono di fretta, in ufficio mi attende l’ennesima scadenza imminente. All’improvviso, mi appare davanti. È vestito di stracci, all’angolo di una via affollata del centro, e suona Beethoven con un violino malandato che sembra uscito da un bidone dell’immondizia.
«Niente male» lo incoraggio quando smette.
Lui fa tre passi indietro, guardandomi con sospetto. Noto che sul violino, decorato da ghirigori tracciati con un pennarello indelebile, è inciso il nome di Stevie Wonder.
«Oh, grazie mille!» esclama, chiaramente lusingato. «Dici davvero?»
«Non sono un musicista» rispondo. «Ma sì, mi sembra ben eseguito.»
È nero, poco più che cinquantenne, con occhi color caramello che si illuminano per  il mio complimento. Sta in piedi accanto a un carrello del supermercato stracolmo di tutto ciò che possiede, eppure, nonostante i vestiti sudici e logori, c’è una specie di ruvida eleganza in lui. Parla con un leggero accento che non riesco a decifrare. Forse è del Midwest, oppure della regione dei Grandi Laghi, in ogni caso devono avergli insegnato a stare ben dritto, a scandire le parole, a rispettare se stesso e gli altri.


Joseph Roth
La leggenda del santo bevitore

«Ma è senz’altro troppo poco» rispose il signore. «Gliene occorreranno certamente duecento».
Il vagabondo indietreggiò di un passo, pareva sul punto di cadere, tuttavia riuscì a
rimanere in piedi, pur barcollante. Poi disse: « È  chiaro che preferisco duecento franchi
a venti, ma sono un uomo d’onore. Pare che lei non mi capisca. Il denaro che mi offre, non
posso accettarlo, e questo per i seguenti motivi: primo, perché non ho il piacere di
conoscerla; secondo, perché non so come e quando potrò renderglielo; terzo, perché lei non
ha nemmeno la possibilità di sollecitarne la restituzione. Non ho infatti un indirizzo.
Sto quasi ogni giorno sotto un ponte o l’altro di questo fiume. Ma, come ho gia affermato
una volta, sono un uomo d’onore, anche se senza indirizzo.»
«Anch’io non ho indirizzo,» rispose il signore maturo «vivo anch’io ogni giorno sotto un
ponte o l’altro, ciò nonostante la prego di accettare amichevolmente i duecento franchi,
una somma ridicola, del resto, per un uomo come lei. Per quanto riguarda la restituzione,
devo ora fare un discorso più lungo per spiegare come mai non posso indicare, per esempio,
una banca, cui poter rendere il denaro. Deve sapere che sono diventato cristiano dopo la
storia della piccola Teresa di Lisieux. E adesso sono particolarmente devoto a quella
statuetta della santa che è nella cappella di Santa Maria di Batignolles, e che lei non
avrà difficoltà a trovare. Non appena, dunque, avrà i miseri duecento franchi, se la sua
coscienza la spingerà a non rimanere in debito di questa somma ridicola, vada, la prego,
nella chiesa di Santa Maria di Batignolles e depositi là, nelle mani del prete, che avrà
appena finito di dire la messa, il denaro. Perché se c’è qualcuno a cui lei è debitore,
non può essere altri che la piccola santa Teresa. Ma non si dimentichi: nella chiesa di
Santa Maria di Batignolles».

                     
Margaret Mazzantini
Zorro. Un eremita sul  marciapiede

Zorro non chiede. Prima, quand’ero regolare, ho chiesto, e ho sempre detto grazie, e
permesso, e scusi tanto. Adesso mi sono preso i miei privilegi. La mano la tiro fuori
solo in casi estremi.
[…] No, Zorro non pretende. Zorro non tende la mano, Zorro ha i pugni chiusi. Zorro ha
fatto una scelta. Certo, il destino gli ha dato una mano, il calcione gli ha dato, il destino.
L’altro giorno me ne sto lì, tranquillo, in panchina, che metto in ordine il cassetto qui
in alto (si tocca la testa), e mi viene vicino un bambino: «Signore… Signore…», bel bambino, bel cappottino…
«Che vuoi?»
Tende la manina con la moneta e aspetta. La madre sta a qualche passo, freme. Cos’hai
bella signora? Hai paura che t’inghiotto il figliolo? La miseria ti fa paura, quel colpo
malvagio del destino che a te per fortuna non è toccato?… Perché a me, signora, quelle
brutte monetine? Metallo che offende, signora. Zorro non ha chiesto, Zorro non necessita.
Hai tante bustine rigide di boutique che ti pendono dal braccio, devi aver sciupato un
bel po’ di grano stamattina. Ma ora, cos’è, bella Cormorana, passeggiando c’hai pensato,
che è freddo, che è quasi la Befana, c’hai pensato passeggiando, a tutta quella povera
gente che muore di fame, e tu, buttare tutto ‘sto grano per niente… Cos’è, sei nervosa
perché non ritiro la moneta? Vuoi darmi l’obolo per metterti un po’ in pace dentro? Per
goderti meglio il cachemirino di boutique? Però non ti vuoi avvicinare troppo. Capisco.
Mandi avanti il bambino. Capisco. Ah, certo, pedagogico, insegniamo alle piccole
generazioni la ginnastica della solidarietà.


Maud Lethielleux
Da qui vedo la luna

Ci siamo, e dagli con l’accanimento, sempre così a inizio novembre, c’hai tre tizi che
ti arrivano coi loro discorsi del cazzo e alè a tirar giù gradi al termometro. Sempre
previsioni catastrofiche, questi, col loro talkie-walkie e la loro cerata fluorescente,
chinati sopra di te manco fossi un cagnetto con la zampa ferita. É sempre peggio dell’anno
prima, è sempre un po’ prima nell’arco dell’anno, si lamentano, bisbigliano tra di loro,
e io sinceramente mi sganascio dal ridere perché so benissimo che ogni anno è la stessa
storia, non è peggio, non è meglio, la vita va così e mica bisogna metterla giù dura.
[…] Prima di andare via, la domanda tipica: Hai degli amici bisognosi?
E lì, me la ghigno, perché se c’è qualcuno che c’ha l’aria di essere bisognoso direi che
sono proprio loro, con quelle facce da umanitari che ripartono con le pive nel sacco.
Faccio no, mi rifilano un foglio di carta con su un numero speciale gratuito che si può
chiamare senza carta telefonica, mi spiegano che è appena stato aperto l’accoglimento
diurno e se ne vanno col muso lungo perché i gradi scenderanno ancora. Me ne fotto delle
loro previsioni, che se c’è proprio una cosa che non si può prevedere è cosa succede domani.
E questo, io,  non per dire, ma sono messa abbastanza bene per saperlo…


Fabrizio Filosa
Vite perdute per strada

Io di elemosina non ne ho mai chiesta e mai ne chiederò nella mia vita. Anche se mi trovassi senza mangiare da una settimana, non allungherei la mano, non la vedo come una cosa giusta. Tanti amici che si trovano nella mia condizione mi hanno consigliato: “Giacomo, ma perché non ti prepari un bel cartello con scritto che sei disoccupato, senza casa e senza soldi, e che c’hai fame? Ti siedi su un marciapiede dove passa tanta gente e aspetti. Vedrai che di soldi ne pigli.” Ma io c’ho troppa vergogna, non ce l’ho il coraggio, Invece quelli più giovani di me lo fanno, non gliene importa niente della dignità, inseguono la gente, rompono le balle, raccontano un sacco di storie.
Avevo anche pensato di mettermi davanti a qualche chiesa, non a fare l’accattone col cappello in mano, ma una specie di ambulante: mi ero fatto imprestare dei soldi e avevo comprato un po’ di santini e di medagliette sacre; mi ero immaginato di sedermi vicino alla porta e porgere la figurina in cambio di qualche cento lire. Volevo “vendere” qualcosa, perché così sì che sarebbe stato giusto accettare le monete. Tutto inutile, non sono mica stato capace, avevo troppa vergogna. Non oso nemmeno fare, come quasi tutti i disperati di Milano, il giro delle parrocchie dove frati, preti e anche volontari di buon cuore e portafoglio gonfio, distribuiscono ogni giorno qualche mille lire. […] Per dormire mi organizzo così: ho una coperta piccola che stendo sulla panchina per ripararmi la schiena dall’umidità e poi ho un sacco a pelo leggero, solo che adesso comincia ad essere sporco e rotto. Poi ho anche una seconda coperta che mi metto addosso quando fa freddo. Non mi serve altro.

                                                 
Delphine de Vigan
Gli effetti secondari dei sogni

…C’è come una città invisibile nel cuore stesso della città. La donna che ogni notte dorme nello stesso posto, fra le buste di plastica e nel sacco a pelo. Direttamente sul marciapiede. Gli uomini sotto i ponti, nelle stazioni, la gente distesa sui cartoni o rannicchiata sopra una panchina. Un giorno cominci a notarli. Per strada, in metropolitana. Non solo quelli che chiedono l’elemosina. Anche quelli che si nascondono. Li riconosci dall’andatura, la giacca sformata, il maglione bucato. Un giorno ti affezioni a una figura, una persona, ti fai delle domande, cerchi di trovare delle risposte,
delle spiegazioni. E inizi a contarli. Sono migliaia. Il sintomo del nostro mondo malato.
Le cose sono come sono. Ma io credo che occorra tenere gli occhi bene aperti.
Per cominciare.

Era la conclusione. Un’occhiata all’orologio, non ho sforato. Devo essere rossa quasi quanto il mio maglione, tengo la testa china, non oso guardare Marin, raccolgo i fogli sparsi sulla cattedra, devo tornare al posto, non sono sicura di farcela, quando sono emozionata le gambe non reggono, perché nessuno dice niente? Perché questo improvviso silenzio? Sono morti? Stanno ridendo e io non li sento? Sono diventata sorda come una campana? Non oso alzare la testa, se fossi dotata della funzione teletrasporto istantaneo a dieci minuti dopo, non sarebbe male, invece applaudono, non sto sognando, ho sentito bene, ecco, guardo, sono di fronte a loro, tutta la classe applaude, anche Léa Germain e Axelle Vernoux, Marin sorride.


Simona Brambilla
“L’altra, amara metà della strada”
Scarp de’tenis n. 169 di marzo 2013 p. 26

Sono donne sole, con i figli lontani, vittime di violenza o con storie di dipendenze
alle spalle. Sono donne che per un motivo o per l’altro non hanno una propria dimora:
alcune finiscono in strada, altre trovano soluzioni di emergenza presso amici, strutture
o parenti. Avelina, per esempio. È stata accolta con i figli in uno degli appartamenti
di terza accoglienza gestiti da un’associazione milanese.
La sua è una storia di fuga da un piccolo comune del Veneto in cui viveva da anni,
dopo essere arrivata in Italia dalla Romania. Avelina era riuscita ad integrarsi bene
nel contesto sociale e lavorativo, svolgeva attività di sostegno scolastico a bambini
disabili. Anche i suoi figli frequentavano la scuola con successo e soddisfazione, ma
nessuno sapeva del dramma di questa famiglia, un dramma fatto di violenze subite
silenziosamente e con paura, da 15 anni, per mano di un marito e padre padrone.
Avelina con fatica è riuscita a rompere la prigione in cui era rinchiusa: ha denunciato
ed è scappata a Milano. Dove è stata accolta in un appartamento di terza accoglienza,
al quale, malgrado tutto, lei e i figli sono riusciti ad adattarsi. Il processo a carico
del marito non ha avuto gli esiti che Avelina si aspettava. Così lei e i ragazzi, per
paura di essere rintracciati dall’uomo, hanno deciso di scappare ancora, di raggiungere
un’altra grande città, di affrontare nuovamente una situazione di estrema precarietà.
Essere senza dimora, per loro significa essere senza radici. E non riuscire a ricostruirle
perché costretti a scappare.


Lucia Vastano
La magnifica felicità imperfetta

Ma all’apice di quello che ritenevo un enorme successo personale, arrivò l’ennesima
batosta. Alla chiusura del Raj Ghat e dopo aver cenato, me ne ero andato, come al solito
da oltre una settimana, a dormire sotto il cavalcavia vicino alla stazione dei bus.
La mia scatola di lustrascarpe mi faceva da cuscino. Avevo sistemato i miei guadagni
dentro una busta di plastica prudentemente nascosta sulla mia pancia, sotto i pantaloni.
La faccio breve: nel cuore della notte una banda di ragazzini mi rubò tutto quello che
avevo, tranne i miei appunti che vennero buttati per aria mentre venivo pestato con calci
e pugni e umiliato con sputi. Uno di loro lo riconobbi per il suo pronunciato strabismo.
Era anche lui un lustrascarpe al Raj Ghat. Fu il più violento di tutti. Mi pisciò addosso
e mi minacciò: “Non farti più vedere da queste parti. Altro che Piccolo Ghandi! Tu con le
tue stupide canzoni hai affamato me e i miei fratelli”.
Mi cacciarono anche da sotto il cavalcavia e così cominciai a vagare per la città vecchia
cercando un riparo. A Delhi quell’inverno faceva particolarmente freddo e non pochi
senzatetto erano già morti assiderati. Non volevo fare la stessa fine, ma il mio orgoglio
mi impediva di tornare con la coda tra le gambe nel mio quartiere a Paharganj. Per tutta
la notte cercai un luogo protetto, ma quelli dove si poteva trovare un po’ di calore erano
tutti sovraffollati e la gente mi respingeva lontano dal fuoco e persino dall’angolo di
una coperta consumata. D’altro canto l’avevo imparato bene, quella era la dura legge della
strada: chi tardi arriva mal alloggia. E io, ovunque, ero sempre l’ultimo arrivato.

 
Luisa Mattia
Noi siamo così

Li buttarono fuori. Cioè, se ne andarono via dalla stazione, perché a una certa ora la
ronda della polizia, su certe macchinette che parevano giocattoli del Luna Park, si
metteva precisa a dare un’occhiata angolo per angolo e a chiedere i documenti a tutti.
“A te, filetta bella, se resti qua, te puntano subito. So’ segugi, quelli” borbottò Fausto.
“Annamo và”. La invitò a seguirlo, tirandosi dietro un cartone ripiegato e una copertaccia
lercia, che chissà dove aveva rimediato.
Arianna lo seguì fino al lato della stazione.
“Da qua ce viene caldo”, commentò lui, buttando il cartone su una grata.
Era proprio così.
Saliva un getto d’aria calda che pareva un soffio da orco, un respiro da gigante.
“Viene da sotto. Dalla metro o che so io”, spiegò Fausto. “’na mano santa pe noi poveracci.
Nun ce manca proprio gnente, no? Il riscaldamento te lo sognavi, eh!”. Rise, porgendole
la coperta.
“Buttete giù e fatte ‘na dormita”.
“Ma no, la coperta tienila tu”, fece Arianna, con un’aria che sembrava gentile e invece
era solo un modo, in quel momento, di evitare di sdraiarsi su quel pezzo di lana insozzato
da chissà quante notti passate sulla strada. “Mi basta il cartone e l’aria calda.
Freddo non fa”, aggiunse.
Fausto non si stranì per il rifiuto della ragazzina. Anzi, la guardò contento. A lui
la coperta faceva comodo. Ci si avvolse dentro, come un gatto nella tana.
“’Notte”, mormorò. Un sorso di vino dal cartone e s’accucciò. Un minuto dopo era già
addormentato.

STORIE DI FANTASMI

Robert Louis Stevenson
Il ladro di cadaveri

Il rifornimento di cadaveri era una continua preoccupazione sia per lui sia per il suo maestro. In quella classe nutrita e attiva, la materia prima dell’anatomista si esauriva senza tregua, e il lavoro che si rendeva quindi necessario non solo era spiacevole in sé, ma comportava pericolose conseguenze per chiunque vi fosse coinvolto. La politica del signor K era di non far domande riguardo ai commerci del suo mestiere. “A noi la salma, a loro i soldi,” affermava, indugiando sull'allitterazione “quid pro quo”. Poi, in tono piuttosto empio, diceva ai suoi assistenti: “Non fate domande, per il bene della vostra coscienza”. Nessuno intuiva che i cadaveri venivano procurati attraverso l’assassinio. Se qualcuno avesse accennato loro quell’idea, l’avrebbero rifuggita inorriditi; ma la leggerezza con cui egli parlava di argomenti tanto seri era di per sé un’offesa alle buone maniere e una tentazione per gli uomini con cui aveva a che fare.


Gertrude Atherton
La morte e la contessa

Era tardi. Nel cielo nero non v’era che qualche stella. Dalle lontane pianure solitarie e dal  mare non giungeva un alito di vento. Non ci sarebbero stati naufragi quella notte, e tutto il mondo sembrava in pace. Al villaggio le luci erano spente. Una splendeva nella torre di Croisac, dove la giovane moglie del conte giaceva ammalata. Il prete era da lei quando il treno era passato tuonante, e la donna gli aveva mormorato: “Se ci fossi io, su quel treno! Oh, com’e solitaria questa terra! Questo freddo castello echeggiante, senza nessuno con cui parlare, giorno dopo giorno! Se la malattia mi ucciderà, mon père, ditegli di seppellirmi nel cimitero accanto alla strada, cosicché due volte al giorno io possa sentire il treno passare… il treno che va a Parigi! Se mi lasceranno laggiù oltre la collina, griderò ogni notte nella mia bara”.


Washington Irving
La leggenda di Sleepy Hollow

“Se solo riuscissi a raggiungere il ponte. – pensò Ichabod, - sarei salvo”. In quell’attimo udì il destriero nero ansimare e soffiare proprio dietro di sé: immaginò persino di percepirne il fiato ardente. Un altro calcio convulso nello costole, e il vecchio Polvere da sparo balzò sul ponte: tuonò sopra le assi risonanti, raggiunse la riva opposta e solo a quel punto Ichabod si gettò uno sguardo indietro per accertarsi che il suo inseguitore stesse svanendo, secondo la regola, in un lampo di fuoco e zolfo. Allora vide lo spettro alzarsi sulle staffe e gettargli contro la sua stessa testa. Ichabod si concentrò a scansare l’orrido missile, ma era troppo tardi. La testa colpì il suo cranio con un colpo tremendo e lui fu scaraventato a terra, mentre Polvere da sparo, il destriero nero e il cavaliere fantasma gli passavano accanto in un vortice. Il mattino dopo il vecchio cavallo fu trovato senza sella mentre brucava placido l’erba davanti alla casa del padrone. Ichabod non si presentò a colazione.


Charles Dickens
Un canto di Natale

- In questo periodo dell’anno, - disse lo spettro, - soffro di più. Perché mai, perché mi sono limitato a camminare tra la folla dei miei simili con gli occhi rivolti al suolo, senza levarli a quella divina Stella che condusse i Re Magi verso una povera dimora? Non c’erano forse altre povere case dove quella luce avrebbe potuto condurre uno come me? Scrooge era assolutamente sgomento, nell’udire lo spettro continuare su quel tono, e cominciò a tremare vistosamente. – Ascoltami! – gridò lo spettro – Il mio tempo sta per finire. – Farò come dici, - replicò Scrooge, - ma non essere così duro con me, Jacob, non usare questa eloquenza, te ne prego! – Non mi spiego come ora io ti possa apparire in forma visibile. Sono rimasto seduto accanto a te, invisibile, per giorni e giorni. Non era certo un’idea gradevole. Scrooge rabbrividì, tergendosi il sudore dalla fronte. – Non è la parte meno spiacevole del mio castigo, - proseguì lo spettro. – Sono qui stanotte per avvisarti che hai ancora una possibilità, una speranza di sfuggire al  mio destino.


Edith Nesbit
Corpi scolpiti nel marmo a grandezza naturale

- Raccontatemi tutto, Signora Dorman, - dissi. – Non dovete temere di parlarmene. Non sono come quei giovani che si fanno beffe di cose del genere. E in parte era vero. – Bè, signore, - disse con un filo di voce, - avrete visto nella chiesa, accanto all’altare, due figure. – Volete dire le statue dei cavalieri in armatura? – chiesi cordiale. – Voglio dire quei due corpi scolpiti nel marmo a grandezza naturale, - replicò lei, e io dovetti ammettere che la sua descrizione era mille volte più vivida della mia, per non parlare di una certa forza inquietante nell’espressione “scolpiti nel marmo a grandezza naturale”. – Dicono, insomma, che alla vigilia di Ognissanti quei due corpi si mettono a sedere sui loro lastroni e poi scendono a terra e camminano lungo la navata, con tutto il marmo, e, quando l’orologio della chiesa batte le undici, escono dal portone e seguono il cammino dei cadaveri, e se a terra è bagnato le loro impronte restano visibili fino al mattino.


Ralph A. Cram
Nella rocca di Kropfsberg

All’epoca giù al villaggio c’era una piccola locanda appartenente a un vecchio di nome Peter Rosskopf, e i due giovani stabilirono lì il loro quartier generale. La prima sera cominciarono a cavar di bocca all’anziano locandiere tutto quel che sapeva sulle leggende e sulle storie di fantasmi collegate a Brixleg e ai suoi castelli, ed essendo assai loquace quel signore li colmò della gioia più frenetica con le sue storie sui fantasmi dei castelli situati attorno all’imboccatura della Zillerthal. Come si può immaginare, il vecchio credeva a ogni parola che pronunciava, e figuratevi il suo orrore e il suo stupore quando, raccontata ai suoi ospiti la storia particolarmente agghiacciante di Kropfsberg e della sua rocca infestata, il più vecchio dei due ragazzi, di cui non ricordo il cognome ma che di nome si chiamava Rupert, disse calmo:- Il vostro racconto è proprio interessante: domani notte dormiremo alla rocca di Kropfsberg e voi ci fornirete tutto quello che potrà servirci per metterci comodi. Il vecchio quasi cadde nel fuoco. – Ma vi ha dato di volta il cervello? – esclamò con gli occhi strabuzzati. – Il castello è infestato dallo spettro del conte Albert, vi dico!


Fitz-James O’Brien
Cos’è stato?

Non riesco a capacitarmi, neanche oggi, della situazione in cui mi ero cacciato. Di quell’evento stupefacente ricordo ogni dettaglio. L’immaginazione tenta invano di afferrare il tremendo paradosso.
La creatura respirava. Sentivo il calore del suo fiato sulla mia guancia. Si dibatteva con forza. Aveva mani che mi stringevano. La sua pelle era liscia, come la mia. Era lì stesa, premuta contro di me, solida come la pietra, eppure del tutto invisibile! Mi  stupisco di non essere svenuto o impazzito all’istante. Qualche istinto strabiliante deve avermi sostenuto, giacché, invece di mollare la presa su quel tremendo Enigma, in quel  momento di orrore mi parve di recuperare altra forza e strinsi la presa con tanta strabiliante energia da sentire la creatura tremare di sofferenza.


Edgar Allan Poe
La mascherata della morte rossa

Ed ecco, prima che l’eco dell’ultimo rintocco si fosse del tutto perduta nel silenzio, molti tra la folla ebbero modo do notare la presenza di una strana maschera, fino allora sfuggita all’attenzione generale. La voce di quella nuova presenza si sparse rapida attorno, sussurrata di bocca in bocca, finché dall’intera compagnia non si levò un brusio generale di disapprovazione e sorpresa, presto degenerato in esclamazioni di terrore, di orrore e di disgusto. Difficilmente si sarebbe potuto immaginare che, in una tanto fantasiosa collezione di immagini, una qualsiasi apparizione potesse suscitare tanto raccapriccio. In effetti, il principe non aveva posto limiti a chi si fosse voluto sbizzarrire nella scelta delle  maschere per quella sera; ma la figura sconosciuta si era spinta troppo oltre i pur stessi limiti della tolleranza del principe. Vi sono corde, anche nel cuore dei più temerari, che non si possono far vibrare impunemente.


Mary Shelley
Frankenstein

Mi svegliai di soprassalto per l’orrore. Una fredda rugiada mi copriva la fronte, battevo i denti e le mie membra caddero in preda alle convulsioni: allora, la luce fioca e gialla della luna, che si faceva strada a fatica attraverso gli scuri della finestra, vidi il disgraziato, il miserabile mostro che avevo creato. Teneva sollevata la tenda del letto, e i suoi occhi, se occhi si possono chiamare, erano fissi su di me. Le sue mascelle si aprirono e borbottò suoni inarticolati, mentre un ghigno gli raggrinziva le guance. Può darsi che avesse parlato, ma io non sentii. Una mano era tesa in avanti, forse per trattenermi, ma io fuggii e corsi da basso. Mi rifugiai nel cortile della casa in cui abitavo, dove rimasi per il resto della notte, camminando su e giù in massima agitazione, tendendo l’orecchio, cogliendo e temendo ogni suono come se dovesse annunciare l’arrivo del cadavere demoniaco cui avevo tanto miserabilmente dato vita.

 


STORIE DI MIGRANTI

Isabel Wilkerson

Al calore di soli lontani

Nessuno sa chi fosse stato il primo a partire. Accadde nel pieno della Prima guerra mondiale. Il Nord, a corto di forza lavoro, rivolse lo sguardo verso la classe dei servitori del Sud, dopo secoli di indifferenza. Il Nord cercava manodopera e la manodopera cercava una via di fuga. Nessuno sa esattamente quando o come cominciò, chi fu a compiere il primo passo di ciò che divenne la Grande Migrazione.

Uno dei primi accenni all’esodo si può rintracciare in un evento isolato e casuale, accaduto il 5 febbraio 1916. Meritò un singolo paragrafo sul Chicago Defender, il quotidiano che fu agitatore e cronista involontario del movimento, e probabilmente nei mesi precedenti fu anticipato da altre partenze passate inosservate agli occhi dei più. Le ferrovie della Pennsylvania avevano iniziato a reclutare manodopera nera a basso costo già nel 1915, in gran segreto. Ma in pochi notarono che nel febbraio 1916, a inverno inoltrato, mentre in Europa infuriava la guerra e si parlava di un intervento americano, qualche centinaio di famiglie nere se ne andò in silenzio da Selma, Alabama, dichiarando, secondo la breve citazione del Defender, che «a queste condizioni non vale la pena di restare».

 

Fabio Ged

Nel mare ci sono i coccodrilli

La zona in cui vivevamo, il distretto di Ghazni, è abitato solo da hazara, cioè afghani come me, con gli occhi a mandorla e il naso schiacciato anzi, non proprio schiacciato, un po’ più piatto degli altri, più piatto del tuo, Fabio, ad esempio: i tratti delle popolazioni mongole. C’è chi dice che siamo i discendenti dell’armata di Gengis Khan. C’è chi dice che i padri dei nostri padri erano i koshani, gli antichi abitanti di quelle terre, i leggendari costruttori dei Buddha di Bamiyan. E c’è chi dice che siamo schiavi, e come schiavi ci tratta.

Uscire dal distretto o dalla provincia di Ghazni era estremamente pericoloso per noi (e dico era solo perché oggi non so com’è, ma non credo sia cambiato molto), perché tra talebani e pashtun, che non sono la stessa cosa, no, ma a noi hanno sempre fatto del male uguale, dovevi stare attento a chi incontravi. Per questo, credo, siamo partiti di notte, noi tre: io, mia madre e l’uomo – l’uomo che chiamerò semplicemente uomo – cui mamma aveva chiesto di accompagnarci. Siamo partiti a piedi e per tre notti, con il favore del buio e la luce delle stelle – che è una luce che, in quei posti senza corrente elettrica, è davvero potente – abbiamo camminato verso Kandahar.

Io indossavo il mio solito pirhan grigio, pantaloni larghi di cotone e giacca lunga alle ginocchia della stessa stoffa. Mamma camminava con il chador, ma si era portata nel sacchetto un burqa da indossare quando incontravamo delle persone, un modo buono per non far vedere che era una hazara e per nascondere me.

 

Michael Ondaatje

L’ora prima dell’alba

Non ci fermammo mai, passammo oltre l’uomo che correva, e quello seduto al tavolo che compilava furiosamente i documenti di transito, e un cuoco che arrostiva su un falò qualcosa il cui profumo era un dono, un desiderio nella notte, una tentazione di abbandonare la nave dopo tutta la cucina europea di cui ci eravamo cibati per giorni e giorni. Cassius disse: «È un profumo d’incenso». E la nostra nave proseguì, guidata da quegli sconosciuti. Raccoglievamo le cose fresche provenienti dalla terraferma e barattavamo ciò che cadeva sul ponte. Chi può dire quali e quanti scambi avvennero quella notte, quale fertilizzazione incrociata ebbe luogo mentre i documenti legali d’entrata e uscita venivano firmati e rimandati a terra, e mentre entravamo e uscivamo dal breve e temporaneo mondo di El Suweis.

Scivolammo dentro alla luce mattutina. Gruppi di nubi chiazzavano il cielo. Non ne avevamo viste altre per tutto il viaggio, a parte le nere montagne di nubi che si erano addensate sulla nave per poi abbattersi su di noi durante la tempesta. Poi, mentre ci avvicinavamo a Porto Said, una tempesta di sabbia si levò e rimase sospesa su di noi, ultimo rantolo d’Arabia, gettando nel caos il radar di bordo. Proprio per questo il nostro arrivo a El Suweis era stato così accuratamente programmato per la mezzanotte: affinché potessimo arrivare a Porto Said con la luce del giorno, quando la navigazione poteva basarsi su ciò che era possibile vedere a occhio nudo. Entrammo così nel Mediterraneo con gli occhi bene aperti.

 

Margaret Mazzantini

Mare al mattino

Angelina sa cosa vuol dire ricominciare.

Voltarsi e non vedere più niente, solo mare.

Le tue redici inghiottite dal mare, senza alcuna ragione accettabile.

Angelina ha imparato a convivere con l’irragionevolezza umana. La sola immagine di quel dittatore col turbante e gli occhiali da sole la rendeva aliena, strana. Che faccia era quella? Quei capelli come ragni inchiostrati.

Per undici anni Angelina è stata araba.

Era poco prima dell’adolescenza. Era stato un passaggio. Un calcio nella pancia.

C’è qualcosa nel luogo dove si nasce. Non tutti lo sanno. Solo chi è strappato a forza lo sa.

Un cordone sepolto nella sabbia.

Un dolore che tira sotto e ti fa odiare i tuoi passi successivi.

Hai perso il senso dell’orientamento, la stella che ti seguiva e che tu seguivi nel buoi incandescente di quelle notti mai del tutto nere.

Per un pezzo Angelina non ha più saputo chi fosse. Qualcuno le aveva dato quel nome: Tripolina.

Tripolini. Generazioni di stracci buttati indietro.

Senza più nulla, smistati nei campi profughi in Campania, in Puglia e al nord. Le file davanti ai cessi con la carta igienica. Pantofole nel fango. Pasta nelle vaschette di plastica. Un televisore su una sedia pieghevole. Un campeggio di finti turisti. La zona di transito dove la vita si arresta.

Per i più anziani era stato impossibile pensare di ricominciare.

 

Abla Farhoud,

La felicità scivola tra le dita

Emigrare, andarsene, lasciarsi dietro le spalle quello che verrà presto chiamato il mio sole, la mia acqua, i miei frutti, le mie piante, i miei alberi, il mio paese. Quando si vive nel proprio paese natale, non si dice il  mio sole, si dice il sole, ed è già tanto parlarne, visto che è lì e c’è sempre stato; non si dice il mio paese perché ci si abita… È tutto solo questione di abitudine, anche la devozione… Me ne sono accorta quando ho lasciato il mio paese per andare a vivere in quello di mio marito.

L’altro giorno dicevo ad Abdallah che sono emigrata per la prima volta quando mi sono sposata, quando sono andata a vivere a Bir-Barra. Ha riso tanto. Per lui emigrare vuol dire cambiare nazione, attraversare oceani, andare in capo al mondo. Però si è ricordato che del profeta Maometto si dice che è emigrato dalla Mecca a Medina, due città della stessa regione in cui si parla la stessa lingua. Non so se Maometto si sia sentito un emigrante, ma questa è, per me, la parola giusta, perché proprio vivendo nel paese di mio marito ho cominciato a fare confronti, a vedere le differenze, ad avvertire la lontananza e provare nostalgia, ad aver voglia di essere da un’altra parte e non poterci andare, a sentirmi una straniera.

Per me era un’altra nazione. Anche se la distanza fra i nostri due paesi si poteva percorrere facilmente a piedi, lì le persone erano diverse e per loro ero diversa io. Per loro ero straniera, oltre a essere quella che si era portata via Salim, che avrebbe dovuto sposare una ragazza del paese. Non avevo il loro accento, a loro non piaceva quello che piaceva a me e a me non piaceva quello che piaceva a loro, la frutta e la verdura non avevano lo stesso sapore, il prete del paese non era più mio padre, il paesaggio non era quello cui ero abituata.

 

Julie Otsuka

Venivamo tutte per mare

Sulla nave dormivamo giù di sotto, in terza classe, al buio e in mezzo al sudiciume. I nostri letti erano brandine di metallo accatastate una sopra l’altra, con materassi duri, sottili e scuriti dalle macchie di altri viaggi, altre vite. I nostri cuscini erano imbottiti di pula di grano. I passaggi fra le cuccette erano disseminati di avanzi di cibo, e i pavimenti bagnati e scivolosi. C’era un solo oblò, e la sera, dopo la chiusura del boccaporto, il buio si riempiva di sussurri. Farà male? I corpi si giravano e rigiravano sotto le coperte. Il mare saliva e scendeva. L’aria era umida e soffocante. Di notte sognavamo i nostri mariti. Sognavamo sandali di legno nuovi e lunghissime pezze di seta color indaco, e sognavamo di vivere, un giorno, in una casa con il camino. Sognavamo di essere alte e belle. Sognavamo di essere tornate nelle risaie, da dove avevamo voluto disperatamente fuggire. I sogni delle risaie erano sempre incubi. Sognavamo le nostre sorelle più grandi e carine, vendute alla casa delle geishe da nostro padre perché il resto della famiglia potesse sfamarsi, e ci svegliavamo con la sensazione di soffocare. Per un istante ho creduto di essere lei.

 

 

David Bezmozgis

Il mondo libero

Cara Brigitte,

stamattina, mentre andavamo all’appuntamento con il funzionario che si occupa del nostro caso, abbiamo visto una bambina e il fratello vomitare nel cortile di una pensione. Gli stessi due avevano vomitato nel cortile anche ieri mattina. Entrambe le volte, la madre, una donna di Tbilisi che sembra incapace di aprire la bocca senza gridare, è corsa fuori in cortile agitando una ciabatta. Questa torna ogni sera dal mercato con un casco di banane chiazzate grande all’incirca quanto come un grosso gatto. Ma non la si può biasimare. Tutti impiegano qualche giorno per abituarsi alle banane. Non costano molto, ma se si vuol fare economia si possono comprare quelle troppo mature. Costano ancora meno delle mele. Vien da pensare che le coltivino in Austria. Non riesco nemmeno a descriverti gli ananas, i polli e la carne di vitello nelle macellerie. Tutti gli emigrati, me compresa, vanno in giro guardando le vetrine sbalorditi. Sembra quasi di non vivere nella realtà ma in un film. E visti i pochi soldi che abbiamo, potrebbe tranquillamente essere un film. La seconda sera che stavamo qui, io e Igor abbiamo esplorato una via costeggiata da negozi di abbigliamento. Ce n’erano per uomini e per donne. Gli austriaci entravano e uscivano di corsa portando con sé sacchetti e scatole, tutti quanti vestiti come i manichini nelle vetrine. In confronto a loro sembravamo dei pezzenti. Io indossavo il vestito giallo pallido che papà mi aveva portato da Stoccolma. Quel vestito ha quasi quattro anni. Ti ricordi quant’ero emozionata quando me l’ha dato? A pensarci adesso mi sento in imbarazzo. Vestita così davanti a tutta quella gente, avrei voluto essere invisibile, così avrei potuto ammirare tutto quanto ed evitare che gli altri vedessero me e quell’orribile vestito.

 

Kim Thúy

Riva

La polizia aveva l’ordine di lasciar partire “clandestinamente” tutte le barche che trasportavano vietnamiti di origine cinese. I cinesi erano capitalisti, quindi anticomunisti per la loro origine etnica, per il loro accento. Gli ispettori dovevano quindi perquisirli, spogliarli fino all’ultimo minuto, fino all’umiliazione. Io e la mia famiglia siamo diventati cinesi. Abbiamo rivendicato i geni dei miei antenati per potercene andare con il tacito consenso della polizia.

[...]

Quando ero con Sao Mai – ed ero sempre con Sao Mai -, i camerieri del vecchio Circolo Sportivo di Saigon non mi offrivano mai una bibita al lime dopo le lezioni di tennis, perché l’avevano già portata a Sao Mai. All’interno delle ampie recinzioni di quell’elegante club sportivo, esistevano solo due categorie di persone ben distinte: l’élite e i servi, i bambini re con i vestiti bianchi splendenti e i piccoli raccoglitori di palle scalzi. Io non facevo parte di nessuna delle due. Ero soltanto l’ombra di Sao Mai. Mi spostavo dietro di lei per poter spiare le conversazioni di suo padre con i compagni di tennis durante l’ora del té. Parlava a noi tutti di Proust mangiando madeleines, sprofondato nella poltrona di giunco, sulla terrazza del Circolo Sportivo di Saigon. Ci descriveva con uguale trasporto le sedie del Jardin du Luxembourg e le gambe lunghissime delle ballerine di cancan. Ci faceva viaggiare attraverso i suoi ricordi di studente straniero a Parigi. L’ascoltavo da dietro la sua sedia, senza respirare, come un’ombra, perché non smettesse.

 

Vidiadhar Surajprasad Naipaul

L’enigma dell’arrivo

 Sapevo anche che la casa era vicina a Stonehenge. Sapevo che c’era un viottolo che portava fino al circolo di pietre; sapevo che lungo il sentiero, in alto, c’era un punto panoramico. E quando smise di piovere e la nebbia si alzò, dopo i primi quattro giorni, un pomeriggio uscii e mi misi in cerca del viottolo e del punto panoramico.

Il villaggio era insignificante. Io ne ero contento. Veder gente mi avrebbe reso nervoso. Nonostante gli anni che avevo trascorso in Inghilterra avevo sempre i nervi un po’ allo scoperto ogni volta che andavo in un posto nuovo; era una reazione istintiva dovuta al fatto che continuavo a sentirmi in un paese straniero e avvertivo la mia diversità, la mia solitudine. E ogni trasferimento in un luogo diverso – che a un altro sarebbe potuto sembrare un’avventura – per me era come tormentare una vecchia ferita.

 

STREGHE E ANGUANE

Sebastiano Vassalli
Chimera

Al contrario, Antonia da allora aveva incominciato a tenere in pubblico e liberamente quel genere di discorsi di cui s'è detto, sostenendo – empia! - che i preti non servono a niente e Dio nemmeno; e che è meglio godersi i propri soldi che darli al prete. La faccenda del sabba era venuta in seguito, da sé e senza particolare clamore, ma non c'era da stupirsene: dati i precedenti e le inclinazioni della ragazza, cos'altro poteva fare, una volta adulta, se non, appunto, andare ai sabba? Così infatti era accaduto. L'estate scorsa – disse don Teresio – Antonia era stata sorpresa più di una volta, di notte e in mezzo ai campi, dai confratelli di San Rocco che andavano attorno a cercare i risaroli fuggiaschi, e riconosciuta per strega; anzi a questo proposito don Teresio spiegò che gli incontri tra la strega e il Diavolo avvenivano abitualmente – secondo quanto se ne diceva in paese – sul dosso cosiddetto dell'albera, sotto un'albera secolare di castagno già tristemente nota, in passato, per i riti diabolici che vi si compivano. Quell'albera portava incisa sul tronco una scritta misteriosa, con le lettere in parte rovesciate, che i villani s'ostinavano a leggere albera dei ricordi mentre invece chissà cosa significava, e in quale lingua!


Marisa Milani
Streghe morti ed esseri fantastici nel Veneto oggi

La strega vive apparentemente da sola in case miserabili situate di solito ai margini dell'abitato, davanti alle quali se ne sta seduta in attesa di gettare il suo sguardo malefico sui passanti. La si può incontrare per strada verso l'imbrunire, ma di preferenza va in giro di notte, quando le donne per bene se ne stanno in casa: il classico “viaggio” è ridotto al rango di vagabondaggio noturno e solitario. Può anche trovarsi mimetizzata tra i vicini di casa e nello stesso ambito familiare, nel qual caso perde le caratteristiche sopra descritte.
[…] Per una difesa preventiva è importante saper riconoscere le streghe e disporre di rapidi mezzi atti a impedire il malefizio, che può essere trasmesso anche solo dallo sguardo o da un semplice tocco: basterà recitare mentalmente qualche formula (invocazioni a Dio e alla Madonna) mista a ingiurie e accompagnata da gesti apotropaici, come le corna e le fiche.
[…] Anguana viene da un lat. pop. aquana “ondina”: è quindi uno spirito delle acque, perciò la ritroviamo sempre intenta a lavare e stendere bucati. Come i folletti, anche fate e anguane vivono in territori distinti, le prime nella bassa pianura e nella costa, le altre sui colli Berici, alpi e prealpi. […] Per il loro canto i poeti rustici vicentini le elevano a proprie muse...


Michail Bulgakov
Il maestro e Margherita

“Sono invisibile e libera! Sono invisibile e libera!...” Dopo aver volato per un po' sopra il suo vicolo, Margherita capitò sopra un altro che tagliava il primo ad angolo retto. In un attimo percorse questo vicolo rappezzato, rammendato, storto e lungo, con la porta sghemba della bottega dove vendono il petrolio a quartini e liquido insetticida in bottigliette, e a quel punto realizzò che, pur essendo perfettamente libera e invisibile, doveva però essere un po' giudiziosa anche nel piacere. Soltanto per essere miracolosamente riuscita a fermarsi, non era andata a sfracellarsi contro il vecchio e storto lampione dell'angolo. Dopo averlo scansato, Margherita strinse più forte la spazzola e si mise a volare più lentamente, badando ai fili dell'elettricità e alle insegne appese trasversalmente al marciapiede.
Il terzo vicolo portava diritto all'Arabat. A questo punto Margherita s'era del tutto avezzata a guidare la spazzola, aveva compreso che essa obbediva al minimo tocco delle mani o dei piedi e che sorvolando la città doveva stare molto attenta a non folleggiare troppo.


Umberto Matino
L’ultima anguana

“E come sono fatte?”
“Hanno l'aspetto di ragazze bellissime, con la pelle bianca come la luna, le labbra rosse come ciliegie mature, e in capelli sono lunghi e neri. Il vecchio parroco, che aveva tanto studiato, una volta mi ha spiegato che sono delle ninfe. Credo che volesse dire che assomigliano alle fate: a me sembrano invece delle streghe! Le anguane vivono in posti sconti, nel fondo di valli strette e scure, dove dalle rocce sgorgano le sorgenti. Si rifugiano dentro le caverne ed escono fuori da quei rifugi soltanto di notte.”
“Ci vedono al buio?”
“Certo, come i gatti! I loro occhi brillano come le stelle in cielo.”
Olinda si interruppe, girò lentamente lo sguardo fissandoli uno a uno, e proseguì con un filo di voce: “Dovete stare molto attenti, perché sono pericolosissime: in un attimo possono trasformarsi in lunghi serpenti schifosi o in bisce con le ali. Quando le anguane si mutano in serpi, strisciano sotto il letto dei poveri cristiani e gli ciuciano il sangue dagli oci mentre dormono.”
Un brivido percorse il gruppo dei bambini.


Lawrence Norfolk
La grande festa di John Saturnall

Correvano più forte che potevano, precipitandosi fuori dalla capanna e attraversando il prato buio, e John sentiva il cuore martellargli il petto e la paura rivoltargli le budella. Accanto a lui, sua madre stringeva la pesante sacca in una mano e il suo polso nell'altra, e l'erba alta sferzava le loro gambe mentre arrancavano verso la salvezza della collina. Dietro di loro, la cantilena della folla si fece più stridula.

Miele dell'arnia! Succo dal tino!
Vieni fuori, strega! Beviti il tuo vino!

Il tanfo oleoso del fumo di sego aleggiava nell'aria calda della sera. Il fragore dei colpi su pentole e tegami si mescolava alle grida degli abitanti del villaggio. John sentì che sua madre serrava la stretta, tirandoselo dietro. Udiva i colpi della scomoda sacca contro le gambe di lei, il respiro che le raschiava in gola. Il cuore gli percuoteva il petto. Giunti al limitare del prato, si arrampicarono su per il primo pendio.


Michela Murgia
Accabadora

Le parole di Andrìa erano state folli come la luce nel suo sguardo mentre le diceva, e per Maria non avevano alcun senso; eppure accostate a determinati ricordi un senso cominciavano ad averlo. Mentre spartiva i pomodori in tocchi, rivedeva la figura della vecchia sarta raggomitolata vicino al camino quella mattina stessa, perfettamente vestita e pettinata come se fosse appena rientrata, o sapesse già che ci sarebbe stato motivo di uscire. Maria aveva smesso da tempo di interrogarsi sulle misteriose uscite notturne dell'anziana madre adottiva, ma ora quella dimenticanza le tornava addosso come un elastico di fionda, e bastava a insinuarle il dubbio che Bonaria Urrai avesse qualcosa di grave da nasconderle. Era la prima volta che accadeva, e Maria non sapeva gestire quel sospetto, tanto era incongruente con la fiducia che la legava alla donna che l'aveva fatta figlia.


Isabelle Allende
Il quaderno di Maya

Ho saltato due volte la riunione delle streghe buone nella capanna, la prima quando Daniel era qui e la seconda questo mese perchè io e Blanca non siamo potute andare a Isla Grande; minacciava tempesta e la capitaneria aveva proibito la navigazione. Mi è dispiaciuto molto perchè era prevista la benedizione del neonato di una delle streghe buone e io mi ero preparata per annusarlo, mi piacciono i bambini quando ancora non parlano. Ho sentito davvero la mancanza del nostro sabba mensile nel ventre della Pachamana, con quelle donne giovani, sensuali, sane di mente e di cuore. Tra loro mi sento accettata, non sono la gringa, sono Maya, sono una delle streghe e appartengo a questa terra.


Katherine Howe
Le figlie del libro perduto
                 
Una delle donne che non riconobbe le fece cenno di salire sul tavolo, e con le gambe tremanti Deliverance eseguì, allargando le membra sotto la presa delle levatrici. Strinse gli occhi, il corpo irrigidito dalla vergogna, mentre le dita esperte delle donne cercavano il marchio traditore sulla sua pelle. Sentì che cercavano tra i peli sotto le ascelle, lungo i fianchi, spostando la piccola luce della candela dietro le ginocchia, e poi nelle profondità segrete tra le gambe. Altre due mani frugarono tra i capelli, spostandosi con metodo dalla fronte alle cavità dietro le orecchie.
Deliverance sentì la candela indugiare tra le cosce aperte, con la fiamma bollente vicino alla pelle tenera dei suoi punti più segreti, e sentì le donne confabulare tra loro. Escrescenza soprannaturale di carne, sentì che diceva una, prendendo appunti, e dall'altra parte del tavolo mormorii d'assenso, mentre delle dita rozze le tenevano le gambe aperte. Klacrime calde e infelici riempiono gli occhi di Deliverance, scendendo fin giù nelle orecchie. Poi la candela fu rimossa. Quando aprì gli occhi vide un circolo di facce che la fissavano, tutte indurite dal giudizio di condanna.
 

Nerea Riesco
La ragazza e l’inquisitore

Dopo il rito della spazzola Ederra taceva, si avvicinava con il suo passo cadenzato al punto in cui Mayo aveva disteso le coperte e s’infilava accanto a lei. Si sdraiava e, nell’oscurità, le cercava la mano; allora Mayo infilava il naso fra i suoi capelli e aspirava forte, lasciandosi inondare dal suo profumo arboreo. A volte, nelle notti d’estate, prima di dormire ballavano insieme, nude, sotto la luna, per divertire i saggi spiriti del bosco e ottenerne in cambio saggezza e preveggenza.
Quella notte, ripensando a tutti i dolci particolari della sua vita passata, Mayo riuscì a rilassarsi e chiuse gli occhi. Poi, quasi senza accorgersene, si alzò e cominciò a canticchiare con la sua vocetta da passero una melodia che non conosceva. Si sfilò la camicia, sciolse i legacci della gonna e la lasciò cadere a terra, godendo della sua lieve carezza lungo le gambe. E senza nemmeno raccogliere i suoi indumenti si mise a danzare canticchiando fra gli alberi, sotto le stelle, mentre la luce della luna le lambiva le spalle e accoglieva in un’impercettibile carezza la curva delle sue natiche. E proprio allora sentì che qualcuno la stava osservando.

 

TATUAGGI

Manuel Vazquez Montalban
Tatuaggio

Si fermò a un metro dal pattìno e osservò prima diffidente, poi sorpresa, quel corpo sempre inerte cullato appena dal soave moto delle acque. La ragazza mosse lo sguardo in cerca di qualche bagnante e i suoi occhi si posarono sull’uomo calvo e olivastro che osservava la scena a circa venti metri. Rincuorata dalla compagnia, si avvicinò al corpo. Poi lo toccò con una mano, e il singolare nuotatore si scostò dal pattìno docile come un morto. La ragazza si voltò verso il guardone e gridò
in una lingua strana. L’uomo non attese oltre. Cercò di nuotare in modo veloce e composto per arrivare presto e bene, come meritava una ragazza tanto splendida. L’evidenza di quel corpo esamine prese il sopravvento sull’attrazione per la donna.
L’uomo calvo e olivastro spinse il corpo in una zona dove poteva toccare e, una volta raggiunta, lo trainò, seguito dalla ragazza che non smetteva di gridare. Quelle grida aprirono gallerie di attesa tra la folla che nuotava e coloro che sulla sabbia stillavano sudore o se lo detergevano. Alcuni bagnanti cercarono di contendere all’uomo calvo e olivastro il ruolo di protagonista dell’accaduto. Ma lui conservava il proprio trofeo con un braccio stretto sotto le ascelle del morto.
Giunti a riva furono in quattro a portare il corpo sulla sabbia. L’uomo calvo e olivastro dirigeva le operazioni. Il corpo venne trasportato a bocconi, così come era stato recuperato dalle acque. Indossava appena uno “slip”, era giovane, biondo, abbronzato. Lo adagiarono supino sulla spiaggia. Un grido di orrore diradò il capannello di folla seminuda. Non aveva volto.
I pesci gli avevano mangiato le guance e gli occhi. Lo girarono. Fu allora che un ragazzino notò qualcosa di leggibile sulla schiena. Qualcuno lesse a voce alta la scritta tatuata sulla pelle: Sono nato per rivoluzionare l’inferno.


Nicolai Lilin
Storie sulla pelle

Già al secondo anno di scuola il mio quaderno era pieno di immagini legate al mondo dei tatuaggi della tradizione criminale.
In ogni momento libero cercavo di copiare a memoria tutti i disegni che vedevo sui corpi dei vecchi, era una sorta di studio, un processo di ricerca, anche se era fatto in modo naturale, istintivo. Spinto dalla curiosità , attratto dalla forza dei simboli, speravo di svelare il significato che nascondevano e che mi perseguitava come una follia. Sarei stato capace di vendere l’anima per scoprire i segreti che serpeggiavano in mezzo a quelle figure: la gente che le portava impresse sulla pelle aveva vissuto cose di cui noi ragazzini sapevamo poco o niente, e il codice era complicato, non c’era verso di venirne a capo come si fa con le parole crociate o mettendo insieme i pezzi di un puzzle. I numerosi tentativi falliti svegliavano in me la febbre dell’azzardo, mi sentivo sfidato dalla tradizione e volevo a tutti i costi possederla, con quell’arroganza infantile che spesso ci portiamo dietro negli anni, anche fino alla morte.
A quei tempi non sapevo niente dell’etica dei tatuaggi, ero ipnotizzato soltanto dall’estetica di quel mondo magico, e come la farfalla attratta dalla luce si spinge dentro le fiamme senza accorgersi che sta per morire, così anch’io rischiavo, mettendo alla prova la pazienza dei criminali onesti con la mia voglia di scoprire certi segreti che loro non mi avrebbero mai rivelato, neanche sotto tortura. Per niente al mondo, dice l’etica del tatuaggio siberiano, quei segreti devono essere raccontati a parole. Ma questo l’avrei capito più tardi, a forza di schiaffi con cui i vecchi ripagavano generosamente il
mio interesse.


Ray Bradbury
L’uomo illustrato

Si tolse la camicia e l’arrotolò tra le mani. Aveva il corpo ricoperto da tatuaggi, dal cerchi azzurro alla base del collo fino alla cintola.
“Ne ho anche sotto” aggiunse, indovinando i miei pensieri.
“La mia pelle brulica di figure. Stai a vedere.” Aprì le mani. Su un palmo era raffigurata una rosa appena colta, con stille di acqua cristallina tra i morbidi petali dal colore delicato. Allungai la mano per toccarla, ma non era che un tatuaggio.
In quanto al resto, non so dire quanto a lungo rimasi a fissarlo: era tutto un’orgia di razzi, fontane e figure umane, un tale intrico di particolari variopinti che mi pareva di udirne le voci, mormorii esili e sommessi provenienti dalle folle che abitavano quel corpo. Quando contraeva i muscoli, le minuscole bocche fremevano, i minuti occhi verde e oro ammiccavano e le manine rosee gesticolavano. Su tutto il torace si stendevano prati dorati, montagne e fiumi azzurri, stelle, soli e pianeti disseminati lungo una Via Lattea. Le persone raffigurate erano raccolte in gruppetti di venti o anche più, sparsi
sulle braccia, sulle spalle, sulla schiena, sui fianchi, sui polsi, e sul ventre piatto. Si scorgevano nel folto di foreste di peli, annidate fra una costellazione di efelidi, che sbirciavano dall’incavo delle ascelle gli occhi risplendenti come diamanti. Pareva che  ognuno fosse intento nella propria occupazione, ognuno un ritratto a sé stante.
“Oh, sono bellissimi!” esclamai.


Joyce Carol Oates
La ragazza tatuata

Alma, si chiamava.
Nessun cognome?
Sì, la chiazza che aveva sulla guancia era un tatuaggio. Forse rappresentava una falena, come faceva a saperlo?
Le altre macchie, anche quelle erano tatuaggi, certo.
Tatuaggi grossolani, osservò Dimitri. Chiedendosi chi glieli avesse fatti. (Erano stati fatti in prigione? Era possibile.)
Adesso la stava rifocillando e la guardava mangiare.
Non era cibo lasciato nei piatti dai clienti, ma avanzi decenti presi in cucina che egli stesso aveva riscaldato.
A volte guardare le donne che si ingozzavano lo disgustava, ma Alma era diversa. Era una bellissima oca morbida e carnosa che avevi voglia di ingrassare. Avevi voglia di riempirle le guance e la gola bianca come il latte con cibi più ricchi fino a farle gonfiare, maturare, scoppiare il fegato.


Herman Melville
Taipi

Disteso supino sulla nuda terra, c’era un uomo, il quale, benché si sforzasse di mantenere un’assoluta compostezza, evidentemente sopportava dolori atroci. Il suo aguzzino, chino su di lui, lavorava, giuro, di martello e scalpello come un tagliapietre. Con una mano reggeva un bastoncino, il quale a un’estremità finiva con un dente di pescecane, mentre sull’altra estremità l’uomo batteva con un legno a forma di mazzuolo, facendo tanti piccoli buchi nella pelle, che contemporaneamente
si riempivano della materia colorante in cui era stato intinto il dente di squalo. E infatti, a portata di mano c’era un guscio di cocco contente la miscela, ottenuta mescolando a non so quale succo vegetale le ceneri dell’”armor”, vale a dire della noce-candela, ceneri che sono conservate appunto per questo uso. L’artista aveva accanto, sciorinati su un pezzo di tappa piuttosto sudicia, una quantità di singolari ordigni d’osso e di legno, da adoperarsi nelle diverse fasi dell’intervento;
alcuni di essi terminavano con una punta sottile e, a guisa di matite bene affilate, servivano a dare gli ultimi tocchi o, come nel caso che avevo sott’occhi, a lavorare i punti più sensibili del corpo; altri invece mostravano tutta una serie di dentellature, che li facevano assomigliare ad altrettanti seghetti: servivano per sbozzare il lavoro e, più ancora, per incidere le linee rette; le dentellature di alcuni erano disposte invece a forma di piccole figure: bastava appoggiarle alla pelle, un colpo di mazzuolo, e lasciavano un’impronta indelebile. Particolarmente incuriosito fui da un paio di strumenti dai manici curvati in maniera singolarissima, tanto da farmi pensare che servissero a essere infilati nelle orecchie, per tatuare i timpani. In complesso, quella mostra di strumenti richiamava alla mente gli oggetti dall’aria cruenta, dai manici di madreperla, che si vedono allineati in begli astucci di morbido velluto a fianco delle poltrone del dentista.

 
Stieg Larsson
Uomini che odiano le donne

Mikael fu svegliato alle sei dal sole che gli batteva in faccia attraverso una fessura delle tende. La testa gli doleva in maniera diffusa e sentiva male quando toccava il cerotto. Lisbeth Salander era stesa sulla pancia, con un braccio sopra di lui. Guardò il drago che le correva lungo tutta la schiena, dalla scapola destra fino alla natica.
Contò i suoi tatuaggi. A parte il drago sulla schiena e la vespa sul collo, aveva una serpentina intorno a una caviglia, un’altra intorno al bicipite del braccio sinistro, un segno circense sul fianco e una rosa sulla coscia. A eccezione del drago, i tatuaggi erano piccoli e discreti.


Franco Cuomo
Il tatuaggio

Aveva una farfalla tatuata in corrispondenza del coccige, poco al di sotto della vita, laddove i glutei si separano. Soltanto adesso Fabio la scorgeva. Era un tatuaggio dal tratto essenziale ma di coloritura forte, con sprazzi di rosso e blu notte nelle ali dispiegate verso le quasi androgine rotondità dei fianchi. Fabio ne sfiorò con dita leggere i contorni, come temendo di svegliare la farfalla, e le ali parvero per un attimo vibrare, in procinto di prendere il volo. Un tremito in
effetti le animava a ogni minimo scuotimento dell’epidermide, sia pure causato da un semplice respiro, illudendo la vista nello stesso ingenuo modo di una lanterna magica.
Fabio ne fu attratto. Indulse per qualche secondo a osservarle, così nitide nella loro speculare geometria, sollecitandone il movimento con una morbida pressione delle dita, che fece scorrere su e giù per le vertebre di Maddalena, dalla nuca fin sotto l’osso sacro e poi di nuovo verso il collo. Due, tre volte.
Non sentiva più il cerchio alla testa né torpore. Perfino quella parvenza di nausea che da tempo connotava i suoi risvegli sembrava essersi dissolta. Accentuò la pressione delle mani, facendole scivolare sui fianchi. Maddalena sospirò forte, scuotendosi senza però smuoversi dalla sua posizione prona, che le impediva di guardarlo in viso. Il respiro di entrambi si fece affannoso; le ali della farfalla si agitarono.


Elizabeth McCracken
Morire porta male

Forse vi chiederete come mai una ragazza ebrea di Des Moines ha tre Gesù tatuati addosso: uno che ascende al cielo su una coscia, uno crocifisso sull’altra e uno che conduce un’apocalisse in miniatura sotto la spalla destra. Non è stata la religione a mettermeli: è stato Tiny, mio marito. Ho anche un Buddha sulla schiena. Mi voleva fare un Mosè che divide le acque del Mar Rosso, ma non avevo più posto. Inoltre gli ho detto che cominciavo a sentirmi come un libro a fumetti dei
Grandi Personaggi della Religione.
A queste parole ha assunto un’aria sognante,  “Brigham Young”,ha detto, “E qualche moglie”
Gli ho detto: “ Tiny, non ho posto per un poligamo”. Anche Tiny si era sposato tre volte prima di conoscermi, una moglie dopo l’altra. Io ho avuto solo lui, l’unico, e ora sono sei mesi che è morto.


J. Acosta
Il cacciatore di tatuaggi

La mia coscienza è tatuata. I miei tatuaggi non sono sulla pelle. (Bugia: ho baci e graffi tatuati sulla schiena.) Ho tanghi tatuati sulla nostalgia d’una bocca, poesie tatuate sulla mia apocalittica angoscia; il mio petto è stato tatuato per sempre da una donna d’acqua che ci ha scritto il suo nome col sangue mestruale e mi ha detto: “ sei mio, bastardo, soltanto mio”.
Potrebbe essere chiunque. Ogni tatuaggio racconta una storia. Potresti essere tu…A volte la storia non è d’un tatuaggio ma di una cicatrice. Un lampo sulla pelle. Che io sia me, che io sia tuo. Il tatuaggio è una cicatrice volontaria.
Le nostre storie d’amore lasciano cicatrici sulla pelle del bacio, sull’alcol che beviamo, sull’incertezza dei giorni che passano. Ogni mattina la nostra nudità ci mostra quelle cicatrici. Ma il tatuaggio è un marchio di sovranità sulla pelle.
Un territorio  esclusivo di ombre, un’ombra di luce, un’arena di calligrafia e malinconia epidermica. Calligrafia di tristezze dei riti compiuti in nome di quel dolore moderno prodotto dall’ansia di libertà.


TORCE DI LETTURA

Louise Soraya Black
Il cielo color melograno

«Oggi zio Mammad e io abbiamo fatto una bella chiaccherata» annunciai.
Nasrin mise in bocca un po’ di riso e si leccò le dita. Baba prese dello yogurt da una ciotola.
«Mi ha dato un libro di poesia occidentale» continuai.
Maman scosse la testa. «Mio fratello! Se fosse per lui, anche tu e Nasrin sareste in Inghilterra
adesso. Non farti riempire la testa di sciocchezze».
«Non sono sciocchezze. Mi piace leggere».
«Fai attenzione, azizam» mi mise in guardia lei. «I giovanotti in gamba non vogliono mogli
con il naso sempre nei libri. Vuoi passare il resto della tua vita come me e Baba?».
Nasrin ridacchiò e mi diede una gomitata sotto al tavolo. Sentii il volto avvampare.
«Voglio studiare letteratura all’università. Anzi, voglio studiarla in Inghilterra» esclamai
prima di riuscire a fermarmi.
Un lampo attraversò gli occhi di Maman. Allontanò il piatto e mi scrutò da sotto le ciglia
pesantemente truccate. «La decisione spetta a te» rispose, ma era una bugia e io lo sapevo.
Ci fu un momento di silenzio, poi Baba disse: «Se vuoi un hobby, Layla, perché non impari a
cucinare? Un buon fesenjan è meglio di qualunque libro inglese».
Non replicai. Mio padre cercava solo di aiutarmi, ma non capiva.
Più tardi, quando ormai tutti dormivano, sgusciai lungo il corridoio avvolto nella penombra
fino all’ingresso buio. La casa era silenziosa. Infilai la mano nella tasca del cappotto per
prendere il libro di poesie e tornai a letto in punta di piedi. Passai la notte a leggere
versi stranieri sotto le coperte, con l’aiuto di un dizionario e di una torcia. Quando
infine giunse l’alba, accompagnata dal cinguettio degli uccellini che bagnavano la punta
delle ali nel laghetto esterno, nascosi il volume sotto il cuscino.


Daniel Pennac
Come un romanzo

Essendo io in collegio, quello era un regalo inestimabile. Due grossi volumi che mi avrebbero
tenuto caldo per tutto il trimestre. Di cinque anni maggiore di me, mio fratello non era uno
stupido (e non lo è neanche ora) e sapeva benissimo che Guerra e pace è molto più di una
storia d’amore, per quanto ben costruita. Ma lui conosceva la mia predilezione per gli
incendi della passione e sapeva stuzzicare la mia curiosità con la formulazione enigmatica
dei suoi riassunti. (Un “pedagogo” per il mio cuore.) Credo proprio che fu il mistero aritmetico
della sua frase a farmi mettere temporaneamente da parte la mia Biblioteca dei ragazzi per
gettarmi a capofitto in quel romanzo. “Una ragazza che ama un tizio e sposa un terzo”: non
so chi avrebbe saputo resistere. E in effetti, non sono stato deluso, anche se mio fratello
aveva sbagliato i conti. Eravamo in quattro ad amare Nataša: il Principe Andrej, quel mascalzone
di Anatole (ma si può chiamarlo amore?), Pierre Bezuchov e io. Non avendo molte chance, fui
costretto ad “identificarmi” con gli altri. (Ma di certo non con quella carogna di Anatole!).
Lettura tanto più piacevole dal momento che si svolse di notte, alla luce di una lampada
tascabile, e sotto le coperte tirate su come una tenda in mezzo a un dormitorio di cinquanta
sognatori, russatori e sussultatori vari. L’angolo del sorvegliante, da cui scaturiva la luce
del lume da notte, era vicinissimo, ma insomma, in amore si gioca sempre il tutto per tutto.
Sento ancora lo spessore e il peso di quei volumi fra le mie mani: era l’edizione tascabile,
con in copertina un principesco Mel Ferrer dalle pesanti palpebre di rapace innamorato che
contemplava il delizioso musetto di Audrey Hepburn.


Isabel Allende
Paula

Suppongo che da questo sentimento di solitudine nascano le domande che spingono a scrivere,
nella ricerca delle risposte germinano i libri. La consolazione nei momenti di panico fu il
persistente spirito della Memé, che sempre abbandonava le pieghe della tenda per venire a
farmi compagnia. Il sotterraneo era l’oscuro ventre della casa, luogo sigillato e proibito
in cui sgattaiolavo attraverso una finestra di ventilazione. Mi sentivo bene in quella
caverna odorosa di umidità, dove giocavo a infrangere le tenebre con una candela o con la
stessa lanterna che usavo per leggere sotto le lenzuola di notte. Passavo ore immersa in
giochi silenziosi, letture clandestine e in quelle complicate cerimonie che inventano i
bambini solitari. Avevo immagazzinato una buona provvista di candele rubate in cucina, e
avevo una scatola con bocconi di pane e biscotti per alimentare i topi. Nessuno sospettava
delle mie incursioni nel ventre della terra, le domestiche attribuivano i rumori e le luci
al fantasma di mia nonna e non si avvicinavano mai. Il sotterraneo consisteva in due grandi
stanze del soffitto basso e del pavimento in terra battuta, dove erano visibili le ossa
della casa, le sue interiora di tubazioni, la sua parrucca di cavi elettrici; lì si ammucchiavano
mobili rotti, materassi sventrati, pesanti valigie antiche per viaggi via mare che nessuno
più ricordava. In un baule metallico segnato con le iniziali di mio padre trovai una collezione
di libri, favolosa eredità che illuminò quegli anni della mia infanzia: Il Tesoro della
Gioventù, Salgari, Shaw, Verne, Twain, Wilde, London e altri. Li ritenni vietati perché
appartenevano a quel T.A. dal nome impronunciabile, non osai portarli alla luce, e illuminata
dalle candele li divorai con la voracità che destano le cose proibite, come anni dopo lessi
di nascosto Le Mille e Una Notte, benché in realtà in quella casa non ci fossero libri
censurati, nessuno aveva tempo per sorvegliare i bambini e meno ancora le loro letture.


Alberto Manguel
Diario di un lettore

Eppure non tutto quello che Chateubriand ricorda è avversità.
Racconta infatti che da bambino si ritrovò a spasimare per Didone dell’Eneide e a tradurre
l’?naedum genitrix, hominum divûmque voluptas con tale ardore che il suo insegnante gli
strappò il poema dalle mani e lo mise a studiare le radici greche.

Le letture di Chateubriand da piccolo: «Rubavo mozziconi di ceri nella cappella per leggere
la notte quelle seducenti descrizioni dei turbamenti dell’anima». Anch’io ricordo di aver
letto, nel corso di un’estate meravigliosamente lunga, libri di ogni genere, un inaspettato
apprendistato erotico, sotto le lenzuola fresche, la pelle accaldata dal sole, la torcia
che faceva luce sulla pagina, incapace di dormire e di lasciare la storia in sospeso.


Elias Canetti
La lingua salvata

Quando la sera avevamo cenato e sparecchiato la tavola, quando i piccoli erano già a letto,
io andavo a prendere i volumi gialli e glieli mettevo sulla tavola, ben accatastati sulla
destra. Poi parlavamo ancora un poco, ma io, memore della pila di libri, avvertivo la sua
impazienza, la capivo, e me ne andavo a letto tranquillo, senza tormentarla. Mi chiudevo
alle spalle la porta del soggiorno e, mentre mi spogliavo, la sentivo camminare su e giù
ancora per un po’. Dopo essermi messo a letto stavo all’ erta per cogliere lo scricchiolio
della sedia quando lei ci saliva su, poi mi sembrava di sentirla mentre prendeva in mano il
volume e, quando ero sicuro che lo aveva aperto, volgevo gli occhi verso la lama di luce
che veniva da sotto la mia porta. A questo punto sapevo che per nulla al mondo la mamma si
sarebbe alzata, e allora accendevo la mia minuscola lampadina tascabile e mi mettevo anch’io
a leggere il mio libro sotto le coperte. Quello era il mio segreto che nessuno doveva conoscere
e che controbilanciava il segreto dei suoi libri.
La mamma continuava a leggere fino a notte fonda, io dovevo usare con parsimonia la batteria
della lampadina tascabile che mi concedevo con il mio modestissimo stipendio, di cui solo
una minima parte era devoluta a questo, perché quasi tutto lo risparmiavo tenacemente per
i regali da fare alla mamma.


Charles Bukowski
Panino al prosciutto

Ma quando tornavo a casa…
«SPEGNI LA LUCE!», urlava mio padre.
Stavo leggendo i russi, Turgenev e Gorky. Mio padre voleva che le luci fossero tutte spente
alle 8 di sera. Voleva dormire per essere fresco ed efficiente al lavoro, il giorno dopo. A
casa non parlava d’altro che del suo lavoro. Parlava a mia madre del suo lavoro dal momento
in cui metteva piede in casa la sera fino a quando andavano a dormire. Era deciso a far carriera.
«Bene, adesso basta con quei sfottuti libri! Spegni la luce!».
Per me, quei personaggi entrati da poco nella mia vita dal nulla erano tutto. Erano le sole voci
che mi parlavano.
«Va bene» dicevo.
Poi prendevo la lampada, mi infilavo sotto le coperte, tiravo sotto anche il cuscino, e
leggevo, col libro appoggiato al cuscino, sotto la trapunta. Faceva un gran caldo, la lampada
si surriscaldava, e facevo fatica a respirare. Alzavo la coperta per far entrare un po’ d’aria.
«Che cosa succede? È una luce quella? Henry, hai spento la luce?».
Tiravo giù in fretta la coperta e aspettavo che mio padre si mettesse a russare.


Marcel Proust
Del piacere di leggere

A volte a casa, nel letto, molto tempo dopo la cena, le ultime ore della serata ospitavano
la mia lettura, ma questo solo quando ero arrivato agli ultimi capitoli di un libro, quando
non restava più molto da leggere per arrivare alla fine. Allora, a rischio di una punizione
se fossi stato scoperto, e dell'insonnia che, finito il libro, poteva prolungarsi magari
tutta la notte, non appena i miei genitori erano a letto, riaccendevo la candela; mentre
nella strada vicina, tra la casa dell'armaiolo e la posta, immerso nel silenzio, c'era tutto
un cielo di stelle, buio eppure azzurro e a sinistra, sulla stradina rialzata, dove cominciava
a salire curvando, si sentiva vegliare, mostruosa e nera, l'abside della chiesa, le cui sculture
non dormivano la notte, la chiesa paesana ma storica, dimora magica del Buon Dio, del pane
consacrato, dei Santi multicolori, delle dame dei castelli vicini, che nei giorni di festa,
quando attraversavano il mercato facendo schiamazzare le galline e voltare le comari, venivano
a messa «con il tiro» e al ritorno non mancavano di fermarsi dal pasticcere in piazza a
comprare, appena uscite dall'ombra del porticato dove i fedeli, spingendo la porta girevole,
spargono i rubini erranti della navata, quei dolci a forma di torre, protetti dal sole con
una tenda, «manqués», «Saint-Honorés», e «génoises», il cui profumo vagolante e dolce è
rimasto associato in me alle campane della messa principale e all'allegria delle domeniche.
Poi l'ultima pagina era letta, il libro era finito. Si trattava allora di arrestare la corsa
sfrenata degli occhi e della voce che seguiva senza suono, fermandosi solo per riprendere
fiato con un respiro profondo.


Rudyard Kipling
Racconti della vendetta e della memoria

"Questo", disse Punch, "vuol dire parecchio, ed ora saprò tutto di qualsiasi cosa in tutto
il mondo". Lesse finché ci fu luce, senza capire un decimo del significato, ma stuzzicato da
visioni fugaci di nuovi mondi che gli sarebbero stati rivelati in seguito.
"Cos'è una "scimitarra"? Cos'è una "agnella"? Cos'è un "vile ussurpatore"? Cos'è una "pràtora
verdeggiante"?", chiese con le guance arrossate a una Zia Rosa stupefatta.
"Di' le tue preghiere e va' a dormire", rispose lei, e quello fu tutto l'aiuto che Punch
ottenne, allora o in seguito, dalla donna nel nuovo e dilettevole esercizio della lettura.
Zia Rosa conosce solo Dio e cose del genere, arguì Punch. Me lo dirà Zio Harry. […] Successive
passeggiate portarono altre storie, a mano a mano che Punch faceva nuove scoperte, poiché
la casa era ben fornita di vecchi libri che nessuno apriva mai: da Frank Fairlegh, in un'edizione
a dispense, alle prime poesie di Tennyson pubblicate anonime sullo Sharpe's Magazine, ai
cataloghi dell'Esposizione del '62, dai colori vivaci e deliziosamente incomprensibili,
oltre a pagine sciolte dei Viaggi di Gulliver. Non appena Punch fu in grado di mettere
insieme una serie di scarabocchi scrisse a Bombay, chiedendo che gli fossero spediti a giro
posta "tutti i libri del mondo". Il Papà non poté soddisfare la modesta ordinazione, ma gli
mandò le Fiabe dei fratelli Grimm e un libro di Andersen. Furono sufficienti. In qualsiasi
momento ne avesse voglia e se nessuno lo disturbava, Punch poteva trasferirsi in un mondo
tutto suo, fuori dal raggio d'azione di Zia Rosa e del suo Dio, di Harry e delle sue molestie,
e delle pretese di Judy che qualcuno giocasse con lei.
"Non disturbarmi, sto leggendo. Va' a giocare in cucina", brontolava Punch. "Tu che puoi".
Judy stava mettendo i denti ed era facilmente irritabile. Perciò si rivolse a Zia Rosa, che
investì Punch.
"Stavo leggendo", spiegò lui. "Leggendo un libro. Voglio leggere".
"Lo fai solo per darti delle arie", disse Zia Rosa. "Ma staremo a vedere. Ora giocherai con
Judy e non aprirai un libro per una settimana".


Stefano Benni
Di tutte le ricchezze

E così siamo rimasti soli, amabile lettrice, caro lettore. Il frastuono, il tormento, le
risate di queste pagine si sono placati. Ci guardiamo attraverso questo strano specchio che
è un libro. Ti immagino mentre leggi, nella luce piena di un giorno di sole, o in una sera
illuminata da un lampadario servizievole, oppure nella penombra notturna, mentre volti le
pagine a una luce fioca come quella della mia candela.

Molti libri sono stati scritti a lume di candela, non dimenticarlo.

[…] E penso a te che mi hai ascoltato. E mi hai reso diverso, nei mille pezzi di specchio,
perché sarò diverso ogni volta che mi rileggerai, e diverso per ognuno che mi leggerà,
svogliato o rapito. Questo è il segreto dei libri, la loro vita indomabile.
Anche tu pensami. Mentre poso la penna sul tavolo, con solenne lentezza, e la fiamma coraggiosa
della candela vacilla, si inchina, ma resiste e illumina.
Con il buio intorno, e noi che viviamo, in questo cerchio dorato.

 

VAJONT 9 ottobre 1963 - 9 ottobre 2013

Tina Merlin
Sulla pelle viva

Anche la direzione dei lavori ha visto e sentito tutto. Gli uomini di sorveglianza alla frana dicono a Caruso che è meglio far sgomberare la gente sotto il Toc. Caruso si consulta per telefono con Biadene e Venezia. Anch’egli è d’accordo e manda un telegramma al sindaco in questo senso. Ma la gente già fugge dal Toc portandosi dietro, nei carretti, ciò che può portare, assieme ai capi di bestiame. E quasi tutta la gente di Casso fa la spola per raccogliere le masserizie. Ogni volta che ritorna sul posto di partenza le fessure si sono allargate. Anche sulla strada di circonvallazione. Carretti e furgoni s’incastrano nelle fenditure. In questa condizione generale il Genio Civile di Belluno manda al ministero una lettera, richiamando l’attenzione del Servizio Dighe sul movimento franoso del Toc con i dati del mese di settembre che ormai sono grandemente superati dalla nuova situazione. Il giorno 8, i controlli ai capisaldi registrano un movimento dai 57 ai 63 centimetri.
Preoccupatissimi sono anche gli operai. Qualcuno non vuole più tornare a lavorare perché il movimento del monte si nota a vista d’occhio. I geometri della ex SADE ora ENEL sono anch’essi in allarme, ma confidano ancora che lo stacco della frana dal monte avvenga in tempi diversi, un po’ alla volta, come hanno sempre detto i dirigenti e i geologi e che, in ogni caso, produca al massimo un’onda di 20 metri.


Mauro Corona
Vajont: quelli del dopo

Sento spesso parlare di salvaguardia dei beni culturali. Queste sensibili premure per qualcosa che rischia l’estinzione arrivano puntuali quando siamo vicini a elezioni. Ma in realtà nessuno interviene a salvare la vecchia Erto e non vi è cieco peggiore di chi non vuole vedere. Ci vorrebbe l’interesse dello Stato, requisire le case tramite una legge apposita, restaurarle, metterle a posto per poi affittarle, offrirle a studenti di geologia, scienze forestali, scienze naturali, malati, convalescenti che hanno bisogno di aria, o quant’altro. Il paese tornerebbe a vivere, e allora sì che la memoria,
il rispetto degli avi che faticarono verrebbero onorati. E si salverebbe un’architettura d’alta quota, unica nel suo genere.
Inoltre gli ospiti godrebbero il beneficio di una montagna tra le più belle e pulite d’Italia, dove nevica ancora non firmato.


Guido Toffolo
Psicologia dell’emergenza: il caso Vajont

Un’onda alta più di 70 metri si abbatte sulla valle. Un’inondazione “biblica” sommerge il comune di Longarone e le frazioni vicine i cui abitanti pur percependo il pericolo mortale, non hanno neppure il tempo di fuggire. Longarone viene totalmente rasa al suolo. I morti sono 1.917: 1.450 a Longarone, 109 a Castellavazzo, 158 a Erto e Casso, oltre a 200 tecnici ed operai della diga, con le loro famiglie. I feriti sono pochissimi. Fatalità?…Disastro naturale?… O tragedia prevedibile e prevista
che poteva essere evitata? Studi approfonditi e diverse sentenze processuali hanno dimostrato che la tragedia del Vajont poteva essere evitata.
 
Giancarlo, mio fratello, non ha mai parlato del Vajont; lui non è mai andato in cimitero. Non dice che è di Longarone, perché non vuole essere di Longarone. Abita a Belluno ma lavora a Longarone. Io non so come faccia a passarci ogni giorno. Non vuole sentire parlare della mamma, non vuole sentire parlare di nostro papà, non vuole sentire parlare di nessuno che riguardi il passato di Longarone; come se fosse nato sotto un fungo. Anche per me è stato difficile cominciare a parlare.


Bruno Pittarello
Vajont ottobre 1963

A volte mi guardo le mani pallide come l’avorio, piene di rughe e le ossa deformate. Mani che hanno armato la ghiaia fino a farla cemento con il ferro e piano piano alzato il bianco muro di una diga immortale. Hanno anche raccolto tanti compagni caduti nella forra abissale. Sono state queste mani a uccidere duemila persone, proprio le mie mani, però si sono sciolte nell’olocausto dando dignità ai cadaveri spianati sulla terra. Stanche mani a forza di alzare pietre nella palude dei morti.
Ma sono piene di orgoglio: ci sarà sempre l’errore e la pena nel cammino dei giorni.


Sandro Canestrini
Vajont: genocidio di poveri

In questo processo che è anche processo alla tecnica bisogna dire che abbiamo visto come la tecnica possa essere, e sia troppo spesso in realtà, oggi nel nostro Paese, e non solo nel nostro, omicida, al servizio di una precisa volontà. Ma vi è l’altro aspetto forse più tristo di questo processo, e cioè quello dei tecnici come alienati, come uomini che hanno perduto la propria ombra, come uomini che al servizio degli interessi che sappiamo, ritengono che ciò possa essere giusto e doveroso e che veramente viviamo nel migliore dei mondi possibili. Questo è l’aspetto più triste di tutta questa catastrofe negli animi dei tecnici, che non è seconda alla catastrofe caduta sul Vajont per la sua obiettiva drammaticità, realtà tanto più drammatica, quanto più gli alienati non si accorgono di esserlo.


Marco Paolini e Gabriele Vacis
Il racconto del Vajont

Quanto pesa un metro cubo d’acqua? No, no, non preoccuparti di rispondere esattamente. Basta che ci mettiamo d’accordo. Un metro cubo d’acqua? Mille chili, una tonnellata. Una tonnellata va bene? Le frane le misurano a metri cubi. Il metro cubo è l’unica cosa che resta fissa, perché poi la densità, e il peso, cambiano. Allora bisogna prendere quest’unità di misura,
l’unica cosa abbastanza certa, bisogna  prendere i numeri, però poi bisogna metterli vicino alle cose, ai nomi, per vedere se scatta qualcosa. Un nome: Stava. Ti dice niente? Val di Stava, una conca tra Bolzano e Trento. In cima alla Val di Stava, lassù in alto, c’era una diga di terra e dietro c’erano i fanghi, gli scarichi di una miniera Montedison. Dopo che è piovuto un bel po’, il 18 luglio 1985 la diga non ce la fa più: scoppia. Tutto quello che c’è dietro alla diga di 450.000 metri cubi
di fango, va giù a spazzare via dalla faccia della terra il paese di Stava e una fetta del paese vicino, Tesero.
Duecentosessantotto morti. Quattrocentocinquantamila metri cubi. Un altro nome: Valtellina. Stesso mese, luglio. Però del 1987. La frana della Valtellina è più grossa, cento volte più grossa: 45 milioni di metri cubi  di montagna cascano in fondo alla Valtellina a fare uno schizzo lungo due chilometri che cambia la geografia della valle. Quarantacinque milioni di metri cubi.  E allora un altro nome: Ti dice niente Vajont? 9 ottobre 1963. Dal monte Toc, dietro la diga del Vajont, si staccano
tutti insieme 260 milioni di metri cubi di roccia. Duecentosessanta milioni di metri cubi.


Maurizio Reberschak e Ivo Mattozzi
Il Vajont dopo il Vajont

Se cerchiamo nei libri di storia il Vajont, troviamo ben poco, e “ciò a dispetto del fatto che si tratta del disastro più grave in termini assoluti che ha colpito la popolazione civile in Europa, almeno nel secondo dopoguerra”. Fa specie poi che del Vajont si parli solo in occasione di altre catastrofi, come quella di Stava (1985) per esempio, facendone un unico pastrocchio senza proporne le affinità e individuarne le differenze. Ma ciò risponde a un lungo e non ancora finito processo
di rimozione della memoria pubblica. Perché, se è comprensibile che la memoria privata spesso abbia accantonato il ricordo per un procedimento di autodifesa interiore, non è certamente giustificabile il passaggio dalla solidarietà iniziale all’indifferenza successiva, all’oblio finale: per il Vajont, come per altri traumi della storia dell’ Italia repubblicana, in primo luogo lo
stragismo e il terrorismo. Questa operazione di riposizione nel dimenticatoio è avvenuta per lungo tempo, finché non ci ha pensato la televisione e il cinema a ridestare l’attenzione, prima con Marco Paolini nel 1997 e poi con Renzo Martinelli nel 2001. Si doveva cioè imboccare la strada del linguaggio mediatico per far risuscitare l’interesse. Un paradosso. Solo il più esteso linguaggio di omologazione poteva comunicare la diversità del “caso Vajont”.


Lucia Vastano
I Palloncini del Vajont

Alle 10.39 di sera un’enorme frana si è staccata dalle pendici del Monte Toc lungo una linea a forma di M. La stessa prevista dal geologo Müller. Quando  eravamo su alla diga, bambini, ve l’ho fatta vedere, quella cicatrice bianca sulla montagna.
La diga non è crollata. Impassibile e fiera, senza vergogna, come quelli che l’avevano costruita, ha visto la montagna precipitare nel lago e riempirlo completamente, portandosi dietro case, casere, alberi, ponti, animali.
E uomini, donne e bambini che in un attimo sono diventati polvere.
Impassibile, la diga ha poi guardato la gigantesca onda, alta oltre 250 metri, scavalcarla e precipitare giù verso valle, verso Longarone.
In quella notte di luna piena, la diga è riuscita a vedere quello che chi l’aveva voluta a tutti i costi aveva provocato.
Ha sentito il boato crescere man mano che l’onda di acqua e fango scivolava giù, incanalata dalla gola. Ha visto le luci dei paesi lungo il Piave, Longarone, Castellavazzo e le loro frazioni, spegnersi in un attimo. E poi ha guardato, senza compassione alcuna, fango, macerie, distruzioni sostituirsi alle case e alla vita. E alla fine ha udito lo spaventoso silenzio.
La diga non è crollata, come molti italiani credono. È rimasta intatta e fiera. Perché chi l’aveva costruita era bravo e sapeva quello che faceva. Sapeva che avrebbe ucciso. Quasi 2000 persone non c’erano più, compresi 470 bambini sotto i 15 anni.
In un attimo volarono tutti in cielo.
Alle 10.39 della notte la frana si era staccata dal Monte Toc. Dopo soltanto quattro minuti tutto era finito.


Matteo Righetto
La pelle dell’orso

Quando però giunse finalmente a Longarone, i suoi occhi videro cose indescrivibili che lo fecero vacillare.
Un mare di acqua aveva investito tutta la vallata del Piave distruggendo alberi, case, chiese e costruzioni di ogni tipo come se fossero state di pasta frolla. Una colata di terra schiumosa e torbida ricopriva ruderi e i pochi caseggiati rimasti in piedi. Un’infinità di uomini instancabili spalavano fango imputriditi dalla testa ai piedi e i cadaveri disseminati qua e là erano centinaia, molti dei quali galleggiavano abbandonati sulle montagne di fango in attesa di essere recuperati e riconosciuti. Uno spettacolo orribile, un tragico colpo d’occhio. Era sceso all’inferno.
Fu una questione d’istanti, e ciò che non aveva sentito o non aveva voluto sentire fino a quel momento, gli arrivò diretto e potente alla bocca dello stomaco. Improvvisamente l’animo di Domenico iniziò a smuoversi, come se il ghiaccio che gli ricopriva il cuore stesse iniziando a sciogliersi.
Avvertì la strana sensazione di vivere un brusco risveglio, come se fosse ripiombato di botto nella sua vita, violentemente catapultato nella realtà dopo una parentesi di annullamento.
[…] Domenico si spostò, con la Isotta che faticava a ripartire per via delle zampe che affondavano nella motriglia scura.
Poco più avanti vide un uomo piangere sui cadaverini dei suoi due figli e davanti a quella scena avvertì una fitta allo stomaco. Nonostante volesse resistere fino al ritrovamento di Crepaz, di colpo si sentì male, scese dal carro e iniziò a vomitare.

 

VALIGIE

Denise Epstein
Sopravvivere e vivere

Le emozioni che seguono al primo bacio sono state descritte nell’antica storia d’amore naïve, ma straordinariamente delicata, di Dafne e Cloe. Come premio Cloe ha dato un bacio a Dafne – un innocente bacio di ragazza, ma che ha su di lui l’effetto di una scossa elettrica:

Prima di lasciarla, suo padre le ha dunque affidato una valigia che da allora è sempre rimasta con lei…
Nella valigia c’erano foto, carte, un po’ di biancheria, e quello che veniva chiamato il «quaderno» di mamma e che in seguito si è rivelato essere il famoso manoscritto di Suite francese. La valigia era pesante e per portarmela dietro avevo dovuto abbandonare la bambola Bleuette, grande tragedia per una ragazzina. Ora mi sembra così ridicolo. Ero molto in pensiero anche per il nostro cagnolino che si chiamava Copain e per un Kissou nero.
Dopo qualche giorno (il tempo necessario a Julie per organizzare la nostra partenza) abbiamo lasciato il paese in piena notte. Nessuno si è accorto di niente, a quanto sembra… Era arrivato il momento del silenzio. Nemmeno una lacrima, per non fare rumore: uno capisce subito che non sempre ci si può permettere di tirare su col naso!


Agota Kristof
Trilogia della città di K.

Arriviamo dalla Grande Città. Abbiamo viaggiato tutta la notte. Nostra Madre ha gli occhi arrossati. Porta una grossa scatola di cartone, e noi due una piccola valigia a testa con i nostri vestiti, più il grosso dizionario di nostro Padre, che ci passiamo quando abbiamo le braccia stanche.
Camminiamo a lungo. La casa di Nonna è lontana dalla stazione, all’altro capo della Piccola Città. Qui non ci sono tram, né autobus, né macchine. Circolano solo alcuni camion militari.
I passanti sono pochi, la città è silenziosa. Si può udire il rumore dei nostri passi; camminiamo senza parlare, nostra Madre tra noi due.
Davanti alla porta del giardino di Nonna nostra Madre dice:
“Aspettatemi qui.”
Aspettiamo un po’, poi entriamo in giardino, giriamo intorno alla casa, ci accovacciamo sotto una finestra da cui giungono delle voci. La voce di nostra Madre: “Non c’è più niente da mangiare in casa nostra, niente pane, carne, verdura, latte. Niente. Non posso più sfamarli.”
Un’altra voce dice: “E allora ti sei ricordata di me. Per dieci anni non ti eri mai ricordata. Non sei venuta, non hai scritto.”
Nostra Madre dice: “Sapete bene perché. A mio padre volevo bene, io.”
L’altra voce dice: “Si, e adesso ti ricordi che hai anche una madre. Arrivi qua e mi chiedi di aiutarti.”
Nostra Madre dice: “Non domando niente per me. Vorrei solamente che i miei bambini sopravvivessero a questa guerra. La Grande Città è bombardata giorno e notte, e non c’è più da mangiare. I bambini sfollano in campagna, da parenti o estranei, dove capita.”
L’altra voce dice: “Allora non avevi che da mandarli da qualche estraneo, dove capitava.”
Nostra Madre dice: “Sono i vostri nipotini.”
“I miei nipotini? Non li conosco nemmeno. Quanti sono?”


Charles Bukowski
Factotum

Arrivai a New Orleans sotto la pioggia alle cinque del mattino. Mi fermai alla stazione degli autobus per un po’ ma la gente mi deprimeva tanto che presi la valigia, uscii nella pioggia e cominciai a camminare. Non sapevo dove fossero le pensioni, dove fosse il quartiere povero.
Avevo una valigia di cartone che cadeva a pezzi. Una volta era stata nera ma il nero si era scrostato e sotto si vedeva il cartone giallo. Avevo cercato di rimediare spalmando di lucido nero il cartone scoperto. Ma mentre camminavo la pioggia lavava via il lucido e mi feci due belle strisce nere sulla gambe dei pantaloni passando la valigia da una mano all’altra.
Be’, era una città nuova, forse mi avrebbe portato fortuna.
Smise di piovere e uscì il sole. Ero nel quartiere nero. Continuai a camminare lentamente.
« Ehi, povero bianco! ».
Misi giù la valigia. C’era una mulatta seduta sui gradini della veranda. Dondolava le gambe. Non era niente male.
« Ehi, ciao, povero bianco! ».
« La vuoi un po’ di fica, povero bianco? ».
Non dissi niente. Restai lì a guardarla.
Mi rideva in faccia. Teneva le gambe incrociate in alto e dondolava i piedi. Aveva un bel paio di gambe, portava i tacchi alti, dondolava i piedi e rideva. Presi la valigia e svoltai su per il vialetto. Vidi la tendina di una delle finestre alla mia sinistra spostarsi leggermente. Dietro c’era una faccia nera di uomo. Assomigliava a Jersey Joe Wolcott. Indietreggiai lungo il vialetto fino al marciapiede. La risata della mulatta mi seguì giù per la strada.


Anne Tyler
L’Albero delle lattine

Le cose che Joan Pike possedeva in questo mondo potevano essere contenute in due valigie, senza nemmeno riempirle. Le stava mettendo dentro, una a una; piegava le gonne a metà e le appoggiava con cura sul fondo della grande valigia di pelle che i genitori di suo padre avevano dato al figlio quando era partito per in concorso cinquant’anni prima. La sua valigia, più nuova e lucida, era già sul pavimento, riempita e chiusa a chiave. Aveva lasciato fuori una grande borsa di paglia, che era difficile da mettere in valigia e poteva contenere invece tutto quello di cui avrebbe avuto bisogno durante il viaggio in corriera. Era sul pavimento, e dall’interno sporgeva un angolo della busta con il biglietto della Greyhound che aveva comprato quella mattina, dopo aver passato tutta la notte del mercoledì ad arrotolare tra le dita l’orlo del lenzuolo pensando a cosa fare. Era andata a prenderlo in città con la bicicletta di Simon, e al ritorno l’aveva tenuto nascosto sotto la camicetta bianca. Nessuno sapeva che se ne andava.


Valeria Mancini
Valigie

Fuori c’è ancora un po’ di neve, quasi sciolta.
Ripenso alla neve di quando ero bambina. D’inverno, a Vallavo, di fianco alle strade c’erano muri di neve più alti di me. Eravamo in tanti in famiglia. Ognuno aveva dei compiti da svolgere. Io dovevo andare a comprare il pane. Mi alzavo alle quattro perché il fornaio era lontano: ricordo il profumo del pane appena cotto. Compravo tre pagnotte da due chili e le portavo a casa in una borsa di tela. Pesavano tanto, e facevo scivolare la borsa sul ghiaccio, per risparmiare fatica. Tornata a casa, la mamma mi spalmava una fetta di pane con lo strutto e lo cospargeva di zucchero. Poi andavo a scuola. Era freddo in quegli anni. I vetri di casa mia erano coperti di ghiaccioli, dentro e fuori. Sui muri c’erano macchie di umidità. Andavo a letto con una bottiglia di acqua calda, per scaldarmi i piedi. Solo il naso restava fuori dalle coperte: vedevo i fumetti di vapore del mio respiro, nel buio, prima di addormentarmi.


Jordi Puntì
Valigie Smarrite
                                                        
Abbiamo lo stesso ricordo.
E’ mattina presto, è appena spuntato il sole. Tutti e tre -padre, madre e figlio- sbadigliamo dal sonno. Nostra madre ha preparato il tè, o il caffelatte, e lo beviamo distrattamente. Siamo in sala da pranzo, o in cucina, così immobili e in silenzio da sembrare statue. Ci si chiudono gli occhi. Qualche attimo dopo sentiamo un camion che si ferma davanti a casa nostra e dà un colpo di clacson. Anche se lo aspettavamo, il ruggito è così cupo che ci spaventa e ci riscuote. I vetri alle finestre tremano per un secondo. I vicini si devono essere svegliati. Usciamo per strada a salutare nostro padre ce sale sul camion, tira fuori il braccio dal finestrino e accenna un sorriso mentre agita la mano. Si vede che gli dispiace andarsene. Oppure no. E’ stato a casa solo due giorni, al massimo tre. I suoi due colleghi, dal camion, ci chiamano e agitano anche loro la mano in segno di saluto. Il tempo passa al rallentatore. Il Petaso si mette in moto e si allontana pesantemente, come se anche a lui costasse partire. Mamma indossa una vestaglia e forse le spunta una lacrima, o forse no. Noi, i figli, siamo in pigiama e pantofole, il freddo i gela i piedi. Rientriamo in casa e ci infiliamo di nuovo a letto, sotto le lenzuola ancora tiepide, ma i pensieri ci impediscono di riprendere sonno. La mente non si ferma. Abbiamo tre, quattro, cinque, sette anni, e abbiamo già vissuto altre volte la stessa scena. Al momento non lo sappiamo, ma questa è l’ultima volta che vediamo nostro padre. Abbiamo lo stesso ricordo.


Orhan Pamuk
La valigia di mio padre
Ricordo che andato via mio padre, per giorni passai accanto alla valigetta senza neppure sfiorarla. Conoscevo dalla mia infanzia quella piccola borsa di pelle nera, la sua serratura, gli angoli arrotondati. Mio padre la portava sempre con sé nei viaggi brevi e talvolta la usava la usava per i documenti di lavoro. Ricordo che, da bambino, quando tornava da un viaggio aprivo quella valigetta e frugavo al suo interno, deliziato dal profumo di colonia e di paesi stranieri. Quella valigetta era un oggetto familiare e affascinante che richiamava ricordi del passato e della mia infanzia, ma ora non riuscivo neppure a toccarla. Perché? Senza dubbio per il peso misterioso del suo contenuto segreto.


Herta Muller
Il paese delle prugne verdi

Un piccolo quadrilatero come stanza, una finestra, sei ragazze, sei letti, una valigia sotto ognuno. Accanto alla porta un armadio a muro, sul soffitto, sopra la porta, un amplificatore. I cori operai cantavano dal soffitto alla parete, dalla parete ai letti, finchè non calava la notte. Poi tacevano, come la strada sotto la finestra e il parco incolto attraverso il quale non passava più nessuno. In ogni dormitorio c’erano quaranta piccoli quadrilateri identici. Qualcuno diceva che gli altoparlanti vedono e sentono tutto ciò che facciamo. I vestiti delle sei ragazze erano appesi nell’armadio, attaccati l’uno all’altro. Lola aveva meno vestiti di tutte. Indossava i loro abiti. I calzini delle ragazze stavano nelle valigie sotto i letti. Qualcuno cantò:
Se un giorno mi sposo
Mia madre dice
che mi dà
venti cuscini grandi
tutti pieni di zanzare
venti cuscini piccoli
tutti pieni di formiche
venti cuscini morbidi
tutti pieni di foglie marce.


Jack Kerouack
Sulla strada
 
Nel mese di luglio del 1947, avendo messo da parte circa cinquanta dollari della mia pensione di reduce, fui pronto ad andare sulla costa occidentale. Il mio amico Remi Boncoeur mi aveva scritto una lettera da San Francisco, nella quale diceva che dovevo andare a imbarcarmi con lui su un transatlantico che faceva il giro del mondo. Giurava di potermi ficcare nella sala macchine. Io risposi dicendo che mi sarei accontentato di qualsiasi vecchio mercantile, purché potessi fare alcuni lunghi viaggi sul Pacifico e ritornare con abbastanza denaro da mantenermi in casa di mia zia mentre finivo il libro. Lui disse che aveva una baracca a Mill City e che avrei avuto tutto il tempo che volevo per scrivere laggiù, mentre compivamo i passi necessari per trovare la nave. Viveva con una ragazza di nome Lee Ann; disse che era una cuca meravigliosa e che tutto sarebbe andato a gonfie vele. Remi era un vecchio compagno della scuola preparatoria, un francese allevato a Parigi, un ragazzo matto davvero: non sapevo ancora quanto fosse matto, in quel periodo. Così lui si aspettava che io arrivassi entro dieci giorni. Mia zia era perfettamente d’accordo riguardo al mio viaggio nel West; disse che mi avrebbe fatto bene, avevo lavorato così intensamente tutto l’inverno ed ero rimasto troppo chiuso in casa; non protestò nemmeno quando le spiegai che avrei dovuto fare l’autostop. La sola cosa che esigeva da me era che tornassi tutto in un pezzo. Così, dopo aver lasciato il mio grosso mezzo manoscritto sistemato in cima allo scrittoio, e dopo aver ripiegato per l’ultima volta le mie comode lenzuola casalinghe, me ne andai una mattina con la mia valigia di tela nella quale erano riposte poche cose essenziali e partii per l’Oceano Pacifico con i cinquanta dollari in tasca.
 


VIAGGIO

Ward Terence
Alla ricerca di Hassan

"L’inizio di un viaggio in Persia assomiglia a un’equazione matematica: può riuscire oppure no."
Robert Byron, La via per l’Oxiana

All’inizio di aprile del 1998 la mia famiglia intraprese finalmente il tanto atteso viaggio di ritorno alla vecchia casa. Non eravamo diretti all’Irlanda dei nostri avi, ma in Iran. Mentre la  maggior parte degli americani ancora inorridiva al ricordo delle immagini di rapitori sbraitanti e terroristi dallo sguardo folle, io e i miei tre fratelli, insieme ai nostri anziani genitori, mettemmo da parte le nostre paure: avremmo attraversato il vasto altipiano dell’Iran alla ricerca disperata di Hassan, il nostro perduto amico e mentore che tanti anni prima a Teheran si era preso cura di noi. Avevamo programmato un percorso via terra di oltre mille chilometri, che partiva dall’antica città meridionale di Shiraz, un tempo chiamata la Parigi di Persia, fino a raggiungere Teheran, la metropoli settentrionale dell’Iran moderno, all’altro capo del paese. Sarebbe stata una vera e propria odissea in un’altra cultura, alla riscoperta di una terra e della sua gente, e della nostra amata famiglia d’adozione.


Nair Anita
Cuccette per signora

E’ stato così da sempre; l’odore di un binario di notte invade Akhila con un senso di fuga.
Il lungo marciapiede di cemento che si proietta nella notte, segmentato dai cartelli e dalle luci a intermittenza delle insegne luminose della stazione. Le lancette in movimento di un orologio che segna il tempo al ritmo pressante del baccano degli schermi televisivi sospesi in alto, degli scricchiolii dei carrelli carichi di ceste e sacchi. Il gracchiare degli altoparlanti per il pubblico e i sibili che ne escono all’esordire dei loro annunci di arrivi e partenze. Odor di gelsomino aleggiante nell’aria, sudore e olio per capelli, borotalco e cibo stantio, borse di iuta umidicce e l’odore verde asprigno delle ceste di bambù. Akhila inala tutto questo e ripensa ancora una volta alla fuga. Un’ondata di gente che, tutta, fuggiva verso aspetti di una ricchezza di cui le non aveva alcuna nozione.
Akhila spesso l’aveva sognato. Di essere parte di quell’onda che si rovescia negli scompartimenti e si accomoda sui sedili, sistemando i bagagli e stringendo in mano i biglietti. Di sedersi, girando la schiena al suo mondo e puntando lo sguardo in direzione della meta verso cui è diretta. Di partire. Di fuggire. Di staccare la spina. Di correre su un treno che entra in una stazione sferragliando e caracollando. Akhila è seduta accanto a un finestrino. Tutto è immobile, a eccezione del treno. La luna è alle sue spalle e viaggia con lei… Ma la verità è che Akhila non ha mai nemmeno comprato un biglietto per un treno espresso fino a questo momento. Non è mai salita su un treno notturno, diretta verso un luogo che non ha mai visto. Akhila è quel tipo di donna. Fa quello che ci si aspetta da lei. Tutto il resto lo sogna. Perciò collezione brandelli di speranza, come i bambini collezionano biglietti usati. La speranza, per lei, è intrappolata all’interno di desideri irrealizzati.


Lidia Ravera
Maledetta gioventù

Da quando aveva preso la decisione di staccarsi dalla tappe previste per il viaggio percepiva, di tanto in tanto, qualche intervallo di gioia. Partivano presto, ogni mattina, non più tardi delle sei e  mezza. Quando il cielo era ancora bianco e gli uccelli avevano appena ricominciato a gridare. Jogdish sistemava la sua unica valigia nel portabagagli e poi le chiedeva in che direzione voleva muoversi quel giorno. Linda appoggiava la carta geografica sul cofano dell’automobile, infilava gli occhialetti da presbite e cercava il nome del villaggio o della città in cui aveva dormito, lei in alberghi quasi sempre scadenti per gli standard europei, quasi sempre ottimi rispetto alle abitudini indiane, lui in macchina, sdraiato sul sedile posteriore, fra due porte aperte, i pedi fuori dall’abitacolo, nudi.
Attenta a recitare un interesse che era ben lontana dal provare, rivolgeva brevi domande all’autista. Come era la strada verso sud? A nord-ovest avrebbe fatto più fresco? Jogdish dondolava la piccola testa nera nei misteriosi cenni di assenso e dissenso indiano. Da quando la signora italiana, il giorno in cui il viaggio doveva iniziare con una prima tappa al Forte Amber, si era presentata con due ore di ritardo e gli occhi gonfi di pianto, l’aveva sistemata in uno scomparto poco usato della sua anima professionale, un tabernacolo dove stavano chiusi i non somiglianti, clienti che andavano maneggiati con cura. Non era una turista come le altre. Aveva prenotato lui e la sua macchina per essere portata a vedere quello che si doveva vedere, aveva prenotato per essere portata insieme a suo marito. Tutto era stato già pagato.
Ma il marito non era mai comparso.


David Grossman
Ci sono bambini a zigzag

Posai la lettera e respirai profondamente. Era successo tutto così in fretta che solo ora incominciavo ad afferrare le proporzioni di quell’impresa. Chissà quanti giorni e quante notti avevano dedicato ai preparativi e a istruire le persone coinvolte nel gioco. Probabilmente per ognuna di loro era stata scritta una parte in questo spettacolo apposta per me, solo per me… ah! Rimasi senza fiato. Tentai di continuare a leggere, ma non ci riuscii; mi sentivo mancare, sapevo che papà si era dato da fare per realizzare l’idea di Gabi, così come organizzava le sue “operazioni”: valutando ogni eventualità, ipotizzando tutti gli sviluppi immaginabili, gli imprevisti, le possibili e impossibili modalità d’azione…  mi sentivo fiero del fatto che si fossero mostrati disposti a compiere un simile sforzo solo e soltanto per me. Fiero e un po’ stupito, perché in fondo ero sempre stato convinto che avessero bisogno di me per parlarsi fra loro, che senza di me non sapessero come comportarsi l’uno con l’altra, che fosse merito mio se non litigavano continuamente. Eccoli invece, loro due da soli, così… “Nono cuor di leone” scriveva Gabi, “Nono ciuffo della mia coda, se avrai cervello e occhi attenti, occhi da miglior investigatore del mondo, così da trovare la persona che ti sta aspettando in ogni carrozza, allora parteciperai alla scorribanda più incredibile mai escogitata per un ragazzo di tredici anni. E quando alla fine del viaggio scenderai dal treno, sarai degno della tua età, un ragazzo forgiato e temerario, che avrà affrontato un arduo esame di intelligenza e coraggio. In breve…” A questo punto papà le strappava il foglio e strombazzava con la sua brutta scrittura: “In breve sarai come me!”. “L’importante è che tu sia come te” firmava lei, disegnando un bacio, con accanto il volto di papà, grande e largo, e quello tondo di lei, con le orecchie da coniglio e un’aureola da cherubino. Riuscii a stare ancora un momento al mio posto. A pensare come Gabi e papà erano riusciti in un batter d’occhi a trasformare questo treno che cigolava di vecchiaia in uno spericolato luna park viaggiante.


Jonathan Safran Foer
Ogni cosa è illuminata

Era fissato che io e il nonno saremmo partiti a mezzanotte del 1° luglio. Questo ci regalava quindici ore. Era fissato da tutti, tranne il Nonno e me, che avremmo viaggiato fino alla stazione di Lvov appena entrati nella città di Lvov. Era fissato dal Babbo che il Nonno doveva fare ozio in macchina con pazienza mentre io facevo ozio sui binari ad aspettare il treno dell’eroe. Io non sapevo quale sarebbe stata la sua apparenza, e lui non sapeva quanto io sarei stato alto e nobiliare. Questa è una cosa che avremmo molto sbeffeggiato in seguito. Ha detto che lui era molto nervoso. Ha detto che aveva cavato una mattonella, ma se volete sapere perché, non è che non lo avrei saputo riconoscere. Un americano in Ucraina è tanto flaccido da riconoscere. Io ho cavato una mattonella perché lui era americano e io desideravo fargli vedere che anch’io potevo essere americano. Ho fatto anormalmente tanti pensieri di stornare la residenza in America, quando sarò più attempato. Hanno scuole superiori di commercialisti, questo lo so. Lo so perché un mio amico, Gregory, che è socievole con un amico del nipote di quello che ha inventato il sessantanove, mi ha detto che in America hanno molte scuole superiori di commercialisti e lui sa tutto. I miei amici sono accontentati di restare in Odessa per tutte le loro vite. Sono accontentati di invecchiare come i loro genitori, e di diventare genitori come loro. Non desiderano niente più di tutto quello che hanno conosciuto. Okay, ma questo non è per me, e non sarà neanche per il piccolo Igor.


Tony Hawks
Mr Fridge. L’Irlanda in autostop con un frigo

A parte il disastroso concorso canoro, era stato un altro incidente a dare un certo rilievo a quel primo soggiorno in Irlanda. Al mio arrivo all’aeroporto di Dublino, era venuto a prendermi il miglior amico di Seamus, Kieran, e mi aveva accompagnato a Cavan. Viaggiando verso Nord, mentre discutevamo le prospettive di Barman e Robin (Kieran si era mostrato particolarmente cauto sul tema, ma in seguito capii perché, quando seppi che aveva assistito alle prove), notai una persona a bordo strafa che faceva l’autostop. Guardai più attentamente, come si fa con gli autostoppisti, per approfittare di quella frazione di secondo in cui riesci a giudicare se siano o no adatti a farti compagnia per un tratto di strada. Quello però era strano. Molto strano. Di fianco a sé aveva qualcosa, sui cui era appoggiato. Era un frigorifero. Quel tizio stava facendo l’autostop con un frigorifero.
“Kieran, quello lì stava facendo l’autostop con un frigo?”
“Certo.”
Nulla nel tono della sua voce indicava la minima sorpresa. Era chiaro che mi trovavo in un paese in cui la definizione di “eccentrico” era molto più ampia di quella che conoscevo.


Stefano Malatesta
Il grande mare di sabbia

Le strade di Bamako erano intasate da un traffico convulso e caotico di ferraglie che nessuno in Europa avrebbe chiamato automobili. E nello stesso modo caotico di quasi tutte le città africane, questa interpretazione caricaturale del trasporto moderno conviveva con la forma più antica e semplice di locomozione. Bastava guardare qualche metro più in là e uno ritrovava l’Africa di sempre che marciava lungo i marciapiedi, così scavati dal continuo calpestio da essere ritornati allo stadio di sentiero nella savana arida. File interminabili di esseri umani, di cui era impossibile dire dove iniziavano e dove finivano, si muovevano come se fossero in marcia di trasferimento dall’alba dei tempi, con quel loro instancabile, inimitabile, elastico, fluido, veloce passo e come se il marciare senza un attimo di sosta costituisse il loro unico scopo. Una popolazione in continuo esodo, composta in maggioranza da donne, sulle quali vorrei dire due o tre cose. Forse le etiopi sono più belle e nobili di viso, le eritree più statuarie, le migiurtine hanno i lineamenti più delicati. Ma le maliane, le Peul in particolare appartengono ad un altro mondo e come dice un mio amico africanista, riferendosi ai Nuba sudanesi: “Le razze esistono e ci sono razze superiori e razze inferiori. E la razza africana è la razza superiore”. Non so se questa differenza fisica, a volte umiliante per le donne occidentali, dipenda da uno scheletro leggero, dalle gambe smisuratamente alte e dalle caviglie sottili, dai fianchi stretti e all’infuori e come appesi nell’aria, dall’estrema souplesse dei movimenti che però non danno mai un’idea di torpidità o di lentezza. Ma al contrario di essere pronti allo scatto, o da altri requisiti che mi sfuggono. Fermarsi in un caffè all’aperto di Bamako significava assistere ad una stupefacente parata di donne superbe che camminavano come nessuna modella riuscirebbe a fare, vestite con gli abiti più fantasiosi e colorati che nessuno stilista riuscirebbe ad inventare, anche se ci hanno provato tutti, dove le più miserabili sembravano delle principesse.


Paolo Rumiz
E’  l’ Oriente

I tedeschi la chiamavano Reisefieber, febbre da viaggio. La riconosco subito: arriva a notte fonda: con vampate di calore, ansia e acciacchi vari. Fa caldo, mi rigiro nel letto e penso che sono matto. Parto senza allenamento, non so nemmeno cosa sia un rapporto 17 x 42. Perché lo faccio? Papà, aveva detto un giorno Michele,facciamo qualcosa insieme. E papà aveva detto sì, perché a cinquant’ anni  tutti vogliono fare qualcosa di speciale: riprendersi il proprio tempo e il proprio spazio,magari farsi un tagliandino di efficienza. Oggi ho la bici, mi tocca pedalare; ma so già che domani mattina non c’è la farò ad alzarmi dal letto. Ho studiato le carte al centimetro, eppure di notte quei seicento chilometri paiono una muraglia invalicabile e infinita. L’aria è ferma. Mi alzo a controllare le sacche. Spazzolino, borraccia, squadernino, cerotti, carte geografiche, magliette documenti, soldi. Mio figlio dorme beato. E’ sicuro che c’è la farò: dunque è matto anche lui…

…Accanto al comodino tengo sempre pile di atlanti, carte, guide,romanzi di viaggio, diari di bordo, relazioni con fotografie di paesi lontani, storie di antichi pellegrinaggi. In cima il libro dei libri, Moby Dick di Herman Melville. Talvolta sono così tanti che formano un muretto; al mattino devo scavalcarlo per alzarmi. Ai piedi del letto una piccola valigia, con l’indispensabile per le partenze improvvise, frequenti nel mio mestiere. Ecco, ogni mio viaggio comincia già lì. Prima con i sogni più trasgressivi, spesso sul far dell’alba. Poi con quel metro e mezzo di percorso impervio ingombro di libri accatastati. Passate quelle Forche Caudine, tutto diventa facile.
Esci di casa ed è fatta.


Gianni Riotta
Alborada

Dallo specchio dei militari americani avevo rubato un vecchio orario ferroviario, la copertina bruciacchiata dal fuoco della cucina che avevo finto l’avesse distrutto per giustificarne la scomparsa, e l’avevo studiato a memoria, ore, date, località, Southern Thunder, Northern Arrow, Atlantic Sky Hawk, tutti i treni là hanno nomi indiani, magnifici, mitologici. Mi distesi sul duro seggiolino, resistetti alla tentazione di guardare sfilare il piatto panorama che da mesi mi era precluso dal reticolato, e chiusi gli occhi. Meno si accorgevano di me, meglio era. Ero scappato così: mi nascosi nel silos delle patate, senza rispondere all’appello. I caman mi diedero la caccia intorno al campo, poi si stufarono e rilassarono i controlli. Al quinto giorno mi aggregai a una squadra di sterratori, il capitano Righi strizzò l’unico occhio fingendo di contarmi ed uscii dal filo spinato. La stanchezza, l’emozione e la malinconia x Zita mi cullarono ora in torpore tranquillo: non credo mai nessun prigioniero di guerra sia evaso nell’assoluta serenità della mia povera fuga,anestetizzata alla paura.
Nel sonno percepii le note di “ Rosamunda, tu sei la vita per me,nei tuoi baci c’ è tanta felicità, più ti guardo e più mi piaci, Rosamunda dà”, chissà perché quella ballata ingenua s’era trasformata nell’inno di noi prigionieri italiani. Sì i fascisti cantavano ancora “Giovinezza, giovinezza, nella vita e nell’asprezza…”, e, dopo l’ 8 settembre s’era sentito un “Fratelli di Italia, l’ Italia chiamò…” e il coro formidabile di “ Avanti o popolo alla riscossa…”, ma Rosamunda era la canzone di tutti i povieri, prigionieri lazzaroni d’ Italia, Prisoner of War, POW, come dovevamo scrivere sui pantaloni e sulle casacche, a lettere chiare. POW: e noi c’eravamo battezzati povieri, poveri POW. Io avevo cancellato le mie tre lettere d’ordinanza ed ero in fuga verso Zita, l’incontro sarebbe certo stato burrascoso, violento, allora non ne dubitavo, bellezza dei vent’anni, ma mi avrebbe riportato a lei, con amore come sempre.

 

Marco Paolini
Il Milione. Quaderno veneziano

Capitolo 12. V movimento. Industria pesante (turisti)
In fondo al Canal Grande una gondola di giapponesi: altri sul ponte fotografano altri turisti… Turisti… Ventiquattromila…
- … baci? –
- No, turisti: quarantottomila scarpe al giorno.
- Ma chi?
- Turisti.
Questi sulla carta devo metterli. Tutti vogliono vedere questa città, almeno una volta nella vita, magari tutta in un giorno. Anzi compressa in otto, sei, quattro ore…Ogni mattina un’armata d’invasione che parte da tre punti: Tronchetto, Piazzale Roma, Ferrovia, con l’entusiasmo in faccia, e le scarpe nuove. Qualcuno sui mezzi, la maggior parte a piedi con un solo grido di battaglia: “San Marco!”
Non è la battaglia di Lepanto, ma le indicazioni stradali per turisti sui cartelli a fondo giallo, Accademia, Rialto, San Marco, basta seguirli. Il novanta per  cento, disciplinato, segue le scritte, il dieci per cento no, va da un’altra parte. Sono i veterani, quelli che a Venezia ci sono già stati, trent’anni prima, in gita, in viaggio di nozze, sanno che c’è la scorciatoia e al primo cartello svoltano dall’altra parte … e i se perde! Gli altri segue le frecce; i primi metri con l’entusiasmo, con la faccia radiosa: “Cultura … te magno!”… Attraversato il ponte sono alla Madonna della Salute a invocar la Vergine di ritrovar almeno quella che avevano la mattina, quando sono arrivati. Poi di nuovo musei, ponti, calli, salizade, sulla strada del ritorno la guida infila ancora un: “Ci sarebbe da vedere Palazzo Contarini, con la scala del Bovolo, che i turisti di solito non vedono”. E allora vedi i piedi che fanno, uno contro l’altro: “’ndemo casa…” e la faccia che invece osa: “No! Cultura, te magno …” Devono espiare una vita di ignoranza…
Torno in barca… E va un po’ meglio, perché allargo il giro, faccio anche sette - otto metri, di circonferenza, no diametro.
E anche voi, se passando sul ponte, o alzandovi in volo, vedete sulla carta della Laguna uno in barca, che va avanti girando, per adesso, quello sono io. E io qua sono arrivato sul quaderno e qua mi fermo. Anche perché non ho mai pensato che nella vita, per procedere, si debba necessariamente andare in linea retta.
 

Luis Sepulveda
Le rose di Atacama

Sognare si scrive con la S di Salgari
In uno dei miei sogni di bambino, Sandokan veniva gravemente ferito mentre affrontava dei negrieri olandesi e il fedelissimo Yanez non era al suo fianco: ma c’ero io, pieno d’angoscia, vicino all’eroe accasciato, e lottando con le lacrime chiedevo alla Tigre della Malesia cosa dovevo fare. “Cerca Yanez. Punta la nave a vele spiegate sul Madagascar” mi rispondeva Sandokan. Molto tempo dopo, nel 1984, mentre mi trovavo in Mozambico, feci di nuovo lo stesso sogno in una stanza dell’hotel Siviglia, a Maputo. Così raccolsi le mie cose e salii a bordo di una barca di pescatori che navigava verso Est seguendo la linea del Tropico del Capricorno...Dopo due giorni di placida navigazione, i pescatori mi lasciarono a Tuléar, una bella città circondata da mangrovie. Qualcosa di inesplicabile mi disse che avrei trovato Yanez viaggiando sulle strette piste del versante occidentale, e così ebbi occasione di conoscere Mania, Morondava, Bejo, Maintirano e Marovoa. In mezzo all’esuberante selva d’ebano, legno di rosa, palissandro e rafia, spuntano all’improvviso le piantagioni di zucchero e tabacco e le coltivazioni di alberi delle spezie. La vecchia ferrovia attraversa regioni dove l’aria umida impregna la pelle con gli aromi del chiodo di garofano, della cannella, del pepe e della noce moscata, come se la natura profumasse il viaggiatore prima che questi conosca le belle, bellissime donne malgasce che sembrano nate, sotto ogni punto di vista, dalla penna di Salgari. Altere ed enigmatiche, hanno un’andatura quasi irreale perché si potrebbe giurare che i loro piedi non tocchino terra. Una notte, in una taverna di Tamatave, iniziai a preoccuparmi perché di Yanez non avevo trovato la minima traccia, così, per riflettere meglio, mi bevvi qualche bicchiere del buon rum dell’isola e fumai uno di quei sigari che le donne malgasce fabbricano arrotolandoli sulle loro cosce generose. All’improvviso, senza rendermene conto, le mie mani si unirono al ritmico tamburellare delle dita sui tavoli e mi lasciai trasportare dai narratori di storie che parlavano di giorni molto lontani, di una libertà rubata da negrieri olandesi e francesi, di una Polinesia a cui i malgasci tornano ogni notte sulla stupefacente nave del tabacco e del rum, la stessa barca infinita dei sogni dove finalmente trovai Yanez e seppi che Sandokan era di nuovo in piedi, in buona, in ottima salute, pronto ad affrontare altri combattimenti, perché le ferite degli eroi letterari guariscono in fretta con il balsamo della lettura.


Gertrude Kolmar
Il canto del gallo nero (Berlino, 10.12.1894 - Auschwitz,1943)

La viaggiatrice
Tutti i treni del mondo sbuffano nelle mie mani,
tutti i grandi porti dondolano battelli per me,
tutte le strade dei pellegrini si slanciano nelle pianure,
prendono congedo qui, perché, all’altro capo,
lieta di salutarle, sto io, sorridente.

Potessi solo afferrare un lembo del mondo,
trovassi anche gli altri tre, annoderei il fazzoletto,
lo appenderei a un bastone e appoggerei sul mio dorso
la palla della terra con le guance arrossate,
coi semi bruni e l’odore di calvilla.

Pesanti griglie di bronzo sferragliano lontano il mio nome,
un gobbo casolare spia in agguato i miei passi;
immagini smarrite lontano rientrano nelle cornici,
la nostalgia del cieco e i desideri dello storpio
riempiono il mio bicchiere da viaggio ed io avida bevo.

Le braccia nude che lottano, solco i mari profondi,
attiro il cielo dentro i miei occhi di luce.
Verrà prima o poi il tempo di fermarmi al segnavia,
controllare le magre scorte, avviarmi esitante verso casa,
non essere altro che sabbia nelle scarpe di quelli che
verranno.


Francesco Guccini
dall’album L’isola non trovata, 1970
(Canzone tratta dalla poesia "La più bella" di Guido Gozzano, 1913)

L’isola non trovata
...ma bella più di tutte l' isola non trovata,
quella che il Re di Spagna s' ebbe da suo cugino,
il Re di Portogallo, con firma suggellata
e bulla del pontefice in Gotico-Latino...

Il Re di Spagna fece vela cercando l' isola incantata,
però quell' isola non c'era e mai nessuno l'ha trovata:
svanì di prua dalla galea come un' idea,
come una splendida utopia, è andata via e non tornerà mai più...

Le antiche carte dei corsari portano un segno misterioso
ne parlan piano i marinai con un timor superstizioso:
nessuno sa se c'è davvero od è un pensiero,
se a volte il vento ne ha il profumo è come il fumo che non prendi mai!

      
Franz Kafka
Racconti

Il villaggio vicino
Mio nonno soleva dire: “La vita è incredibilmente breve. Oggi, nel ricordo, mi si accorcia a tal punto che a malapena, per esempio, riesco a concepire come un giovanotto possa decidere di recarsi a cavallo fino al villaggio vicino senza il timore che, a prescindere da accidenti sfortunati, il tempo stesso di una vita normale e serenamente vissuta sia di gran lunga inadeguato a tal viaggio.”

Un messaggio dell’imperatore
L’imperatore – così si dice – ha inviato a te, proprio a te individuo singolo, miserrimo tra i sudditi, a te che davanti al sole imperiale sei fuggito come futile ombra nella più remota lontananza, un messaggio dal suo letto di morte. Accanto al letto ha fatto inginocchiare un messo e gli ha bisbigliato all’orecchio il messaggio; e ci teneva tanto, che se l’è fatto ripetere a sua volta all’orecchio; poi, con un cenno del capo, ne ha confermato l’esattezza. E al cospetto di tutto il pubblico presente alla sua morte – i muri cha fanno ostacolo sono demoliti, e sulle gradinate che si elevano alte e maestose fanno circolo i dignitari dell’impero – davanti a tutti costoro ha licenziato il messo. Questi si è posto subito in viaggio: uomo gagliardo, instancabile, muovendo ora questo ora quel braccio, si fa strada tra la folla; se incontra resistenza, addita sul suo petto il segno del sole; l’avanzare gli è facile come a nessun altro. Ma la folla è smisurata, le sue dimore non hanno fine. Se egli trovasse campo libero, come volerebbe! E ben presto udresti alla tua porta, imperioso, il rimbombo dei suoi pugni. Invece si affatica invano; sta ancora aprendosi il cammino attraverso le stanze del palazzo più interno; non riuscirà mai a superarle, e se anche ci riuscisse, sarebbe al punto di prima: dovrebbe battersi da leone per discendere le scale; e se anche questo gli riuscisse, sarebbe ancora nulla: gli rimarrebbe da attraversare  i cortili, e dopo i cortili la cerchia del secondo palazzo, e di nuovo scale e cortili; e poi un altro palazzo; e così via per millenni; e quando finalmente sbucasse dall’ultimissima porta – ma ciò non accadrà mai e poi mai -, si troverà dinanzi la città imperiale, il centro del mondo, colma fino all’orlo di tutta la sua feccia. Nessuno può venirne a capo, anche se sia latore del messaggio di un morto. Ma tu siedi alla finestra e immagini che giunga a te, quando scende la sera.


Mercanti di liquore
CD La musica dei poveri, 2002
            
Il viaggio non è l'emozione di attimi pericolosi,
il viaggio è la gioia del tempo,
pericolo è stare rinchiusi.

Direzione casuale, non prevede sosta,
chi viaggia detesta l'estate,
l'estate appartiene al turista.

Il viaggiatore viaggia solo
e non lo fa per tornare contento,
lui viaggia perchè di mestiere ha scelto il mestiere di vento.

Mischiare presente e ricordi, le strade possibili fatte,
fu forse salsedine o neve,
fu forse ponente o levante.

L'amore lasciato sospeso, qualcuno ne approfitterò
ma questo riguarda il ritorno
remota possibilità

Il viaggiatore viaggia solo
e non lo fa per tornare contento
lui viaggia perchè di mestiere ha scelto il mestiere di vento.
   
Se impari la strada a memoria di certo non trovi granché
se invece smarrisci la rotta
il mondo è lì tutto per te

Paese significa storia e storia significa lingua
impara la tua direzione
da gente che non ti somiglia

Il viaggiatore viaggia solo
e non lo fa per tornare contento
lui viaggia perchè di mestiere ha scelto il mestiere di vento.


Paul Gaugin
Noa Noa

Non sono più a Papeete ma nel distretto di Mataiea: da una parte il mare, dall’altra la montagna spalancata, grandioso crepaccio chiuso da un enorme gruppo di manghi addossato alla roccia...La notte calò rapidamente, Moorea dormiva. Il silenzio. Imparavo a conoscere il silenzio di una notte tahitiana.
Sentivo solo i battiti del cuore. Al chiarore lunare che vi filtrava attraverso distinguevo le canne della mia capanna allineate a intervalli regolari. Sembrava uno strumento musicale, lo zufolo degli antichi, che i tahitiani chiamano “Vivo”. Ma è uno strumento silenzioso per tutto il giorno; la notte, grazie alla luna, ci ripete nella memoria le arie amate. Mi addormentai con questa musica. Tra me e il cielo solo il grande tetto alto e leggero di foglie di pandano dove abitavano le lucertole. Nel sonno potevo immaginare lo spazio libero sopra la testa, la volta celeste, le stelle. Ero ben lontano dalle prigioni, le case europee. Una capanna Maori non esilia, non ritaglia l’individuo dalla vita, dallo spazio, dall’infinito. Ma mi sentivo molto solo. Da una parte e dall’altra, gli abitanti del distretto e io ci osservavamo, e la distanza tra noi restava immutata. Il giorno seguente le provviste erano già esaurite. Che fare? Avevo creduto di trovare tutto ciò che mi serviva con il denaro. Errore! Per vivere bisogna rivolgersi alla natura che è ricca e generosa: non rifiuta niente a chi le chiede la sua parte di tesori che custodisce nelle sue riserve, sugli alberi, nelle montagne, nel mare. Ma bisogna sapersi arrampicare sugli alberi alti, andare sui monti e scenderne carichi di fardelli pesanti, prendere il pesce, immergersi e strappare al fondo marino i frutti solidamente attaccati allo scoglio. Al momento dunque io, l’uomo civilizzato, ero inferiore ai selvaggi che vivevano felici intorno a me, in un luogo in cui il denaro, che non proviene dalla natura, non può servire ad acquistare i beni primari che questa produce; e mentre a stomaco vuoto meditavo tristemente sulla mia situazione, vidi un indigeno che gesticolava gridando rivolto a me. I gesti molto eloquenti traducevano la parola e compresi: il vicino mi invitava a pranzo. Ma ebbi vergogna e con un gesto della testa rifiutai. Qualche minuto dopo, una ragazza deponeva sulla soglia della mia porta, senza dire nulla, del cibo tutto ben disposto su foglie fresche appena raccolte, poi si ritirò.


Paolo Rumiz
La leggenda dei monti naviganti

“Immanis horribilisque specus”
Stasera il Lazio comincia con strade deserte e villaggi senza una luce; come se un diserbante avesse annichilito ogni presenza umana. La capote fischia nel vento, l’abitacolo è pieno di profumi nuovi. Mi accorgo che senza il mio macinino crivellato di fessure non percepirei nulla della metamorfosi in atto. In vista del Gran Sasso, punto di mezzo della traversata appenninica, il paesaggio ha assunto colori pastello e oblunghe forme bosniache. Le valli non hanno più l’andatura tosco-emiliana a spina di pesce. I passi di montagna sono diventati “forche”, nome presago di sventure per le legioni. In soli cento chilometri, l’eremo di Fonte Avellana sembra già un sogno nordico, lontano come Cluny, o la Wittemberg di Martin Lutero.
Molto era cambiato già sopra Piòraco, tra Camerino e Nocera Umbra, in un’alta prateria sigillata dai monti, coperta di papaveri e mandrie, dove mi avevano portato Mary e Ulrich, la coppia straniera di Seppio. Il luogo era benedetto da una grotta – introvabile sulle guide – dove il beato Bernardo di Quintavalle, primo compagno di san Francesco, si ritirava in solitudine in vista del Monte Pennino. Ma il grande salto era avvenuto al Passo di Gualdo, quota 1500, improvvisa finestra su pascoli di una bellezza arcadica, lisci come piccoli aeroporti in mezzo alle montagne. Il mio sentiero partigiano aveva varcato una soglia, si trovava in bilico su qualcosa che non era solo lo spartiacque tra i due mari.
Nell’aria c’era qualcosa di oscuro. L’avevo capito sui Monti Sibillini, dallo sguardo sibillino della banconiera dell’hotel Sibilla, un occhio fenicio – grigio con le pagliuzze d’oro – che, dal fondo di una penombra abitata da risa femminili e profumata di lenticchie e ragù, mi diceva: “Attento, stai entrando in terre arcane”. E anche se fuori, sulla piana del Castelluccio, silenziosi deltaplani volavano su praterie sfolgoranti di sole e neve fresca, tutt’intorno posti come il Monte Utero, la Macera di Morte o le gole dell’Infernaccio mi parlavano di negromanzia. Bastavano i loro nomi a dirmi che stavo sfiorando l’orlo dell’abisso...In una vecchia guida del luogo potevo leggere testi medioevali pieni di demoni, fate viaggianti, iniziazioni e fantastici voli notturni. La Sibilla era solo l’inizio.
Entravo in un territorio a sud-est dove l’invisibile prendeva il sopravvento.


Bruce Chatwin
In Patagonia

Capitolo 58
Miss Starling era un’inglese piccolina, agile, con corti capelli bianchi, polsi sottili e uno sguardo estremamente deciso. Da giovane Miss Starling era fotografa, ma imparò a disprezzare la machina fotografica. “Una tale guastafeste” disse. Lavorò poi in un ben noto vivaio dell’Inghilterra meridionale. Si interessava particolarmente di cespugli fioriti, che erano il suo modo di evadere da una vita scialba e monotona, tutta occupata dalle cure che doveva prestare alla madre costretta a letto. Cominciò a sentirsi parte della loro vita. Le facevano pena, piantati contro natura nelle aiuole del vivaio, o messi in vaso nelle serre. Le piaceva immaginarseli liberi e selvatici, sulle montagne o nelle foreste, e nella sua immaginazione viaggiava nei luoghi segnati sui cartellini.
Quando le morì la madre, Miss Starling vendette la casa con quanto c’era dentro. Comprò una valigia leggera e regalò i vestiti che non avrebbe più messo. Riempì la valigia e la portò per un tratto di strada, controllandone il peso. Miss Starling non aveva fiducia nei facchini. Mise però nella valigia un abito lungo da sera.
“Non si sa mai dove puoi andare a finire” disse.
Aveva viaggiato per sette anni, sperando di poter continuare a viaggiare fino all’ultimo. I cespugli fioriti erano i suoi compagni. Sapeva dove e quando sarebbero fioriti. Non prendeva mai l’aereo, e si pagava i viaggi dando lezioni di inglese o con lavori saltuari di giardinaggio.
Aveva visto i pascoli sudafricani avvampare di fiori; e i fiori e i corbezzoli dell’Oregon; le pinete della Columbia Britannica; e la straordinaria flora selvatica dell’Australia Occidentale, isolata dal deserto e dal mare. Aveva visto i giardini di ciliegi e i giardini zen di Kyoto e i colori autunnali a Hokkaido. Adorava il Giappone e i Giapponesi.
Miss Starling sarebbe andata in Nepal per vedere le azalee “non il prossimo maggio, ma quello dopo”.


Oscar Wilde
Aforismi

C’è solo una cosa peggiore del viaggiare,
ed è non viaggiare affatto.

 

Tiziano Terzani
In Asia

Nuova Delhi, maggio 1997
“ Perché vivi in India?” mi sento chiedere ogni volta che torno in Occidente. In tre anni avrei ben potuto trovare una risposta soddisfacente. Eppure ogni volta mi sento perso. Non ho difficoltà a spiegare che andai in Vietnam perché volevo capire la guerra e la rivoluzione, in Cina perché mi interessava il socialismo, in Giappone perché cercavo la modernità, in Thailandia perché volevo riposarmi di tutto quel cercare durato vent’anni.
“Ma come si vive in India?” insiste la gente
“ Male, ma s’impara a morire, e anche quella è un’arte da mettere da parte” m’è venuto da dire recentemente nel corso di una cena. […]
L’India ti ricorda in continuazione la tua caducità, ma è anche vero il contrario. Sì, ti prende per la gola, ti prende allo stomaco, ti prende alle spalle, ti prende in giro ma è proprio con quelle sue mille costanti, aggressive, ripugnanti contraddizioni che l’India ti dà stranamente anche pace.


Jason Elliot
Una luce inattesa

La mente occidentale è abituata a pensare il proprio cammino nella vita. Il problema della consuetudine è che si tende a giudicare ogni evento nei termini di qualcos’altro, invece di farne esperienza esattamente per quello che è : le definizioni di successo e fallimento, gioia e difficoltà rischiano così di essere pregiudiziali. Nulla come un viaggio in Asia,  che inizia con una serie di inconvenienti e sfide fisiche che minano alla base le nostre convenzioni sul tempo, le distanze,le risposte della gente, è in grado si scuotere le definizioni e il senso del sé che si radica in quei principi.
L’Asia è differente : spalanca una porta inconsueta per fare esperienza del mondo.


Ryszard Kapuscinski
Ebano

L’europeo e l’africano hanno un’idea del tempo completamente diversa, lo concepiscono e vi si rapportano in modo opposto.
Nel concetto europeo il tempo esiste obiettivamente indipendentemente dall’uomo, al di fuori di esso, ed è dotato di qualità misurabili e lineari.
L’europeo si sente schiavo del tempo, ne è condizionato, è il suo suddito in tutto e per tutto.
Tra l’uomo e il tempo esiste un conflitto indissolubile che si conclude inevitabilmente con la sconfitta dell’uomo : il tempo annienta l’uomo.
Gli africani autoctoni, invece, intendono il tempo in modo completamente opposto.
Per loro si tratta di una categoria molto più flessibile, aperta, elastica, soggettiva. E’ l’uomo che agisce sul tempo, sul suo corso e ritmo. Il tempo è addirittura qualcosa che l’uomo può creare : infatti l’esistenza del tempo si manifesta attraverso gli eventi, e che un evento abbia luogo oppure no dipende dall’uomo.
Se due eserciti non si danno battaglia, la battaglia non avrà luogo.


Ella Maillart
Oasi proibite

D’improvviso ecco la sera della partenza.
Nel pomeriggio ho detto addio ai palazzi imperiali, meraviglia della Città Proibita; addio e non arrivederci, poiché un ritorno a Pechino potrebbe significare soltanto uno scacco a cui non voglio pensare. Sto per abbandonare la civiltà e tutto ciò che essa comporta quanto a tesori d’arte, raffinatezza, comfort : letti, vasche da bagno, giornali pieni di notizie dal mondo intero, poltrone, posta, frutta, medici, biancheria pulita e calze di seta.
Parto verso il Medioevo, o addirittura, verso l’Età del Bronzo.
Un taxi, in cui sono stipati tutti i nostri bagagli, non vuole partire-infausto presagio- e noi quattro lo spingiamo con tutte le nostre forze.


Boccazzi Cino
La via dell’incenso

Dell’antichissima via dell’incenso, che tenteremo di percorrere, non c’è evidente traccia, solo si indovina dai passi montani, dai punti d’acqua, dai mucchi di pietre, tombe di morti ignoti. Come in altri luoghi del deserto è rimasto nell’aria un senso indefinibile, come un lontanissimo eco di voci che fa comprendere che per millenni son passati degli uomini che hanno lasciato, i più antichi, come durevole traccia, frecce di pietra, raschiatoi, asce che il vento scopre e ricopre come un’onda che va e viene sulla spiaggia. Ora siamo noi a percorrere questa antichissima via, ma non coi cammelli.
Oggi non c’è più tempo e usiamo i fuoristrada su cui non si ammucchiano gli antichi carichi odorosi. Vedremo in giorni quello che chi ci ha preceduto ha visto in anni e quando useremo l’elicottero per attraversare i grandi deserti, ci sembrerà ancora di rivedere la traccia della pista, perché dall’alto la sabbia pare pure chiara, l’itinerario più logico e già vediamo lontanissima la prossima tappa.


Bruce Chatwin
Le Vie dei Canti

Sapevo dalla prozia Ruth che l’Australia era il paese di Quelli a testa in Giù. Se dall’Inghilterra si scavava fin dall’altra parte della terra, si sbucava sotto i loro piedi. “ Come fanno a non cadere giù?”
“ E’ la forza di gravità” diceva lei sottovoce.
Nella sua biblioteca aveva un libro sul continente australiano e io guardavo stupefatto il koala e il kookaburra, l'ornitorinco e il sarcofilo, il Vecchio Uomo Canguro e il Dingo Cane Giallo, e il ponte della baia di Sidney. Ma la mia preferita era la fotografia di una famiglia aborigena in marcia. Erano scarni e ossuti, e andavano in giro nudi. Avevano la pelle molto nera, non il nero lucido dei negri, ma un nero opaco, come se il sole avesse risucchiato qualsiasi possibilità di riflesso.
L’uomo aveva una lunga barba biforcuta e portava un paio di lance e un arnese per scagliarle.
La donna portava una sacca di fibra intrecciata e aveva un neonato al seno.
A fianco trotterellava un bambino, e io mi identificavo con lui.


Edward M. Forster
Passaggio in India

Anche il cielo ha i suoi mutamenti, ma meno accentuati di quelli della vegetazione e del fiume. Talvolta le nuvole lo intarsiano, ma per lo più è una cupola di colori mescolati, e quello che predomina è l’azzurro. Di giorno l’azzurro sbiadisce nel bianco dove tocca il bianco della terra, dopo il tramonto ha un nuovo orizzonte-arancione, che in alto si stempera nella porpora più delicata.
Ma la nota centrale dell’azzurro rimane sempre e questo anche di notte. Allora le stelle pendono come lampade dalla volta immensa. La distanza tra loro e la volta non è nulla in confronto alla distanza alle loro spalle, e quella distanza più lontana, sebbene di là dal colore, si liberava per ultima dall’azzurro.
Il cielo regola tutto- non soltanto i climi e le stagioni, ma anche il momento che la terra deve essere bella. Da sola lei può far poco-appena qualche debole erompere di fiori.
Ma quando il cielo lo decide la gloria può piovere nei bazar di Chandrapore o una benedizione può passare da orizzonte a orizzonte.
Questo il cielo può fare perchè è forte e così enorme.


Guido Piovene
De America

La cucina della Virginia, questa cucina delicata, molle, cremosa, di stufati, d’intingoli, di pasticci, di pasta gratinata, di sfogliate, di marmellate; basata sulla crema di latte e miele, senza grassi animali; non italiana, né francese, né certo americana d’oggi, l’ho conosciuta una volta nella mia vita.
Salvo l’uso del miele è una certa cucina, oggi quasi scomparsa, del Veneto della mia infanzia. Mi sono chiesto la ragione di questa strana concordanza. Penso che in entrambi i casi, si tratti della grande cucina internazionale settecentesca, che nella Virginia perdura. Per gli americani, ogni giorno più avidi di conoscere la propria storia, e di conoscere in tal modo se stessi, la Virginia è una terra di memorie. Si scorgono sul litorale i segni dei primi sbarchi e un po’ più addentro le prime arcaiche piantagioni, intorno a graziose ville dagli antichi mobili inglesi, conservate quasi a museo, eppure ancora attive.


Carlo Levi
La doppia notte dei tigli

Dopo infiniti andirivieni, è infine l’ultima sera.
Ho visto le ore diverse che fanno di ogni giornata un mutarsi di stagioni, una conquista delle strade da parte di popolazioni differenti, un cambiare di colori, di trasparenze di atmosfera, di odori; le facce operaie e quelle borghesi : e già in così poco tempo, i visi cominciano a perdere il loro rilievo per appiattirsi nella consuetudine. Già cominci a sentirti come in una stanza, a distinguere il luogo del rumore di un treno che passa sul ponte, dallo spazio d’aria che rivela un lume lontano.
Ma, come una girandola a spicchi bianchi e neri che gira vorticosamente appare uniformemente grigia, il mio continuo passaggio tra l’una e l’altra Berlino, pur mostrandone sempre più le radicali differenze, finiva per darmene un’immagine di un solo colore; e l’arcobaleno delle ore, dei luoghi, dei contrasti, dei costumi, dei sentimenti, andava perdendo il suo iride variato, per apparirmi talvolta uniforme e notturno come un grande arco nero.